Ammissione delle prove

Alessandro Farolfi
21 Marzo 2016

La fase di ammissione delle prove costituisce uno degli snodi fondamentali del processo civile, ispirato come è noto dalla regola fondamentale dell'onere della prova, per cui «chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento» (art. 2697, comma 1, c.c.), a sua volta riconducibile all'adagio «actore non probante reus absolvitur». Il tema è destinato ad intrecciarsi strettamente con argomenti quali la disponibilità e la valutazione delle prove, nonché il principio di non contestazione, alle cui voci specifiche si rimanderà volta a volta, in questa sede richiamando unicamente gli aspetti fondamentali per favorire la comprensione dell'argomento trattato.
Inquadramento

La fase di ammissione delle prove costituisce uno degli snodi fondamentali del processo civile, ispirato come è noto dalla regola fondamentale dell'onere della prova, per cui «chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento» (

art. 2697, comma

1

,

c.c.

), a sua volta riconducibile all'adagio «actore non probante reus absolvitur». Il tema é destinato ad intrecciarsi strettamente con argomenti quali la disponibilità e la valutazione delle prove, nonché il principio di non contestazione, alle cui voci specifiche si rimanderà volta a volta, in questa sede richiamando unicamente gli aspetti fondamentali per favorire la comprensione dell'argomento trattato.

Il Legislatore del 1990-95 ha ispirato la riforma del processo ordinario di cognizione civile basandosi su di un sistema progressivo di preclusioni volto a condurre la causa verso la sua decisione, evitando l'utilizzo di tecniche dilatorie proprie del c.d. «vecchio rito» ed avendo quale modello, sia pure temperato dalla legge 20 dicembre 1995 di conversione del

D.L. 18 ottobre 1995, n. 432

, il «rito lavoristico». In tale ottica è stata prevista una serie di barriere preclusive via via più stringenti sotto il profilo assertivo, quali, sinteticamente:

  • la tempestiva costituzione del convenuto ai fini delle decadenze di cui agli

    artt. 166

    e

    167 c.p.c.

    (per le domande riconvenzionali, chiamate di terzo e – dopo le modifiche operate nel 2005 – anche per le eccezioni non rilevabili d'ufficio);
  • l'udienza di trattazione per la reconventio recoventionis e la chiamata di terzo dipendente dalle difese del convenuto da parte dell'attore.

Inoltre, abbandonata la distinzione fra la c.d. «appendice scritta» di cui all'

art. 183

, comma 5,

c.p.c.
, per la precisazione di domande ed eccezioni e la successiva concessione di appositi termini per memorie istruttorie previste dal previgente

art. 184 c.p.c.

, con la

l. n. 80/2005

si è adottato un sistema «misto», che vede la sostanziale coincidenza di termini assertivi e la formulazione delle istanze istruttorie, assistendo perciò alla sovrapposizione dei momenti in cui si delimita il thema decidendum e quello probandum: il fondamentale

art. 183, comma 6,

c.p.c.

afferma, infatti, che «se richiesto» il giudice assegna alle parti i seguenti e consecutivi termini, definiti espressamente come «perentori» (si ricorda che l'

art. 153 c.p.c.

avverte che – con l'eccezione della rimessione in termini per cause non imputabili – i termini perentori non possono essere abbreviati o prorogati, neppure con l'accordo di tutte le parti):

  • 30 giorni per il deposito di memorie concernenti la precisazione e modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni già rese;
  • ulteriori 30 giorni per replicare a domande ed eccezioni nuove o modificate e per proporre eccezioni che siano conseguenza di tali domande o eccezioni, nonché per l'indicazione dei mezzi di prova e produrre documenti;
  • successivi 20 giorni per le sole indicazioni di prova contraria.

La dottrina processualistica ha in genere sollevato obiezioni rispetto a tale opzione, vedendo nel secondo dei termini indicati un momento di particolare criticità, posto che il suo spirare determina contemporaneamente la fissazione del thema decidendum ed il termine ultimo entro il quale le parti possono avanzare le proprie richieste istruttorie c.d. dirette (ossia quelle rivolte fondamentalmente a dimostrare i fatti posti alla base delle proprie domande ed eccezioni, e non semplicemente a contrastare le altrui richieste istruttoria, come avviene con le c.d. prove contrarie). Ma tant'è: tale sistema preclusivo regge il processo civile ordinario da almeno dieci anni e costituisce il destro per un dibattito che non accenna a diminuire, occasionando anzi, come subito si vedrà, un recente intervento delle S.U. sui concetti di mutamento o modifica delle domande (ed eccezioni) di parte.

In un tale contesto, il tema dell'ammissione delle prove si sovrappone alla tradizionale distinzione fra prove precostituite (le quali producono il proprio effetto dimostrativo e di convincimento senza necessità di alcun provvedimento giudiziale, entrando nel processo attraverso la semplice offerta o produzione di parte: es. tipico i documenti) e prove costituende, che invece richiedono l'espletamento di un procedimento di acquisizione al processo attivato da un provvedimento giudiziale che ne opera un vaglio preventivo, necessario affinchè la potenziale efficacia dimostrativa della prova possa acquisire attualità e concretezza nel processo.

Thema decidendum e giudizio di rilevanza

Un primo ed ineludibile momento della decisione del giudice sulle richieste di prova delle parti è rappresentato dal loro confronto con i fatti posti alla base delle domande e delle eccezioni di parte. Il giudizio di rilevanza, quindi, secondo un significato che come si vedrà è destinato ad assumere maggiore complessità rispetto al concreto comportamento processuale delle parti, implica una valutazione positiva circa la potenziale idoneità della richiesta di prova a dare dimostrazione di fatti costituenti l'oggetto del giudizio ed effettivamente controversi. A tale fine è richiesta la semplice potenzialità dimostrativa, giacché il vaglio giudiziale opera ex ante rispetto al concreto svolgimento della prova costituenda (ad esempio testimonianza o interrogatorio formale) e non può essere esclusa sol perché appare aprioristicamente inverosimile che l'esito dello svolgimento dell'istruttoria possa produrre effetti positivi per la parte che ne ha invocato l'ammissione.

Accanto alla valutazione della conformità della richiesta istruttoria al suo modello legale di riferimento od all'inesistenza di disposizioni limitative (c.d. giudizio di ammissibilità), il giudice è quindi chiamato a valutare l'utilità della richiesta istruttoria (a prescindere cioè dal suo effettivo esito) a dare dimostrazione dell'esistenza o dell'inesistenza dei fatti la cui conoscenza è necessaria per poter decidere sulle domande ed eccezioni formulate dalle parti Per tale motivo questa delibazione, sia pur formulata con una ordinanza modificabile e revocabile sino alla sentenza, contiene in sé un primo momento decisorio che individua i fatti del giudizio e li sussume (sia pur provvisoriamente) in concrete fattispecie normative, al fine di giudicare del rilievo o meno delle istanze istruttorie di parte (tradizionalmente, frustra probatur quod probatum non relevat).

Sulla delimitazione del thema decidendum del giudizio, che avviene secondo la scansione temporale sopra ricordata, si devono tenere ben presenti i concetti di mutatio ed emendatio libelli. Come è noto, si parla tradizionalmente di mutatio libelli, quando la parte non si limita alla modificazione di una domanda, ma la innova completamente, introducendo ad esempio una nuova causa petendi o un diverso petitum, sì che la domanda giudiziale così radicalmente mutata deve ritenersi in realtà una domanda nuova. Si parla invece di emendatio libelli quando la domanda giudiziale viene dalla parte interessata semplicemente modificata o meglio precisata, continuando a muoversi nell'alveo della originaria richiesta. Tale distinzione a sua volta presuppone la corretta delimitazione dei diritti autodeterminati (in cui il confine della domanda coincide con la stessa affermazione del diritto, per cui l'indicazione dei fatti costitutivi ne rappresenta un elemento accessorio modificabile: es. il diritto di proprietà) e dei diritti eterodeterminati (nei quali il riferimento alla fattispecie ed ai fatti concreti concorre alla individuazione del confine giuridico del diritto stesso, per cui la modifica del fatto introduce una domanda nuova: es. i diritti di obbligazione).

Su tale ricostruzione è intervenuta recentemente

Cass. civ., S.U., 15 giugno 2015, n. 12310

, rimeditando i confini fra le due situazioni appena ricordate. Poiché l'

art. 183

,

c

o

mmi

5 e 6 c.p.c.

consente alle parti di «precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate» nella prima udienza o, se richieste, nelle memorie ex art. 183 comma 6, n. 1, risulta molto spesso essenziale distinguere fra domanda nuova o domanda semplicemente modificata (e quindi ammissibile) posto che, per restare al tema dell'ammissione delle prove, sarebbero del tutto irrilevanti richieste di dimostrazione probatoria relative ai fatti costitutivi di una domanda inammissibile ed il giudice dovrebbe più correttamente, già in questa fase, non ammettere tali richieste istruttorie giudicandole irrilevanti ai fini della decisione del giudizio. Le S.U. appena ricordate hanno – sia pure con riferimento ad una fattispecie concreta già sufficientemente consolidata in senso positivo, come il passaggio dalla domanda costitutiva

ex

art. 2932 c.c.

alla domanda di accertamento dell'intervenuto trasferimento della proprietà in forza del medesimo contratto ma qualificato come definitivo e non semplice preliminare di compravendita – affermato che «la modificazione della domanda ammessa a norma dell'

art. 183 c.p.c., può riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi)», quando tale modifica costituisca la soluzione più adeguata agli interessi della parte in relazione alla vicenda sostanziale dedotta in lite

»; infatti, non sussistendo un divieto espresso in primo grado simile a quello posto in appello dall'

art. 345 c.p.c.

, secondo il pensiero della S.C., l'emendatio libelli consentita non può risolversi in una variazione di aspetti marginali della domanda iniziale ovvero in una mera diversa qualificazione giuridica del fatto costituzionalmente dedotto poiché, accedendo a tale riduttiva interpretazione, si finirebbe col contraddire la lettera e la logica della norma, si violerebbe il principio di conservazione degli atti, si inciderebbe sulla ragionevole durata del processo, si rischierebbe il contrasto tra giudicati e, dunque, si inciderebbe negativamente sulla vicenda «sostanziale ed esistenziale» in quanto il giudice sarebbe chiamato a conoscere la questione in maniera artificiosamente frammentata. L'unico limite della modifica della domanda, che poi costituisce il vero discrimen tra ammessa emendatio ed inammissibile mutatio è che «l'originario elemento identificativo soggettivo delle persone rimanga immutato e che la vicenda sostanziale sia uguale, o quantomeno collegata (recte «connessa a vario titolo») a quella dedotta in giudizio con l'atto introduttivo».

Tale corretta distinzione, da svolgersi in concreto e non semplicemente in astratto, ha una forte incidenza sul giudizio di rilevanza delle prove affidato al giudice: soltanto rispetto ai fatti relativi a domande ed eccezioni ammissibili può infatti porsi un problema di idoneità o meno delle relative istanze istruttorie, in caso negativo non dovendosi ammettere tale richiesta di prova e, ove non vi siano altri fatti controversi, passare immediatamente alla fase decisoria del giudizio, così come apertamente consentito dall'

art. 183, comma

7 c.p.c.

, nella parte in cui afferma «salva l'applicazione dell'articolo 187, il giudice provvede sulle richieste istruttorie fissando l'udienza di cui all'articolo 184 per l'assunzione dei mezzi di prova ritenuti ammissibili e rilevanti».

Principio di non contestazione (cenni)

Nel rinviare per più ampio riferimento all'apposita voce, si deve qui evidenziare che così come la delimitazione del corretto ed ammissibile thema decidendum del giudizio incide sulla rilevanza o meno delle richieste istruttorie, così lo stesso comportamento processuale delle parti – al di là dello schema legale astratto di riferimento – può incidere sulla individuazione dei fatti realmente controversi e quindi necessitanti di dimostrazione nel corso del giudizio.

Viene in rilievo il c.d. principio di non contestazione, oggi codificato nell'

art. 115 c.p.c.

modificato dalla

l. n. 69/2009

, secondo cui il giudice deve porre a fondamento della decisione «le prove proposte dalle parti…nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita».

Tale principio sta a significare che soltanto rispetto ai fatti specificamente e concretamente contestati può porsi e in effetti si pone un problema di onere della prova, nel senso che al di là del riparto astratto discendente dalla fattispecie sostanziale dedotta in giudizio, un contegno di non contestazione o generica doglianza adottato dalla controparte costituita può determinare la c.d. pacificità del fatto e quindi la non necessità – per la parte che lo aveva allegato – di offrirne la dimostrazione probatoria.

La giurisprudenza ha da tempo chiarito (a partire da

Cass. civ., S.U., 23 gennaio 2002, n. 761

) che «gli artt. 167 comma 1 e 416 comma 3, imponendo al convenuto l'onere di prendere posizione sui fatti costitutivi, fanno della non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con conseguenti effetti vincolanti per il Giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, proprio per la ragione che l'atteggiamento difensivo delle parti, valutato alla stregua di siffatta regola di condotta processuale, espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti».

Poiché la giurisprudenza successiva ha ampliato questa affermazione, fondandola non soltanto sul principio dispositivo ma anche sull'esistenza di un meccanismo di ordine logico giuridico improntato alla speditezza processuale ed alla semplificazione motivazionale, oggi imposti dalla regola costituzionale della «ragionevole durata del processo» di cui all'

art.

111 Cost.

, si può oggi affermare che il principio di non contestazione rappresenta uno dei cardini del moderno processo civile, operando non quale nuova prova «legale», bensì come relevatio ab onere probandi, cioè come condotta processuale che dispensa la controparte dall'onere di dare dimostrazione del fatto non specificamente contestato.

Tale principio ha, pertanto, un fortissimo impatto sul giudizio di rilevanza delle prove affidato al giudice, nel senso che la richiesta di dimostrazione probatoria di un fatto in realtà pacifico, perché non adeguatamente contestato dalla controparte, dovrà essere ritenuta irrilevante, in quanto superflua ai fini della decisione della controversia. Al contempo, tuttavia, questo è il limite principale del nuovo principio, la non contestazione deve riguardare fatti, non giudizi o qualificazioni giuridiche, e risente della possibilità di rilievo officioso di eccezioni impeditive od estintive del diritto affermato, così come della dimostrazione – desumibile aliunde da atti e documenti di causa – della inesistenza del fatto non specificamente contestato (cfr. sui limiti del principio di non contestazione

Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2015 n. 21176

).

Il giudizio di ammissibilità

Avverte l'

art.

183, comma 7, c.p.c.

che «il giudice provvede sulle richieste istruttorie fissando l'udienza di cui all'articolo 184 per l'assunzione dei mezzi di prova ritenuti ammissibili e rilevanti».

Il giudizio di ammissibilità della richiesta di prova rappresenta, quindi, il secondo ed ineludibile momento di giudizio che il giudice è chiamato ad operare – accanto alla ricordata valutazione di rilevanza – in ordine alle prove proposte o richieste dalle parti, ciò che determina (o meno) il passaggio alla vera e propria fase istruttoria del processo.

Valutare l'ammissibilità di una richiesta istruttoria significa verificare l'esistenza di regole negative in ordine alla legittimità od efficacia della stessa, ovvero, secondo diversa terminologia, la conformità o meno dell'istanza al modello legale di riferimento, potendo la distonia impedirne l'ingresso nel processo.

Vi possono essere distonie di ordine temporale, così come per la richiesta istruttoria tardivamente avanzata quando le relative preclusioni sono già maturate, di cui si dirà ai paragrafi successivi. Ma vi possono essere altri motivi ostativi, che attengono ai limiti sostanziali di efficacia della prova:

  • l'esistenza della forma scritta per la dimostrazione e l'efficacia in giudizio di contratti dei quali è richiesta la forma scritta ad substantiam (es.

    art. 1350 c.c.

    ) o ad probationem (es.

    artt. 1888,

    1928,

    1967,

    2556 c.c.

    );

  • i limiti all'ingresso nel processo della prova testimoniale relativa a determinati atti o fatti (es.

    artt. 2721

    ,

    2724,

    2725,

    2726 c.c.

    ), a volte comportante la necessità della preventiva dimostrazione di una circostanza atta a rimuovere il limite legale di ingresso della testimonianza (si pensi proprio all'

    art. 2725 c.c.

    in relazione al precedente

    art.

    2724 n. 3 c.c.

    , da cui si desume che la prova testimoniale di un contratto per cui è richiesta la forma scritta ad probationem è ammissibile soltanto da parte del contraente che fornisca la pregiudiziale dimostrazione di aver perduto senza propria colpa il documento che gli forniva la prova) ed in alcuni casi richiamati anche rispetto ad altri mezzi di prova (si consideri l'

    art. 2729

    ,

    co

    mma

    2

    ,

    c.c.

    , che esclude la prova per presunzioni nei casi in cui non è ammessa la prova testimoniale);

  • limiti relativi al fatto allegato (si pensi all'anteriorità o alla posteriorità del patto da provare in contrasto con il documento:

    artt. 2722 e 2723 c.c.

    );

  • limiti concernenti l'iter procedimentale (es. l'istanza di parte tempestiva rispetto a tutti i mezzi di prova non ammissibili d'ufficio);

  • limiti relativi alla disponibilità del diritto su cui viene invocata – mediante richiesta di interrogatorio formale – la confessione della controparte (

    art. 2731

    e

    2733 c.c.

    ) od il suo giuramento (in forza del rinvio contenuto nell'

    art. 2737 c.c.

    ).

Le preclusioni istruttorie

La riforma del 2005, consegnandoci il c.d. rito competitivo, ha determinato la soppressione della precedente (da taluni definita «stucchevole») trilogia di udienze, di cui all'

art. 180,

183

e

184 c.p.c.

. Del pari, rispetto alla precedente possibile concessione di quattro termini ordinatamente successivi (previsti due a due dai previgenti

artt. 183

comma 5 e

184 c.p.c.

), il rito vigente ci consegna tre termini successivi, contemplati dal già citato

art. 183 comma

6 c.p.c.

, destinati in modo misto e parzialmente sovrapponibile a delimitare in modo tendenzialmente non più modificabile sia il thema decidendum che il thema probandum, con la particolare criticità, già segnalata, del secondo di detti termini, destinato sia alle repliche assertive ed alle eccezioni conseguenti, che alle richieste di prova diretta ed alla produzione dei documenti (non costituenti prova contraria).

Va inoltre rimarcato che, mentre nel precedente rito i termini di cui all'

art. 183, comma

5

,

c.p.c.

erano «non superiori a trenta giorni» ed i termini

ex

art. 184 c.p.c.

non erano predeterminati, potendo il giudice di fatto concederli in modo anche assai dilatato in relazione alla gravosità del proprio ruolo complessivo, i tre termini oggi disciplinati dall'

art. 183

,

co

mma

6

,

c.p.c.

sono indicati dal legislatore in modo fisso nella sequenza di trenta, trenta e venti giorni consecutivamente successivi.

Si è discusso e si discute se la concessione dei predetti termini rappresenti, ove effettivamente richiesti, un obbligo per il giudice o una mera facoltà. A fronte di un indirizzo restrittivo, che muove dalla non avvenuta abrogazione dell'

art.

80-bis disp. att. c.p.c.

(che consente l'immediato passaggio alla fase decisoria), ve ne è uno, forse più seguito e ad avviso dello scrivente maggiormente condivisibile e rispettoso del contraddittorio, che ritiene doverosa la concessione dei predetti termini ove effettivamente richiesti anche soltanto da una delle parti del giudizio. Un argomento testuale in tal senso può desumersi anche dal successivo comma 7, da cui si evince che quando il giudice valuta le richieste di prova delle parti (e quindi dopo che le stesse sono state formulate), in quel momento può ritenere la causa già matura per la decisione fissando per la precisazione delle conclusioni, ai sensi dell'

art. 187 c.p.c.

, che se ritenute in tutto od in parte ammissibili e rilevanti potranno essere assunte in una successiva udienza, aprendo così la fase istruttoria vera e propria.

Del resto, ove la già citata sentenza delle S.U. 15 giugno 2015, n. 12310, venga applicata pedissequamente dalla giurisprudenza di merito, la concessione dei predetti termini – ove beninteso richiesti da almeno una delle parti processuali – non può che essere vista come un vero e proprio obbligo per il giudice, non potendo prima del maturare delle preclusioni assertive né avere effettiva contezza delle domande effettivamente proposte dalle parti nello specifico processo, ancora modificabili rispetto agli atti introduttivi negli ampi termini ammessi dal S.C., né avere contezza dell'effettivo contegno di non contestazione o meno tenuto dalle parti rispetto alle deduzioni in fatto della controparte.

Ovviamente resta la possibilità, più teorica che pratica, ma non aprioristicamente escludibile, in cui le parti abbiano già formulato tutte le proprie domande, eccezioni e richieste di prova negli atti introduttivi e rinuncino, pertanto, alla concessione della trattazione scritta (il «se richiesto» di cui al comma 6 cit.), ciò che determinerà l'onere per il giudice di decidere sulle istanze di prova immediatamente nel corso della prima udienza o, più probabilmente, con ordinanza riservata.

Altro caso, meno teorico, in cui effettivamente la concessione dei predetti termini può risultare superflua è quella in cui il giudice si avveda nel corso della prima udienza di un vizio non più emendabile con qualsiasi altra attività processuale o di una questione pregiudiziale assorbente (si pensi ad una incompetenza o ad una radicale inammissibilità della domanda giudiziale). In tale ipotesi, in cui cioè sia esclusa una qualsiasi prognosi di utilità della trattazione scritta rispetto alla possibilità di entrare nel merito del giudizio, la concessione dei già citati tre termini consecutivi appare in effetti superflua, pur dovendo ugualmente il giudicante concedere un termine per il contraddittorio nella ipotesi, non rara, in cui il vizio o la questione pregiudiziale siano stati da egli rilevati d'ufficio (argomentandosi dal divieto delle c.d. sentenze «della terza via»

ex

art. 101 c.p.c.

).

In definitiva, la mancata richiesta dei termini di cui all'

art. 183 comma

6 c.p.c.

o l'inutile spirare degli stessi, determina la preclusione dei poteri istruttori delle parti (rimediabile unicamente con la prova dell'incolpevole ritardo,

ex

art. 153, comma

2

,

c.p.c.

sostitutivo del previgente

art. 184

-bis

c.p.c.

, da cui consegue la c.d. rimessione in termini).

Va aggiunto che l'esistenza di preclusioni assertive ed istruttorie corrisponde ad una regola di ordine generale rispondente ad interessi pubblici e non unicamente privatistici delle parti, sì che la tardività di una richiesta istruttoria è questione sicuramente rilevabile d'ufficio, e le parti non possono – neppure con l'accordo di tutte – rinunciare ad una preclusione già maturata (cfr. sia pure con riferimento al rito previgente, Cass. civ., 25 novembre 2002, n. 15564 e

Cass.

civ.,

S.U.

3

febbraio 19

98, n. 1099

, la quale pur affrontando specificamente il tema dell'allegazione tardiva di fatti, al fine di distinguere fra mere difese - sempre consentite - ed eccezioni in senso proprio – precluse – ha affermato: «…pur in caso di eccezioni rilevabili ex officio, l'allegazione dei fatti non può andare disgiunta dalla prova della loro esistenza, sicchè … una tardiva allegazione finirebbe per incontrare un limite di utilizzabilità nelle ormai intervenute decadenze istruttorie…»).

Definitivamente accantonata è la questione (che si poneva rispetto al previgente

art. 184 c.p.c.

, il cui testo parlava di «nuovi mezzi di prova») della necessità di indicare mezzi di prova negli atti introduttivi, pena l'inammissibilità della successiva richiesta di concessione dei termini istruttori. Peraltro, già Cass. civ., n. 18150/2003,

Cass.

civ.,

n. 16571/2002

, avevano ritenuto che la mancata indicazione di prove nell'atto di citazione o nella comparsa di costituzione non comportasse alcuna preclusione nel rito ordinario e questa soluzione è oggi avvalorata dal testo del già citato

art. 183

,

comma

6

,

c.p.c.

Piuttosto, i termini perentori previsti da quest'ultima disposizione non si applicano soltanto alle richieste di prova costituenda (pur se solo rispetto a queste si pone quel doppio vaglio di ammissibilità e rilevanza che ne condiziona l'acquisizione e la formazione nel processo) ma anche ai documenti (espressamente

Cass.

civ.,

n.

5539/2004

e

Cass.

civ.,

n. 15646/2003

), mentre l'unico mezzo istruttorio nella disponibilità delle parti che sfugge al regime delle preclusioni è il giuramento decisorio di cui all'

art. 233 c.p.c.

, potendo esso essere deferito «in qualunque stato della causa».

Le prove in appello

Con la modifica all'

art. 345 c.p.c.

apportata dalla

l. 7 agosto 2012, n. 134

, che ha convertito in legge il

d.l. 22 giugno 2012, n. 83

, sopprimendo le parole «che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero» (applicabile ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dall'11 settembre 2012) il legislatore ha adottato un rigidissimo sistema preclusivo in appello, che vieta del tutto le nuove prove o i nuovi documenti ed è superabile unicamente laddove la parte dimostri di non aver potuto svolgere la richiesta istruttoria o produrre il documento nel corso del primo grado di giudizio per una causa ad essa non imputabile. Deve perciò ritenersi non più percorribile la possibilità di formulare nuove richieste di prova o produrre documenti «indispensabili» per il giudizio, così come aveva ritenuto la

Cass. civ., S.U., n. 8203/2005

ed accolto la norma nella versione modificata dalla

l. n. 69/2009

. Resta sempre deferibile, invece, come già anticipato, il giuramento decisorio.

Tale recente modifica normativa, anticipata da un orientamento giurisprudenziale via via più restrittivo, ha inoltre avuto il merito di rafforzare la caratteristica del giudizio di appello quale revisio prioris instantiae, connotato altresì dalla necessità di muoversi attraverso una impugnazione a critica vincolata, ossia fondata su specifici motivi di impugnazione e non sulla mera ingiustizia del provvedimento gravato.

In questa materia va ricordata la recente sentenza

Cass. civ., S.U. 10 luglio 2015, n. 14475

, che sia pure con riferimento al testo dell'art. 345 antecedente la modifica del 2012, ha avuto modo di affermare un principio ancora attuale: «i documenti allegati alla richiesta di decreto ingiuntivo non possono essere considerati nuovi, sicché, pur non prodotti nella fase di opposizione, ne è ammissibile l'allegazione con l'atto di appello, senza che operino i limiti di cui all'

art. 345, comma 3, c.p.c.

»; il concetto di novità è stato quindi ricostruito rispetto all'intero giudizio

dovendosi cioè ritenere che la fase monitoria non sia sganciata dal successivo giudizio di merito, ma ne rappresenti un antecedente processuale unitario. In questo senso milita altresì un principio di non dispersione della prova comunque acquisita al processo, già sancito da

Cass.

civ.,

23 dicembre 2005, n. 28498

.

Ovviamente nel caso di giudizio di appello di competenza del Tribunale la regola dell'

art. 345 c.p.c.

deve prevalere sulla disciplina ordinaria di primo grado di cui all'

art. 183

,

co

mma

6

c.p.c.

, sicchè la relativa richiesta di termini non può trovare accoglimento (vds. Trib. Torino, 10 marzo 2009).

Nel rito sommario di cognizione

L'

art. 702-

ter

c.p.c.

, con riferimento alle cause decidibili dal tribunale in composizione monocratica, prevede un rito estremamente semplificato, alternativo a quello ordinario, quando la causa – pur assoggettata a cognizione piena – non richiede un'istruzione non sommaria.

L'importanza di questo tipo di procedimento, che si chiude con un'ordinanza appellabile e nel cui secondo grado sono ammissibili (a differenza dell'appello ordinario) anche nuovi mezzi di prova «rilevanti ai fini della decisione» è destinata ad aumentare, in primo luogo in ragione del nuovo art. 183-bis c.p.c. (inserito dal

d.l. 12 settembre 2014, n. 132

, convertito con

l. 10 novembre 2014, n.162

ed intitolato «passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione») secondo cui «nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, il giudice nell'udienza di trattazione, valutata la complessità della lite e dell'istruzione probatoria, può disporre, previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta, con ordinanza non impugnabile, che si proceda a norma dell'articolo 702-ter e invita le parti ad indicare, a pena di decadenza, nella stessa udienza i mezzi di prova, ivi compresi i documenti, di cui intendono avvalersi e la relativa prova contraria. Se richiesto, può fissare una nuova udienza e termine perentorio non superiore a quindici giorni per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali e termine perentorio di ulteriori dieci giorni per le sole indicazioni di prova contraria». Tale importanza potrebbe addirittura divenire centrale se sarà confermato l'impianto della legge delega di riforma del processo civile approvata in prima lettura dalla Camera il 10 marzo 2016, che all'art. 22 n. 4) prevede di «collocare il procedimento sommario di cognizione, ridenominato «rito semplificato di cognizione di primo grado», nell'ambito del libro secondo del codice di procedura civile, prevedendone l'obbligatorietà per le cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica… escludendo il potere del giudice di disporre il passaggio al rito ordinario».

Nella situazione attuale, peraltro, l'

art. 702-

bis

c.p.c.

individua negli atti introduttivi

(ricorso per l'attore e comparsa di costituzione per il convenuto) il momento nel quale formulare le proprie richieste di prova e produrre documenti. In questo ambito va ricordato che Trib. Milano, 11 luglio 2013, ha affermato che «La valutazione di compatibilità del rito sommario di cognizione rispetto alla complessità dell'istruttoria necessaria per la decisione della domanda, deve essere compiuta considerando la tipologia di istruttoria da compiersi, per quantità e qualità di atti istruttori necessari per accertare i fatti giuridici allegati a fondamento della domanda e delle eccezioni sollevate, considerando le contestazioni e le questioni non contestate (che pertanto non necessitano di attività istruttoria per il loro accertamento) e considerando le prove che le parti hanno dedotto nei rispettivi atti di costituzione. Infatti, la specificità del rito sommario ex

art. 702-

bis

c

.

p

.

c

.

sta anche nella necessità che le parti, ma soprattutto il ricorrente, deducano negli atti di costituzione tutte le istanze istruttorie che ritengono di formulare per adempiere al loro onere probatorio

ex

art. 2697 c.c.

perché solo attraverso le concrete allegazioni del thema decidendum e probandum delle parti il giudice può valutare nell'ambito di quel processo se la causa possa o meno essere decisa con una istruzione sommaria e disporre il mutamento del rito

ex

art. 702-

ter

c

.

p

.

c.

in caso di valutazione negativa. Se la valutazione del thema decidendum e delle prove dedotte dalle parti è tale da ritenere non provata la domanda, nonostante l'istruttoria che potrebbe essere necessaria per la dimostrazione dei fatti costitutivi, il giudice deve semplicemente rigettare la domanda ritenendola non fondata sulla base delle prove dedotte. La valutazione circa la conversione del rito non può essere condotta sulla base dell'insufficienza o inidoneità delle prove dedotte a fondamento della domanda, perché così facendo con la conversione del rito si rimetterebbe nei termini parte ricorrente per le allegazioni istruttorie, aprendo ad ipotesi di conversione del rito determinate non dalla natura dell'istruttoria non sommaria da compiere, ma da carenze nelle deduzioni delle prove, ipotesi di conversione del rito non contemplata dall'

art. 702-

ter

c

.

p

.

c.

.

Nel rito sommario di cognizione va respinta la prova orale che sia articolata senza il rispetto dell'

art. 244 c.p.c.

».

La prova contraria

La possibilità di avanzare richieste di prova contraria è concessa, nel rito ordinario di cognizione, sino allo spirare dell'ultimo dei tre termini previsti dall'

art. 183, comma

6

,

c.p.c.

Rispetto a questa tipologia di prova si pongono due problemi fondamentali:

  1. se il concetto di contrarietà debba incentrarsi sullo scopo sostanziale dell'istanza istruttoria (volta cioè a dimostrare l'inesistenza del fatto costitutivo affermato dalla controparte processuale a sostegno della propria domanda) o sul meccanismo processuale di reazione all'altrui richiesta istruttoria;

  2. se la contrarietà della prova postuli l'identica natura del mezzo probatorio avanzato quale reazione rispetto alla richiesta istruttoria contrastata.

In relazione al primo quesito appare evidente che l'accoglimento di una tesi sostanzialistica finirebbe per snaturare la stessa progressività dei termini di preclusione, posto che si attenderebbe sempre lo spirare dell'ultimo termine per avanzare una richiesta di prova alla quale la controparte non potrebbe a quel punto neppure più reagire, con una possibile violazione del diritto di difesa; per non incorrere in simile eventualità l'attore sarebbe quindi costretto ad avanzare sempre e comunque una pletorica serie di richieste istruttorie, al fine di evitare di «essere colto di sorpresa».

Giustamente, quindi, la recente

Cass. civ., 17 maggio 2013, n. 12119

ha sposato la tesi processualistica, secondo la quale la prova contraria va riferita alle prove volte a contrastare le richieste istruttorie formulate entro il termine finale previsto per le prove dirette, e non già alle prove poste in negazione delle allegazioni fattuali effettuate prima dello spirare delle preclusioni assertive.

In relazione al secondo quesito la dottrina e la giurisprudenza prevalenti da tempo hanno negato la necessità di identicità della prova contraria rispetto alla prova diretta, sarà così possibile reagire all'altrui richiesta di prova testimoniale diretta, sia con l'indicazione di un teste a prova contraria diretta, che con la formulazione di capitoli di prova tendenti ad inficiare il risultato probatorio potenzialmente ricavabile dai capitoli contenuti nella richiesta principale (c.d. prova contraria indiretta), sia con un mezzo di prova diverso (ad esempio un documento).

Un particolare mezzo di prova contraria è previsto dall'

art. 183

, comma

8

,

c.p.c.

per il caso in cui il giudice disponga d'ufficio dei mezzi di prova, dovendo infatti concedere un termine perentorio per consentire alle parti di formulare le richieste di prova che si rendono necessarie rispetto ai primi, nonché un termine pure perentorio per replicare. Curiosamente la norma, a differenza del più volte citato comma 6, non indica la durata dei termini da concedere nel caso di esercizio di poteri istruttori officiosi da parte del giudice.

Ammissione delle prove e calendario del processo

L'ammissione delle prove, come anticipato, avviene con ordinanza revocabile e modificabile dal giudice, ma non reclamabile. Normalmente il provvedimento è emesso a seguito di un apposita udienza di discussione dei mezzi di prova, fissata dopo lo spirare

dei termini di cui all'

art. 183, comma

6

,

c.p.c.

pur se il tenore della norma non esclude la possibilità di una immediata riserva della decisione con concessione immediata dei tre termini senza che vi sia un ulteriore spazio per la discussione orale dei mezzi di prova proposti.

È evidente, peraltro, che tale ultimo modus operandi, oltre ad comportare una qualche compressione del contraddittorio si attaglia unicamente ad uffici giudiziari particolarmente efficienti anche dal punto di vista delle strutture amministrative di supporto e di cancelleria, il che spiega lo scarso utilizzo di questa prassi.

Più diffusa è, anzi, la sistematica concessione dei tre termini di cui all'

art. 183, comma

6

,

c.p.c.

a decorrere da un certo momento futuro, comportamento sul quale si devono tuttavia mantenere alcune riserve.

L'ordinanza di ammissione delle prove contiene le indicazioni di tempo e modo per la loro assunzione e determina il passaggio alla fase istruttoria vera e propria, nella quale, seguendo un sub procedimento appositamente disciplinato, si determina la formazione e l'acquisizione delle

prove costituende.

Nel caso di assunzione delle prove al di fuori della propria circoscrizione, il giudice può adottare una delega in favore del giudice del luogo di assunzione (cfr.

art. 203 c.p.c.

, ad esempio in caso di delega all'assunzione di testi residenti in lontana località).

Le esigenze di concentrazione delle attività processuali, di razionale predeterminazione delle stesse secondo un ragionato programma e, soprattutto, la volontà di contribuire ad una riduzione complessiva dei tempi processuali, ha determinato l'inserzione dell'

art. 81-

bis

disp. att. c.p.c.

intitolato al «calendario del processo», stabilendo che «Il giudice, quando provvede sulle richieste istruttorie, sentite le parti e tenuto conto della natura, dell'urgenza e della complessità della causa, fissa, nel rispetto del principio di ragionevole durata del processo, il calendario delle udienze successive, indicando gli incombenti che verranno in ciascuna di esse espletati, compresi quelli di cui all'articolo 189, comma 1. I termini fissati nel calendario possono essere prorogati, anche d'ufficio, quando sussistono gravi motivi sopravvenuti. La proroga deve essere richiesta dalle parti prima della scadenza dei termini». A seguito della

l. n. 148/2001

è stato altresì inserito un ultimo comma che prevede: «Il mancato rispetto dei termini fissati nel calendario di cui al comma precedente da parte del giudice, del difensore o del consulente tecnico può costituire violazione disciplinare, e può essere considerato ai fini della valutazione di professionalità e della nomina o conferma agli uffici direttivi e semidirettivi».

Pur essendosi dubitato della legittimità costituzionale della norma, la Corte costituzionale ha respinto tali censure, sancendo l'obbligatorietà del ricorso al metodo del “calendario del processo”, ma anche la sua duttilità, nel senso di non potersi applicare ad ogni causa e ad ogni

momento di essa, restando normativamente agganciato alla sola fase istruttoria e collegato all'

art. 175 c.p.c.

che affida al giudice istruttore la direzione del procedimento, attribuendogli «tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento» di esso (

C. cost. 18 luglio 2013, n. 216

).

Casistica

La fissazione del thema decidendum

La modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa ("petitum" e "causa petendi"), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l'allungamento dei tempi processuali. Ne consegue l'ammissibilità della modifica, nella memoria ex art. 183 c.p.c., dell'originaria domanda formulata ex art. 2932 c.c. con quella di accertamento dell'avvenuto effetto traslativo (Cass. civ., S.U., 15 giugno 2015, n. 12310)

Prova contraria

È consentito al giudice ordinare al testimone, ai sensi dell'art. 118 c.p.c., di consentire l'ispezione di documenti utilizzati per aiuto alla memoria, che restano in tal caso acquisiti al fascicolo d'ufficio e sono utilizzabili ai fini del decidere, quand'anche l'acquisizione avvenga dopo lo spirare delle preclusioni istruttorie, salvo il diritto delle parti di essere ammesse alla prova contraria resa necessaria dall'acquisizione d'ufficio (Cass. civ., sez. III, 24 settembre 2015, n. 18896)

La prova per testi o per presunzioni contraria al contenuto della quietanza è inammissibile, ai sensi degli artt. 2726 e 2729 c.c., ove diretta a provare il mancato pagamento, mentre è ammissibile se sia tesa a dimostrare circostanze differenti, quali l'effettuazione del pagamento in un diverso momento storico, utili a ricostruire una fattispecie più complessa del rapporto controverso tra le parti (Cass. civ., sez. III, 27 novembre 2014, n. 25213)

In relazione all'art. 184 c.p.c., il momento in cui scatta per le parti la preclusione in tema di istanze istruttorie decorre dall'ordinanza di ammissione delle prove, nel caso in cui non sia stato chiesto il termine ex art. 184, ovvero, quando tale termine sia stato concesso, dallo spirare del termine in questione, per le richieste di nuovi mezzi di prova e la produzione dei documenti, e dallo spirare del secondo termine per l'indicazione della (eventuale) prova contraria. Da ciò potendosi pianamente evincere che la "eventuale" prova contraria è riferibile alle prove volte a contrastare quelle richieste nel contesto dell'operare del primo termine indicato dal citato art. 184 (principio affermato sul previgente art. 184 c.p.c. ed adattabile ai secondi due termini dell'art. 183, comma 6, c.p.c.) (Cass. civ., sez. III, 17 maggio 2013, n. 12119)

Rito sommario

Nel procedimento sommario di cognizione, l'esercizio dei poteri istruttori concessi al giudice dall'art. 702 ter, comma 5, c.p.c. esprime una valutazione discrezionale, insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione esente da vizi di logica giuridica, restando esclusa la sola possibilità di decidere la controversia in applicazione dell'art. 2697 c.c., quale regola di giudizio, non potendo il giudice dare per esistenti fonti di prova decisive e, nel contempo, astenersi dal disporne l'acquisizione d'ufficio (Cass. civ., sez. II, 25 febbraio 2014, n. 4485)

Ritenuto che, come è oggi confermato anche dal d.lg. n. 150 del 2011 sulla semplificazione dei riti, il rito sommario di cognizione introdotto dalla l. n. 69 del 2009 è procedimento a cognizione piena, caratterizzato dalla sommarietà solo per quanto riguarda l'espletamento dell'istruttoria, potranno essere trattate con uno schema processuale siffatto non soltanto le cause "ab origine" di carattere documentale o destinate ad essere definite all'esito di una rapida istruttoria già sulla base delle allegazioni e delle richieste delle parti, ma anche le cause che, in concreto, si presentino suscettibili di definizione immediata per l'inammissibilità o la irrilevanza delle prove articolate dalle parti, essendo, altrimenti, agevole per la parte che abbia interesse ad un allungamento dei tempi del giudizio frustrare la maggiore celerità propria del nuovo rito mediante la prospettazione di un'istruttoria lunga e complessa, da evincersi dalla mera indicazione di una molteplicità di richieste di prova (Trib. Lamezia Terme, 24 febbraio 2012)

Riferimenti

S. PATTI, l

e prove. Parte generale, Giuffrè, 2010

M. CEA COSTANZO, Trattazione e istruzione nel processo civile, ESI, 2010

M. TARUFFO, L

a prova nel processo civile, Giuffrè, 2012

A. FAROLFI, i

l principio di non contestazione nel processo civile, Giuffrè, 2015.

Sommario