La diversità culturale come scriminante nei reati di violenza domestica
26 Giugno 2015
Massima
Non può trovare applicazione, in considerazione del riconoscimento dell'universalità dei diritti umani inviolabili, la scriminante dell'esercizio di un diritto nel caso del soggetto immigrato, imputato di violenza domestica ai danni della moglie, che adduca come causa della sua condotta una motivazione culturale in contrasto con l'ordinamento giuridico, cioè la diversa concezione dei rapporti familiari ed in particolare del ruolo subordinato della donna all'interno della famiglia. Il caso
Tizio, immigrato marocchino e di fede musulmana, veniva condannato dal G.i.p. per il reato di cui all'art. 572 c.p. (consistente nella sottoposizione della moglie a percosse e maltrattamenti, inflitti in stato di ubriachezza ed anche come ritorsione per aver fatto nascere il loro figlio in Francia, dove la donna si era rifugiata e non in Italia, con pregiudizio per il permesso di soggiorno dell'uomo, in virtù del quale egli aveva sposato la parte offesa) oltre che per violenza sessuale a danno della moglie e violazione degli obblighi di assistenza familiare (per aver fatto mancare i mezzi di sostentamento al figlio minore, nonostante fruisse di un lavoro retribuito). In seguito alla conferma della condanna in appello, l'imputato proponeva ricorso in Cassazione invocando la mancanza dell'elemento psicologico del reato, per avere agito nella convinzione di esercitare un diritto correlato a facoltà consentite nello stato di appartenenza, ritenendo che la moglie fosse un oggetto di sua proprietà esclusiva, concezione diffusa nel paese di origine; l'imputato ha dunque censurato la sentenza di condanna per non aver valutato la possibilità che lo stesso «avrebbe potuto ritenere per errore incolpevole che sussistesse una scriminante – che nella realtà non esisteva - ma nell'agire trascenderne i limiti, con una forma di eccesso (...) riconducibile alla figura generale dell'art. 59, comma 3, p.te II, c.p.», con la conseguenza di trasformare l'eguaglianza di trattamento in un trattamento diseguale se applicato a stranieri, costretti a sottomettersi a costumi da loro non conosciuti e spesso contrari alle loro abitudini. La questione
La Cassazione è chiamata a decidere sul trattamento di soggetti appartenenti ad altre culture, che abbiano commesso fatti costituenti reato secondo l'ordinamento giuridico italiano ma dalla loro cultura valutati in modo diverso quanto a liceità e gravità. In particolare la questione è se l'ordinamento penale debba riconoscere una qualche rilevanza alla motivazione culturale nei casi in cui la violenza domestica è commessa dall'immigrato nei confronti della moglie (sua connazionale) che, in virtù della propria cultura di appartenenza, legata ad una visione patriarcale ed autoritaria della famiglia, consideri la moglie in posizione subordinata nei confronti del marito, anche per quanto attiene la sfera sessuale. Le soluzioni giuridiche
Molte sentenze pronunciate in materia evidenziano l'orientamento della giurisprudenza teso a non attribuire rilevanza alla matrice culturale della condotte violente in ambito domestico. Decisioni recenti in materia di maltrattamenti affermano l'irrilevanza in senso scriminante di eventuali pretese o rivendicazioni legate all'esercizio di particolari forme di potestà in ordine alla gestione del proprio nucleo familiare, ovvero specifiche usanze, abitudini e connotazioni di dinamiche interne a gruppi familiari che costituiscano il portato di concezioni in assoluto contrasto con i principi e le norme che stanno alla base dell'ordinamento giuridico italiano e della concreta regolamentazione dei rapporti interpersonali, tenuto conto del fatto che la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia, nelle formazioni sociali, cui è certamente da ascrivere la famiglia (artt. 2, 29 e 31 Cost.), nonché il principio di eguaglianza e di pari dignità sociale (art. 3 comma 1 e 2 Cost.), costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l'introduzione di diritto o di fatto nella società civile di consuetudini, prassi o costumi con esso assolutamente incompatibili (Cass. pen., sez. VI, 13 maggio 2014, n. 19674). La sentenza in commento, in una prospettiva basata sulla centralità della persona e dei diritti fondamentali, quale minimo denominatore comune per l'instaurazione di una società civile, esclude che lo straniero, imputato di violenza ai danni della moglie, possa invocare, anche solo in via putativa, la scriminante dell'esercizio di un diritto correlato a facoltà riconosciute nel paese di origine. La Corte, chiarito il concetto di società multietnica (in cui «non è concepibile la scomposizione dell'ordinamento in altrettanti statuti individuali quanto sono le etnie che la compongono, non essendo compatibile con l'unicità del tessuto sociale – e quindi con l'unicità dell'ordinamento giuridico - l'ipotesi della convivenza in un unico contesto civile di culture tra di loro confliggenti») ha ribadito, in motivazione, che grava su chiunque si inserisca in una società multietnica, l'obbligo giuridico di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi, non essendo riconoscibile una posizione di buona fede in chi, pur nella consapevolezza di essersi trasferito in un paese diverso e in una società in cui convivono culture e costumi differenti dai propri, presume di avere il diritto – non riconosciuto da alcuna norma di diritto internazionale – di proseguire in condotte che, seppure ritenute culturalmente accettabili e lecite secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, risultano oggettivamente incompatibili con le regole proprie della compagine sociale in cui ha scelto di vivere. Osservazioni
L'Italia, per effetto delle ondate di immigrazioni, è diventata una società multiculturale dove gli immigrati rimangono per lo più legati alla cultura del proprio paese di origine. La compresenza di persone legate a diversi gruppi etnici, religiosi, linguistici provoca dal punto di vista penale, un contrasto normo-culturale tra il sistema giuridico ospitante e quello di provenienza. La dottrina penalistica utilizza il concetto di “reato culturalmente orientato” per indicare quei fatti ad alta offensività, spesso realizzati nell'ambito della famiglia immigrata, ai danni di soggetti vulnerabili (moglie/figli) realizzati da un soggetto forte (marito o genitore) appartenente a cultura di minoranza, considerati reati dall'ordinamento giuridico del paese di accoglienza. Le aggressioni subite in ambito familiare trovano spesso alimento proprio nella cultura di appartenenza, legata ad una concezione patriarcale e autoritaria della famiglia. Riconoscere rilevanza alla specificità culturale che considera “normali” o “giustifica” le condotte violente in ambito domestico significa privare di tutela le vittime appartenenti ad altre culture, maggiormente esposte a pericolo e pertanto meritevoli di una tutela rafforzata nella loro dignità e libertà di autodeterminazione. |