Mediazione familiare e deontologia forense

Marcella Gatti
17 Novembre 2016

Il progressivo affermarsi della mediazione familiare come strumento di lavoro e come opportunità di un nuovo modo di intendere il diritto, ulteriore rispetto alla logica prettamente giudiziaria, impone anche agli avvocati un differente modo di approcciarsi alla professione. Nella classe forense sta, infatti, aumentando il numero di quanti, con maggiore spirito di adattamento ai cambiamenti in corso e nel rispetto di un'etica deontologica e comportamentale, sanno considerare la logica della interazione tra le diverse posizioni in conflitto, concentrandosi sulla primaria importanza che assume la tutela dei figli minori.
Il quadro normativo

Con ritardo rispetto agli altri paesi europei, in Italia la mediazione familiare è stata introdotta con la l. n. 54/2006. L'art. 155-sexies, comma 2, c.c. contiene la prima soluzione che il giudice dovrà valutare anche in caso di elevata conflittualità dei coniugi: la mediazione familiare rappresenta un percorso che si propone di ristabilire il dialogo tra le parti in modo che esse imparino a gestire la crisi e a mantenere la loro genitorialità a prescindere dalla fine del rapporto coniugale. Nello specifico il legislatore conferisce al giudice il potere di rinviare l'adozione dei provvedimenti riguardo ai figli per aprire le porte all'utilizzo di questo strumento operativo.

Il d.lgs. n. 28/2010 ha istituito la mediazione per le controversie civili e commerciali ed ha inteso comprendere la mediazione familiare nel più vasto ambito delle mediazioni civili.

Ad oggi, nonostante la lunga esperienza maturata e l'opportunità introdotta in ambito processuale con la l. n. 54/2006, la mediazione familiare non è ancora una professione riconosciuta e normata; non esiste, cioè, un organo istituzionale vincolante (un albo e/o un ordine professionale), né sono stati formulati normativamente i requisiti minimi per poterla esercitare, neppure vi è ancora un vero e proprio codice deontologico.

La mancanza di una regolamentazione specifica ha favorito l'autoregolamentazione della categoria, di modo che le principali associazioni nazionali (A.I.M.S. – Associazione Internazionale Mediatori Sistemici; S.I.ME.F.- Società Italiana Mediazione Familiare; A.I.ME.F. – Associazione Italiana Mediazione Familiare; A.N.A.Me.F. – Associazione Nazionale Avvocati Mediatori Familiari) hanno provveduto a disciplinare autonomamente gli standard formativi richiesti per l'acquisizione del titolo ed il profilo deontologico, recependo sostanzialmente le regole stabilite dal Forum Europeo della mediazione familiare e più in generale della Raccomandazione europea n.1639/2003.

Per molto tempo in Italia il ruolo del mediatore familiare è rimasto prerogativa pressochè esclusiva dell'area di formazione squisitamente psicologica, essendo diffusa l'opinione che gli avvocati, ignari delle conoscenze della psicologia della coppia e delle relazioni familiari, non avessero la preparazione di base necessaria per affrontare una mediazione familiare. Gli avvocati, invero, erano considerati piuttosto come “controllori” degli accordi raggiunti nella stanza di mediazione, dove, prima ancora degli aspetti pragmatici, si sarebbero dovuti affrontare i problemi psicologici della coppia e della separazione.

Da tale iniziale orientamento, condiviso anche da buona parte degli stessi avvocati, rimasta diffidente verso i metodi A.D.R. in genere, si è passati ad ammettere la figura dell'avvocato come mediatore familiare.

Nel 2006 è stata costituta una associazione di soli avvocati mediatori familiari, l'A.N.A.Me.F., i cui soci fondatori sono anche i primi avvocati-mediatori ad aver autoregolamentato l'attività mediativa per gli appartenenti alla categoria forense in Italia, sull'assunto che l'avvocato è per sua natura e funzione il mediatore istituzionale fra il cittadino e l'istituzione giustizia. In vista della realizzazione di tale progetto questa associazione ha proposto agli iscritti un Codice deontologico e specifiche regole di condotta, elaborate nell'intento precipuo di armonizzare ed equilibrare la professione di mediatore familiare con quella di avvocato nello svolgimento della attività forense.

Di recente si assiste al sorgere, presso alcuni organismi di conciliazione forense (in particolare Monza, Milano e Varese), di appositi servizi di mediazione familiare, che gestiscono gli eventi conflittuali inerenti l'ambito della famiglia (quali la frattura del patto coniugale o di convivenza, le disfunzioni dei legami fraterni e dei legami generazionali, nonché l'amministrazione di sostegno e l'interdizione) in co-mediazione - ossia con la compresenza di due mediatori di formazione giuridica o di formazione giuridica, l'uno, e psico-sociale, l'altro - e prevedono la partecipazione degli avvocati che assistono le parti, obbligatoriamente sia al primo incontro che a quello conclusivo e, a secondo delle valutazioni del caso, ai singoli incontri.

La deontologia forense: le nuove norme e il necessario raccordo con i principi cardini della mediazione forense

Con l'entrata in vigore dell'istituto della mediazione – conciliazione, il Consiglio Nazionale Forense, nella seduta del 15 luglio 2011, ha sentito l'esigenza di introdurre alcune modifiche al previgente codice deontologico, ossia la novella dell'art. 55-bis e le modifiche degli artt. 16 e 54, al fine di consentire ai Consigli degli Ordini il governo dell'istituto anche nei suoi aspetti deontologici e nelle sue ricadute disciplinari.

Con tali novelle, il Consiglio Nazionale Forense, mentre non ha ritenuto di intervenire sui profili deontologici dell'avvocato che assiste tecnicamente la parte nel procedimento di mediazione, ha ravvisato invece la necessità ed urgenza di mettere a punto i profili deontologici cui deve essere informata l'attività dell'avvocato - mediatore, partendo dalla consapevolezza che la funzione e l'attività dell'avvocato, che esercita il ruolo di mediatore, rientrino a pieno titolo nell'ambito dell'attività professionale vera e propria e che, anche se si ritenessero attività extra professionale, siano comunque rilevanti in termini di reputazione e di immagine della intera classe forense.

In particolare, mentre le modifiche agli artt. 16 e 54 sono state più nel senso di aprire la classe forense alla possibilità di esercitare come mediatore (nell'art. 16 veniva eliminato infatti il precedente divieto di svolgere attività di mediazione e con la modifica dell'art. 54 venivano introdotte le figure del conciliatore e del mediatore tra i soggetti con cui l'avvocato deve rapportarsi secondo canoni di lealtà e correttezza), è stata soprattutto la novella dell'art. 55-bis, che ha posto innanzitutto l'accento sul rispetto degli “obblighi dettati dalla normativa in materia” e in particolare di quelli posti a garanzia dei requisiti di imparzialità, di terzietà, indipendenza e neutralità degli avvocati che siano anche mediatori, stabilendo nel contempo la prevalenza della normativa deontologica rispetto a quella regolamentare dell'organismo di mediazione.

Con il Nuovo Codice Deontologico degli avvocati, elaborato in attuazione della Nuova disciplina dell'ordinamento professionale forense (l. n. 247/2012) ed entrato in vigore in data 15 dicembre 2014, le principali norme in materia di mediazione – gli attuali artt. 53, 54 e 62 – si trovano nel titolo quarto intitolato “ doveri dell'avvocato nel processo”.

Tale collocazione induce a considerare che anche la mediazione costituisce un “processo” a tutti gli effetti, quando, al contrario, l'essenza della mediazione non è certo quella processuale, tanto più se svolta in via preventiva.

Fatta questa precisazione, si osserva che l'art. 62 ripropone sostanzialmente l'art. 55-bis della novella.

Viene confermato, in primis, il criterio della prevalenza della deontologia forense rispetto alla normativa regolamentare dell'organismo di mediazione: la violazione degli obblighi imposti all'avvocato – mediatore integra sempre un'ipotesi di illecito disciplinare, che compete al giudice disciplinare valutare al fine di graduare la sanzione.

L'art. 62, comma 2, (già previsto dall'art. 55-bis) impone all'avvocato di non assumere la funzione di mediatore in difetto di adeguata competenza, pena la sanzione disciplinare della censura: l'intento è quello di valorizzare i requisiti di professionalità, non solo con la capacità di utilizzare le indispensabili tecniche della mediazione, ma anche con la capacità di garantire alle parti mediate una completezza di elementi di valutazione per assentire o rifiutare l'accordo conciliativo, rispetto a quelli che potrebbero essere, nel prosieguo, evocati in giudizio.

Alcuni regolamenti di mediazione prevedono che per esercitare la funzione di mediatore familiare è necessario che il professionista sia iscritto all'Albo degli avvocati da alcuni anni (ad esempio, da almeno tre anni, l'Organismo di mediazione forense di Monza e quello di Varese, e da cinque anni, quello di Milano), che abbia conseguito un attestato di partecipazione ad un corso di formazione professionale accreditato secondo gli standard formativi fissati dal forum europeo di mediazione familiare e che abbia già svolto un periodo di tirocinio o supervisione. Gli avvocati –mediatori devono poi mantenere i livelli qualitativi richiesti dall'Organismo frequentando regolarmente corsi di formazione e aggiornamento.

Con i successivi canoni terzo e quarto dell'art. 62 (come già nell'art. 55-bis) viene dato particolare rilievo agli obblighi di imparzialità, terzietà e indipendenza dell'avvocato-mediatore, con il principio che gli avvocati non possono svolgere la funzione di mediatori se hanno assistito una delle parti del procedimento di mediazione nei due anni precedenti alla presentazione dell'istanza introduttiva di tale procedimento e se hanno in corso rapporti professionali con una di esse. Invece, l'avvocato che ha svolto il ruolo di mediatore non potrà assumere la difesa di una delle parti nei due anni successivi alla conclusione della mediazione e dopo potrà farlo solo se l'oggetto della causa sarà diverso da quello della mediazione.

Tutti tali divieti, puniti con la sospensione dall'attività professionale da due a sei mesi, sono stati estesi agli avvocati soci o associati dell'avvocato – mediatore o che esercitino la professione negli stessi locali dello studio dove il primo esercita.

Anche il richiamo ai casi previsti in tema di ricusazione degli arbitri (ex art. 815, comma 1, c.p.c.) ha inteso rafforzare i principi di imparzialità e indipedenza, posto che un avvocato non potrà assumere le vesti di mediatore nell'ipotesi che non abbia le qualifiche espressamente convenute tra le parti, che egli stesso o una società o ente di cui sia amministratore ha interesse nella controversia, che egli o il coniuge o un parente entro il quarto grado sia convivente o commensale abituale di una delle parti o di un difensore di esse, che egli o il coniuge abbia una causa pendente o grave inimicizia con uno di questi soggetti, che sia legato ad una delle parti da un rapporto di lavoro subordinato o autonomo di qualsiasi tipo o da altri rapporti di natura patrimoniale o associativa che ne compromettano l'indipendenza, che sia tutore o curatore di una delle parti, che abbia prestato consulenza o assistenza ad una delle parti in una precedente fase della vicenda o vi abbia deposto come testimone.

I divieti deontologici imposti di neutralità e imparzialità all'avvocato - mediatore sono essenziali nell'ambito della mediazione familiare: a differenza di quando assume la veste di difensore, l'avvocato che agisce come mediatore non deve avere alcun interesse personale all'esito della mediazione e deve condurre il procedimento senza favorire una parte o l'altra. Decisiva è pertanto la mancanza di ogni rapporto precedente che derivi da un mandato, da un rapporto collaborativo o di dipendenza da uno dei soggetti coinvolti.

In particolare, il mediatore familiare che è anche avvocato non potrà intervenire nello stesso caso come legale e come mediatore, né contemporaneamente né successivamente; né esercitare con le stesse persone una funzione diversa da quella di mediatore e neppure potrà offrire servizi al di fuori del campo della mediazione in materia di famiglia.

Sul piano deontologico è stato addirittura affermato come sia fondamentale che il mediatore, nel panorama dei professionisti che la coppia ha incontrato o incontra nel suo percorso di separazione, rappresenti una figura del tutto nuova, non solo come funzione, ma anche come persona: che non abbia avuto alcun precedente contatto con il caso, per nessuna ragione e in un altro ruolo professionale.

Ispirandosi ai principi deontologici fondamentali della mediazione familiare, l'avvocato – mediatore familiare dovrà discriminare con estrema cautela il tipo di intervento che gli viene richiesto in ogni singolo caso. Sarà pertanto tenuto: a) ad analizzare la domanda del cliente per capire che servizio stia chiedendo (come mediatore o come avvocato); b) una volta chiarito il tipo di intervento, se è richiesto quello mediativo, al fine di non contaminare il campo, a mantenere una totale coerenza, cioè consapevolezza ed attenzione continua su quello che dice (ad esempio, non dovrebbe usare un gergo tecnico-legale) e quello che fa (ad esempio, astenersi dal consigliare, convincere, suggerire, come pure tenere distinti e differenziati gli spazi fisici della mediazione da quelli dello studio legale).

Se però i clienti hanno fatto inizialmente istanza all'avvocato, questi non può, dopo aver analizzato i loro interessi reali, spogliarsi del suo ruolo, come suol dirsi “togliersi la giacca dell'avvocato” e passare a “mettersi i panni del mediatore”, in quanto ciò contrasta con lo spirito, i principi e gli obiettivi di questo specifico campo e costituisce violazione della sua etica di avvocato- mediatore familiare.

Al comma 5 dell'art. 62 (come già nella novella dell'art. 55-bis) viene apprestata tutela anche all'apparenza formale di quella terzietà, neutralità e imparzialità cui deve ispirarsi l'avvocato-mediatore, sancendo il divieto per l'avvocato di ospitare presso il suo studio la sede dell'organismo di mediazione per il quale presta attività di mediatore: si è ritenuto così che la contiguità, o anche la promiscuità, spaziale e logistica, tra studio e sede dell'organismo costituisca fonte di rischio per una potenziale commistione di interessi, tale da inficiare la neutralità dell'avvocato-mediatore. Nel diverso caso in cui l'avvocato accolga nel proprio studio la sede di un organismo di mediazione, senza che di esso faccia parte come mediatore, si è ritenuto che venisse minato invece il divieto deontologico di accaparramento o sviamento di clientela, dal momento che in tal caso l'avvocato si troverebbe a giovarsi della possibilità di acquisire come potenziali clienti coloro che volessero sperimentare la mediazione e questa non abbia avuto l'esito sperato. E ciò con grave discredito per l'intera classe forense.

Rispetto all'art. 55-bis, viene poi introdotto un inciso di non scarsa portata per l'avvocato che svolge attività di mediatore: l'organismo di mediazione non può avere sede, a qualsiasi titolo, presso il suo studio e l'avvocato non può avere studio presso l'organismo (come nel vecchio testo della novella), ma non è nemmeno possibile che l'organismo di mediazione “svolga attività” presso il suo studio.

Sembrerebbe pertanto che l'avvocato mediatore, iscritto ad un organismo di mediazione - conciliazione, che non solo conduca una mediazione presso il proprio studio, ma anche più semplicemente concordi al telefono con le parti un termine di rinvio, sia passibile della sanzione disciplinare della sospensione dell'esercizio dell'attività professionale da due a sei mesi in quanto metterebbe in atto “un'attività dell'organismo”.

Se la norma in sé può apparire troppo rigida in tema di mediazione civile, nello specifico ambito della mediazione familiare non lo è: il mediatore deve proteggere la propria indipendenza da tutti ed in particolar modo di fronte all'organismo con il quale si trovi eventualmente a collaborare.

Tra i principi deontologici cardini del mediatore familiare, elaborati dalle varie associazioni di settore, è stata indicata infatti sia l'esigenza di una “strutturazione” dello spazio proprio e specifico della mediazione familiare, così da evitare possibili confusioni ed equivoci, sia la necessità di una completa “autonomia dal contesto giudiziario”, non solo nell'ipotesi di invio prescritto dal Giudice, ma in particolare con riferimento al rapporto con la “giustizia conciliativa”, tradizionalmente di competenza esclusiva degli avvocati, ma ben diversa rispetto alla mediazione familiare. Sicchè l'avvocato che intenda assumere il ruolo di mediatore deve mettere in atto comportamenti effettivi ed assolutamente coerenti per garantire l'autonomia della mediazione e la sua chiara distinzione da altre forme di intervento.

Di rilievo rimane il combinato disposto dei nuovi artt. 53 e 54 (quest'ultimo anch'esso già novellato), con cui viene estesa la disciplina del rapporto con il magistrato a quello con il mediatore.

I rapporti tra mediatore e avvocato devono essere improntati a dignità e reciproco rispetto; in particolare l'avvocato non deve approfittare di rapporti di amicizia, familiarità o confidenza con i mediatori per ottenere o chiedere favori e preferenze, né ostentare tali rapporti. Anzi, si può dedurre che l'avvocato non debba conferire con il mediatore in merito al procedimento in corso senza la presenza del collega avversario.

Di particolare delicatezza sotto questo profilo rimane il rapporto tra mediatore e inviante: se si ammette che, nel caso di invio da parte di un altro collega professionista, basato spesso su di un rapporto fiduciario, il primo contatto intervenga direttamente tra inviante e mediatore, si ritiene tuttavia opportuno che lo scambio di informazioni resti ridotto al minimo indispensabile, che l'incontro iniziale avvenga direttamente tra mediatore e parti e che non venga poi scambiata alcuna informazione di ritorno con l'inviante.

Quanto poi al rapporto dell'avvocato mediatore con gli avvocati che tutelano le parti, è necessario che non si crei: durante tutto il percorso di mediazione, solo le parti dovranno conferire con i rispettivi legali ed riportare loro ciò che ritengono opportuno; la giusta eccezione alla regola è l'ipotesi in cui l'avvocato mediatore debba approfondire alcuni aspetti giuridici di particolare complessità, per i quali le parti non possano fare altro che farsi assistere dai rispettivi avvocati.

Il Nuovo codice deontologico forense prevede alcune regole comportamentali anche per l'avvocato che assiste la parte nell'ambito della mediazione. Riveste in proposito particolare rilievo il disposto dell'art. 26, comma 2, del nuovo codice deontologico, laddove prescrive l'onere per l'avvocato, in caso di incarichi che comportino anche competenze diverse dalle proprie, di prospettare al cliente e alla parte assistita la necessità di integrare l'assistenza con altro collega in possesso di dette competenze.

La cultura della mediazione familiare, per quanto si stia diffondendo, non è ancora patrimonio di molti. In mancanza di competenza specifica, soprattutto nei modelli di mediazione (come quello degli organismi forensi monzese e milanese), è assolutamente corretto che l'avvocato si rivolga allo specialista in affiancamento delle parti in mediazione.

Altro principio deontologico interessante è posto dall'art. 27 del Nuovo Codice Deontologico, inerente l'obbligo per l'avvocato di informare, all'atto del conferimento dell'incarico, la parte assistita chiaramente e per iscritto della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione previsto dalla legge e dei percorsi alternativi al contezioso giudiziario, pure previsti ex lege.

Dal combinato disposto delle norme appena citate, pertanto, si evince come la riforma voglia affiancare alla parte un difensore, che per le sue competenze tecniche e per la sua capacità di interpretazione in chiave giuridica degli elementi di fatto, sappia prospettare rischi e/o vantaggi delle possibili soluzioni, includendo la mediazione familiare tra le diverse opzioni e risorse a disposizione del proprio cliente.

Vengono lasciati invece alla regolamentazione degli organismi di mediazione altri essenziali profili deontologici in materia, tra i quali l'obbligo del rispetto della riservatezza degli incontri e di tutta la documentazione prodotta dalle parti (obbligo questo che va al di là del naturale riserbo e del richiamo al segreto professionale proprio dell'avvocato); il principio della volontarietà del percorso da parte di chi ne fa richiesta (per cui l'avvocato mediatore non deve mai modificare, forzare o indirizzare le richieste delle parti); l'obbligo formativo; il divieto di citare come testimone l'avvocato mediatore familiare e di produrre o invocare in giudizio, senza il consenso delle parti, le dichiarazioni dal medesimo raccolte.

In conclusione

Le norme deontologiche, introdotte dal Nuovo Codice Deontologico Forense con chiaro riferimento alla mediazione civile in generale, non appaiono adeguate a supportare in ogni aspetto l'operato degli avvocati- mediatori familiari e degli avvocati- difensori delle parti in mediazione familiare.

Le specificità e la particolare metodologia di lavoro proprie della mediazione familiare, soprattutto in assenza di provvedimenti legislativi ad hoc, fanno sì che le “regole deontologiche” cui deve ispirarsi il mediatore familiare, che sia anche avvocato, non possono considerarsi esaurite con quanto previsto dal codice deontologico forense al quale appartiene.

Appare evidente come, per la peculiarità della materia, che la distingue da altri contesti professionali e da diversi percorsi operativi di A.D.R., non si possano considerare soltanto i criteri deontologici propri della professione forense, dal momento che questi ultimi offrono soltanto una cornice parziale e generale di riferimenti per l'operatività dell'avvocato - mediatore familiare.

Tali regole di base rappresentano purtuttavia un primo sforzo della categoria forense di improntare l'attività dell'avvocato-mediatore e il punto di partenza per una ridefinizione più approfondita, completa e uniforme dei principi deontologici fondamentali della nuova e peculiare figura dell'avvocato – mediatore familiare.

Guida all'approfondimento

-AA.VV. La mediazione familiare e la soluzione delle controversie insorte tra genitori separati, in Biblioteca del diritto di famiglia, collana diretta da B. De Filippis, Milano, 2009

-I. Amato, Il ruolo dell'avvocato nella mediazione familiare, 1 settembre 2015, www.associazionefamiliaristi.it

-F. Canevelli, M. Lucardi, Diventare mediatore: specificità di un percorso formativo, in A. Cagnazzo, La mediazione familiare, Milano, 2012

-F. Canevelli, Mediazione Familiare e deontologia professionale, in A. Cagnazzo, La mediazione familiare, Milano, 2012

-C. Cerrai, La mediazione familiare nell'ordinamento italiano, in A. Cagnazzo, La mediazione familiare, Milano, 2012

-Regolamento di mediazione dell'organismo di conciliazione di Monza – sezione Mediazione Familiare- delibera 13 novembre 2013

-Regolamento dell'organismo di conciliazione forense di Milano per le controversie familiari

-Requisiti per l'iscrizione nell'elenco mediatori – norme di comportamento per i mediatori, dell'organismo di conciliazione di Varese