Le linee-guida del tribunale di Palermo per gli amministratori giudiziari: la giurisprudenza anticipa la riforma del codice antimafia

Antonio Balsamo
08 Maggio 2017

Il sistema dell'amministrazione giudiziaria dei beni sottoposti a misure di prevenzione patrimoniali, dal quale dipende in larga misura la legittimazione “esterna” della lotta alla mafia nel processo di integrazione giuridica europea, ha attraversato ...
Abstract

Il sistema dell'amministrazione giudiziaria dei beni sottoposti a misure di prevenzione patrimoniali, dal quale dipende in larga misura la legittimazione “esterna” della lotta alla mafia nel processo di integrazione giuridica europea, ha attraversato una fase di forti cambiamenti che rendono necessaria una integrazione della disciplina dettata dal codice antimafia. In attesa della approvazione definitiva del testo unificato di riforma, attualmente in discussione al Senato, la giurisprudenza ha cercato di colmare le lacune evidenziatesi nella regolamentazione legislativa, rimuovendo le incertezze interpretative e facendosi carico di diffuse istanze di modernizzazione e di trasparenza. È questa la prospettiva in cui si muovono le direttive adottate dalla Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo per regolamentare lo svolgimento dei compiti degli amministratori giudiziari, in modo da prevenire i conflitti di interesse, garantire la rotazione degli incarichi, potenziare l'efficienza della gestione, razionalizzare la materia della liquidazione dei compensi.

L'evoluzione del modello italiano di amministrazione giudiziaria dei beni sequestrati

Il sistema delle misure di prevenzione patrimoniali ha attraversato una profonda trasformazione negli ultimi anni, in stretta correlazione con i mutamenti che hanno investito il rapporto tra criminalità organizzata ed economia.

Al riguardo, si potrebbe anzi parlare di una reciproca interazione: da un lato, la legislazione antimafia ha dovuto adeguare i propri contenuti ad una realtà criminale in continua evoluzione; dall'altro, le forme dell'infiltrazione mafiosa nel tessuto imprenditoriale hanno subito consistenti modificazioni motivate dall'intento di impedire l'applicazione dei nuovi strumenti di contrasto via via introdotti dal Legislatore.

Al momento dell'entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre (l. 646 del 13 settembre 1982), erano ancora frequenti le imprese mafiose “originarie”, caratterizzate da una forte individualizzazione attorno alla figura dominante del fondatore, il quale le gestiva direttamente pur continuando ad espletare le altre attività delittuose della "famiglia". Le imprese in questione, anche quando avevano una diversa denominazione formale, erano solitamente conosciute come appartenenti all'esponente mafioso che le gestiva; nella struttura di queste ditte era, non di rado, immediatamente visibile la presenza di componenti del nucleo familiare dell'associato. Tra la fine degli anni '70 ed i primi anni '80 si era affermata negli ambienti mafiosi la tendenza a diversificare gli investimenti e si era diffuso il modello della c.d. impresa di proprietà del mafioso, in cui i soggetti inseriti nelle organizzazioni delittuose tendevano a non mantenere più nelle loro mani la titolarità formale ed i compiti diretti di direzione e gestione dell'impresa, e si limitano a conservare la proprietà indiretta dell'azienda. Già questa trasformazione rispondeva alla necessità delle associazioni delittuose di tutelarsi rispetto alla normativa antimafia, evitando i provvedimenti di sequestro e di confisca attraverso l'occultamento del collegamento dell'impresa con l'esponente mafioso che ne è l'effettivo titolare. In prossimità dell'approvazione della legge Rognoni-La Torre, che ha reso meno agevole l'utilizzazione di prestanome, si è affermato un nuovo modello: quello della c.d. impresa a partecipazione mafiosa. Si tratta di imprese spesso sorte nel rispetto della legalità, ma che hanno (sin dall'inizio o in un momento successivo) instaurato rapporti di cointeressenza e compartecipazione con determinati esponenti mafiosi, i cui capitali sono stati investiti in modo organico e stabile nelle aziende. Si verifica così una compresenza di interessi, soci, e capitali illegali. Sul piano strutturale, l'impresa a partecipazione mafiosa si differenzia dall'impresa di proprietà del mafioso perché il titolare formale dell'azienda non è un prestanome ma rappresenta anche i propri interessi. L'impresa a partecipazione mafiosa, comunque, pur non essendo espressione esclusiva dell'ambiente criminale, è anche un'impresa di servizio degli interessi dell'esponente mafioso ed un'impresa di riferimento per investire in modo “pulito” i suoi capitali.

Per effetto di questi cambiamenti strutturali, la presenza mafiosa nell'economia è venuta a coinvolgere una molteplicità di settori, ben al di là di quelli “tradizionali” dell'edilizia e dei lavori pubblici, ed ha implicato la creazione di partnership che non possono ricondursi alla categoria dell'intestazione fittizia, giungendo a condizionare le complessive dinamiche di mercato in determinate aree territoriali.

Conseguentemente, anche il sistema delle misure patrimoniali e delle amministrazioni giudiziarie ha attraversato una impegnativa fase di cambiamento: si è passati dalla custodia statica, tipica dei patrimoni immobiliari, alla gestione dinamica di imprese attive nei più diversi campi, con una intensa valorizzazione delle potenzialità dell'amministrazione giudiziaria come fattore di conoscenza delle intricate relazioni tra mafia ed economia, come terreno di interazione tra realtà giudiziaria e forze sociali, come veicolo di sviluppo e di progresso civile.

Il funzionamento dell'amministrazione dei beni sequestrati e confiscati e della loro destinazione sociale, rappresenta, con ogni probabilità, il principale terreno su cui si giocherà, nel prossimo futuro, la legittimazione “esterna” della lotta alla mafia anche nel processo di integrazione giuridica europea, oltre che nella dimensione nazionale.

Se sviluppato in termini innovativi, il sistema di gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati consente di attuare, nelle interrelazioni tra la giustizia e la società, una dinamica speculare ed opposta rispetto a quella che ha caratterizzato l'evoluzione delle organizzazioni mafiose.

Com'è noto, sono stati l'accumulazione illegale di ricchezza, e lo sviluppo della dimensione imprenditoriale, i fattori che hanno permesso a “Cosa Nostra” di fronteggiare le crisi di legittimazione che hanno periodicamente investito il potere mafioso, di creare rapporti intensi, stabili e fondati non solo su atti violenti ma anche su una reciprocità di interessi, con i più vari settori dell'economia legale, di realizzare una regolazione complessiva del mercato locale, di incidere pesantemente sul funzionamento delle istituzioni.

Attraverso la gestione efficiente e partecipata, e la restituzione alla collettività, dei beni sequestrati e confiscati, è possibile realizzare un “circolo virtuoso” di collaborazione tra le diverse istituzioni e le migliori energie della società civile, che muove dalla consapevolezza – ben presente nei magistrati che hanno dedicato la loro vita al contrasto della criminalità organizzata – dei « limiti invalicabili della risposta giudiziaria alla mafia » (P. BORSELLINO, Prefazione a R. CHINNICI, L'illegalità protetta. Attività criminose e pubblici poteri nel meridione d'Italia, Palermo, 1990).

La necessità di integrare la disciplina normativa

La delicata e pluriforme funzione dell'amministratore giudiziario, nella sua triplice dimensione di “organo di giustizia” dotato di competenze gestionali e “ispettive”, di professionista con attitudini giuridico-economiche, di attore dei processi di cambiamento sociale, trova una disciplina solo in parte adeguata nel Titolo III del Libro I del codice antimafia,

Quest'ultimo testo legislativo, pur avendo introdotto diverse disposizioni di contenuto innovativo, non ha dettato specifiche previsioni su molteplici aspetti dell'amministrazione giudiziaria, che sono quindi rimasti affidati alla sola regolazione di matrice giurisprudenziale.

La valorizzazione del ruolo della giurisprudenza è oggi presente in numerosi settori dell'ordinamento. Nel campo delle misure patrimoniali, tuttavia, l'ampiezza dello spazio rimesso alle decisioni giudiziarie si è accompagnata alla carenza di linee-guida e di premesse culturali condivise, rendendo così priva di precisi parametri di orientamento la discrezionalità del giudice, destinata, per sua natura, ad incidere su diritti di rango costituzionale e su interessi di grande rilevanza, propri dei singoli e della collettività.

L'esigenza di un organico intervento legislativo in questa materia è stata focalizzata puntualmente dal testo unificato di riforma del codice antimafia, approvato, in prima lettura, dalla Camera in data 11 novembre 2015, con una larga maggioranza (281 voti favorevoli, 66 contrari).

Tra gli obiettivi della riforma così progettata, rientrano quelli di accrescere l'efficienza e la trasparenza dell'amministrazione giudiziaria; di potenziare in modo mirato la funzionalità dell'ANBSC, concentrando il suo ruolo sulla destinazione dei beni e sulla gestione degli stessi nella fase successiva al secondo grado di giudizio (una innovazione, questa, che può rappresentare la chiave di volta di un rinnovato dialogo interistituzionale, oltre che un netto progresso sul piano della continuità ed efficacia dell'attività gestoria, rispetto all'attuale situazione); di razionalizzare la disciplina della tutela dei terzi.

Si tratta di un progetto che accompagna alla modernità dell'approccio l'attenzione ai problemi emersi nella prassi, e rappresenta un contributo di alto livello alla costruzione di un sistema di diritto della criminalità organizzata capace di far compiere un salto di qualità sul piano della considerazione internazionale della realtà giudiziaria italiana.

In numerose previsioni del testo di riforma, è visibile l'intento di cristallizzare normativamente le migliori prassi emerse nella realtà giudiziaria. Si tratta di una linea di tendenza coerente con una importante caratteristica che ha contrassegnato le più significative tappe della costruzione di un diritto della criminalità organizzata in Italia, che rappresenta il frutto di una serie di intense, drammatiche, feconde stagioni di dialogo tra politica e giurisdizione, le quali hanno accompagnato la storia sociale e politica del Paese.

Le linee-guida del tribunale di Palermo: una scelta di modernizzazione e di trasparenza

La circostanza che il testo unificato di riforma del codice antimafia non sia stato ancora approvato in via definitiva dal Parlamento ha, però, fatto ritornare in primo piano il ruolo della giurisdizione, chiamata a colmare le lacune evidenziatesi nella disciplina dell'amministrazione giudiziaria.

La scelta, compiuta dalla Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, di adottare un quadro organico di direttive di carattere generale, riguardanti lo svolgimento degli incarichi degli amministratori giudiziari, costituisce un apprezzabile tentativo di rimuovere una serie di incertezze interpretative riscontrabili nella materia in esame, di riempire gli “spazi interstiziali” presenti tra le norme del codice antimafia attraverso una regolamentazione di matrice giurisprudenziale adeguata alle esigenze emerse nella prassi e di rendere pubblicamente conoscibili le modalità di esercizio del potere giurisdizionale in questa delicatissima materia.

Il tribunale di Palermo si è, così, fatto carico di quelle istanze di modernizzazione e di trasparenza che rientrano tra i principali obiettivi della riforma attualmente in discussione nelle aule parlamentari.

Si tratta, evidentemente, di una forma di autoregolamentazione, insuscettibile per sua natura di assumere efficacia vincolante. Essa, però, mantiene una sua carica di effettività, sia perché consente a tutti gli operatori di conoscere ed osservare gli indirizzi interpretativi dell'autorità giudiziaria da cui promana, sia perché si colloca nell'ambito del potere di direzione dell'amministrazione giudiziaria spettante al giudice, con la conseguente possibilità di considerare il mancato rispetto delle Direttive come un indice di incapacità, suscettibile di motivare la revoca dell'amministratore giudiziario ai sensi dell'art. 35 del codice antimafia (come si specifica nel punto 10.2).

L'area di operatività delle direttive viene opportunamente estesa dal punto 10.1, oltre che ai procedimenti di prevenzione patrimoniale disciplinati dal codice antimafia, anche a quelli soggetti alla disciplina previgente, avviati con una proposta di applicazione formulata in epoca antecedente alla data di entrata in vigore del relativo decreto legislativo (13 ottobre 2011). Si tratta di una soluzione coerente con il bisogno di colmare le lacune presenti nella normativa anteriore, decisamente meno dettagliata di quella introdotta nel 2011.

Le direttive di natura “deontologica” volte alla prevenzione dei conflitti di interesse e delle concentrazioni di incarichi

Alcune delle direttive hanno un carattere decisamente deontologico in quanto perseguono lo scopo di evitare ogni situazione di conflitto di interesse, di ingiustificata concentrazione di incarichi in determinati professionisti, di rapporti privilegiati che possano ingenerare il sospetto di reciprocità o favoritismi e in generale il rispetto delle regole di comportamento valide per tutto il settore pubblico. A tale finalità si accompagna, comunque, quella di accrescere l'efficienza dell'amministrazione giudiziaria, promuovendo il ricorso a criteri di merito ed escludendo “rendite di posizione”.

Si colloca in quest'ambito, anzitutto, il punto 1.1, che impone all'amministratore giudiziario di produrre, all'atto della nomina e, comunque, terminate le operazioni di immissione nel possesso, una dichiarazione in cui si impegna ad evitare qualunque situazione di incompatibilità o conflitto di interesse attuale o potenziale, per conto proprio o di terzi, di natura personale o patrimoniale con l'ufficio conferito, a non assumere altri incarichi che siano in conflitto d'interesse o non coerenti sotto il profilo deontologico rispetto all'ufficio conferito, ad osservare il codice di comportamento dei dipendenti pubblici, e a dimettersi da ogni incarico assunto nell'ambito dei beni in amministrazione in caso di sua sostituzione per qualsiasi causa.

Nella stessa categoria di previsioni rientra il punto 4.3, che estende la predetta regolamentazione, dettata dal punto 1.1 per gli amministratori giudiziari, anche ai coadiutori e collaboratori degli stessi.

Nel punto 4.5 viene enucleata la distinzione tra le due figure dei coadiutori e dei collaboratori, largamente utilizzate nella prassi ma rimaste finora prive di una precisa definizione a livello legislativo.

In proposito, si chiarisce che il coadiutore è il soggetto che svolge, sotto la diretta responsabilità dell'amministratore giudiziario, tutte le attività conseguenti all'imposizione del vincolo e funzionali allo svolgimento, da parte dello stesso amministratore giudiziario, di quei compiti la cui esecuzione diviene necessaria a causa del sequestro di prevenzione e che, invece, senza di esso, non sarebbero stati espletati dal titolare del bene, secondo un criterio di ordinaria diligenza.

Per converso, il collaboratore è qualsiasi altro soggetto della cui opera sia necessario servirsi per la custodia, gestione e amministrazione (ordinaria e straordinaria) del bene in sequestro, e la cui individuazione l'amministratore giudiziario sottopone all'autorizzazione del giudice delegato solo per il doveroso coordinamento delle attività sotto la direzione dell'autorità giudiziaria. Si tratta dunque di soggetti che – ove il bene non fosse stato sequestrato – il titolare avrebbe liberamente scelto sul mercato. Rientrano nella categoria dei collaboratori, ad esempio, i legali, i consulenti del lavoro o fiscali, gli amministratori e in generali i titolari di organi esecutivi o di controllo delle società.

Tale distinzione assume ulteriore rilevanza sotto il profilo economico, in quanto, mentre l'onere economico riferibile all'attività del coadiutore grava – in via finale – sempre sullo stato (che, in caso di restituzione dei beni, non potrà recuperare il relativo esborso), quello riferibile all'attività dei collaboratori è incluso nelle spese necessarie o utili per la conservazione e l'amministrazione dei beni, le quali gravano sulla gestione (cioè sull'eventuale attivo derivante dal bene cui afferiscono) e, ove anticipate dall'erario (ad es. per una momentanea carenza di liquidità), determinano - nel caso di restituzione del bene - un diritto dello stato al loro recupero (appunto perché lo stato, anticipandone il costo, si è provvisoriamente sobbarcato un onere che comunque sarebbe spettato al titolare del bene).

Per la nomina dei coadiutori e collaboratori le direttive adottate dal tribunale di Palermo stabiliscono requisiti ancora più stringenti di quelli relativi all'amministratore giudiziario.

Oltre alla regola-base per cui l'amministratore giudiziario può avvalersi di coadiutori e collaboratori solo se strettamente necessari per lo svolgimento del proprio incarico e deve selezionarli esclusivamente in base alla competenza (punto 4.1), si prevede che, prima di presentare la richiesta di autorizzazione alla nomina di coadiutori, collaboratori, esperti e qualsiasi figura professionale di ausilio (compresi i difensori nelle cause nell'interesse dell'Amministrazione o delle società sequestrate), l'amministratore giudiziario debba acquisire dal professionista una dichiarazione scritta con cui lo stesso attesti: a) di non versare nelle condizioni di incompatibilità di cui all'art. 35 comma 3 del codice antimafia, né in un rapporto di abituale commensalità e frequentazione, rispetto a tutti i soggetti nei cui confronti il sequestro sia stato disposto; b) di non avere rapporti di coniugio, parentela/affinità (fino al terzo grado), abituale commensalità e frequentazione con l'amministratore giudiziario (ad eccezione dei componenti ufficiali dell'organizzazione professionale del medesimo) né con i giudici ed il personale di cancelleria della Sezione misure di prevenzione; c) di non aver ricevuto, negli ultimi 12 mesi, più di 20 incarichi da parte dei giudici del Tribunale di palermo e/o dai loro ausiliari (compresi, dunque, amministratori, custodi, curatori, a loro volta nominati dall'autorità giudiziaria); d) di non aver ricevuto, negli ultimi 12 mesi, più di 10 incarichi di coadiutore, e comunque di non avere in corso più di 20 incarichi della stessa tipologia; e) di non aver ricevuto incarichi quale legale dell' amministrazione giudiziaria (o delle società le cui quote maggioritarie siano in amministrazione giudiziaria), da cui sia derivata, negli ultimi 12 mesi, la liquidazione di compensi complessivi superiori a € 20.000,00 (punto 4.4).

Se quest'ultima limitazione può forse apparire eccessiva quanto all'importo globale dei compensi percepibili nel corso di un anno, le altre regole appaiono del tutto ragionevoli in vista dell'esigenza di garantire la rotazione dei soggetti comunque coinvolti nell'amministrazione giudiziaria e la massima trasparenza nella scelta del professionista incaricato.

La medesima ratio dovrebbe, anzi, condurre ad una modifica legislativa dell'art. 35, comma 3, del codice antimafia, il cui ultimo periodo dovrebbe riformulato nei seguenti termini: « Non possono assumere l'ufficio di amministratore giudiziario, né quelli di coadiutore o diretto collaboratore dell'amministratore giudiziario, il coniuge, i parenti fino al quarto grado, gli affini entro il secondo grado, i conviventi, i creditori o debitori del magistrato che conferisce l'incarico, del suo coniuge o dei suoi figli, né le persone legate da uno stabile rapporto di collaborazione professionale con il coniuge o i figli dello stesso magistrato, né i prossimi congiunti, i conviventi, i creditori o debitori del personale di cancelleria che assiste lo stesso magistrato ».

Una siffatta riforma ripondererebbe all'esigenza di evitare qualsiasi rapporto di cointeressenza economica tra gli amministratori giudiziari (nonché i loro coadiutori e collaboratori) e la famiglia del magistrato (nonché del personale di cancelleria destinato ad assisterlo), realizzando una piena trasparenza dell'operato dell'amministrazione della giustizia nel suo complesso.

Le direttive di specificazione della disciplina legislativa in funzione dell'efficienza della gestione

Altre direttive contengono una opportuna specificazione del contenuto delle norme del codice antimafia, cristallizzando una serie di prassi virtuose che rispondono alla ratio della disciplina legislativa, con la precipua finalità di potenziare l'efficienza della gestione.

In questa categoria rientrano le regole che disciplinano:

a) l'istanza di autorizzazione alla provvisoria esecuzione dei rapporti pendenti (punto 1.3);

b) la convocazione delle assemblee per la rinnovazione delle cariche sociali (e del legale rappresentante della società), nel caso di sequestro totalitario (o di maggioranza) di quote sociali; adempimento, questo, che si richiede venga effettuato con la massima sollecitudine (punto 1.4);

c) il rispettivo contenuto delle relazioni (con le quali non si richiede alcun provvedimento da parte dell'Ufficio), delle istanze (con cui si richiede un provvedimento da parte dell'Ufficio), e delle note riservate (mediante le quali l'amministratore giudiziario, in coerenza con la propria qualifica di pubblico ufficiale e la funzione “ispettiva” attribuitagli, comunica notizie di reato, altri beni da sottoporre a sequestro, o ulteriori notizie che possono essere oggetto di approfondimenti investigativi o di trasmissione atti alla Procura); in proposito, si introduce una articolata disciplina sulla relazione di immissione nel possesso (precisando che essa deve essere organizzata per compendi riferiti a ciascun proposto, e menzionando le informazioni da fornire in relazione a ciascun compendio), sulle successive relazioni periodiche, e sulle istanze che prevedono assunzioni di impegni di spesa o propongono la vendita di beni (punto 2);

d) i rapporti con il giudice delegato; al riguardo, per scoraggiare prassi scorrette volte ad un sostanziale disimpegno con scarico di responsabilità da parte dell'amministratore giudiziario, si chiarisce opportunamente che le autorizzazioni debbono essere acquisite solo per gli atti di straordinaria amministrazione, aggiungendo che le richieste di autorizzazione presentate al di fuori dei casi previsti dalla vigente normativa potranno essere considerate indice di incapacità ai sensi dell'art. 35 del codice antimafia (punto 3);

e) il contenuto delle istanze per la nomina di coadiutori e collaboratori, con le precisazioni relative alla inclusione o meno di autorizzazioni al compimento di atti di straordinaria amministrazione, e alla imputazione della relativa spesa (punto 4.5);

f) le indicazioni generali (di cui al punto 5) sull'impiego dei beni, con alcune previsioni di particolare importanza con riguardo alle aziende (come l'impossibilità di avvalersi della collaborazione lavorativa del proposto, degli intervenienti e degli altri soggetti menzionati nell'art. 35, comma 3, del codice antimafia, l'attuazione dei licenziamenti necessari valorizzando il venir meno del rapporto fiduciario alla luce della funzione del sequestro, i requisiti del conduttore nel caso di affitto del ramo d'azienda) e agli immobili (come i criteri di determinazione di un'equa indennità di occupazione in caso di richiesta del proposto di autorizzazione ad abitare l'immobile sequestrato, la sottoposizione della locazione del bene al termine individuato nella fine del procedimento di primo grado, e la necessaria previsione di una clausola risolutiva espressa della locazione in dipendenza dell'accertamento giudiziario della appartenenza del conduttore ad una associazione criminale, o della adozione di comunicazioni o informazioni antimafia nei confronti del medesimo);

g) i rapporti con il Fondo Unico Giustizia (punto 6);

h) la preventiva autorizzazione delle spese che devono essere anticipate dall'Erario (punto 7);

i) il rendiconto, che forma oggetto di una regolamentazione ampia ed analitica, la quale richiede – tra l'altro – che l'amministratore giudiziario indichi indicherà gli acconti ricevuti e le spese per i coadiutori già liquidati, nonché tutti i compensi percepiti a qualunque titolo da lui o da soggetti da lui nominati, anche se rientranti nella contabilità aziendale (punto 8).

Le direttive sulla liquidazione dei compensi

Di particolare interesse sono, infine, le direttive che attengono alla liquidazione dei compensi in favore di amministratori giudiziari, coadiutori e collaboratori, con l'intento di razionalizzare questa complessa materia evitando le incertezze e sovrapposizioni rese altrimenti possibili da un disciplina legislativa non di rado poco chiara o lacunosa.

Al riguardo, si forniscono anzitutto alcuni significativi chiarimenti sotto il profilo procedimentale, che evidenziano la rilevanza della distinzione tra coadiutori e collaboratori: in particolare, la determinazione del compenso ai coadiutori (da liquidarsi sotto forma di spese che gravano sull'amministrazione giudiziaria ai sensi dell'art. 42, comma 3 del codice antimafia) è di competenza del tribunale, mentre l'eventuale autorizzazione al compimento di spese necessarie o utili per la gestione – comprese quelle per i collaboratori - è di competenza del giudice delegato (punto 4.5).

Per la particolare categoria di collaboratori costituita dagli organi esecutivi, di controllo e di collaborazione delle società, si stabilisce – al punto 4.6 - che il compenso è proposto dall'amministratore giudiziario e determinato dal giudice delegato all'atto della nomina, tenendo conto della sostenibilità economica da parte dell'impresa, in modo che esso risulti congruo all'impegno profuso, al risultato raggiunto anno per anno, e comunque anche prima in caso di rilevanti sopravvenienze negative. Si stabilisce che, nel formulare la sua proposta, l'amministratore giudiziario indichi una serie di elementi rilevanti (fatturato, attivo, numero di dipendenti, importo previsto dal contratto collettivo dei dirigenti del settore merceologico, compenso del predecessore, tariffe di cui al d.m. 140 del 2012).

Quanto ai coadiutori, viene inserita – al punto 4.7 - una articolata disciplina secondo la quale l'amministratore giudiziario potrà, ovviamente corrispondere ad essi la somma che ritiene corretta, ma il tribunale potrà autorizzarne il rimborso a carico dell'erario solo ove la nomina del coadiutore sia stata autorizzata (o ratificata) dal giudice delegato e nei limiti di una valutazione di congruità, per la quale si indicano una serie di parametri.

Si tratta, in buona sostanza, di una interpretazione integrativa, condotta alla luce dei principi generali che regolano la materia, in modo da colmare il vuoto normativo lasciato sia dall'art. 42, comma 4, del codice antimafia (il quale prevede solamente che il rimborso delle spese sostenute per i coadiutori sia disposto dal tribunale con decreto motivato, sentito il giudice delegato), sia dall'art. 3, comma 8, del d.P.R. 177 del 2015 (che non disciplina espressamente il sindacato dell'autorità giudiziaria in ordine alla congruità delle spese sostenute per i coadiutori, limitandosi a richiedere che esse siano “documentate”).

Per superare ogni dubbio sull'argomento de quo, sarebbe opportuna una riforma legislativa volta a definire in modo inequivocabile il contenuto dei poteri spettanti al Tribunale rispetto alla determinazione del compenso dei coadiutori ed alla possibilità che esso venga a gravare sull'erario.

Di notevole rilievo sono pure le ulteriori previsioni delle direttive sulla liquidazione del compenso finale e degli acconti di amministratori giudiziari e coadiutori.

Pienamente condivisibile è, anzitutto, il principio – fissato ai punti 4.1 e 4.6 – secondo cui dell'incidenza dei costi dei coadiutori e collaboratori (compresi gli organi esecutivi, di controllo e di collaborazione delle società) si tiene conto in sede di liquidazione del compenso dell'amministratore giudiziario.

Nella stessa ottica, si stabilisce che l'istanza di liquidazione del compenso finale dell'amministratore giudiziario e dei coadiutori deve contenere l'attestazione di tutti i compensi ricevuti a qualsiasi titolo ed essere sempre corredata da tutta la documentazione di riferimento (punto 9.1).

Viene, altresì, esclusa la possibilità di liquidare acconti all'amministratore giudiziario che riceva già compensi quale amministratore di società in sequestro (punto 9.4). Si tratta di una previsione dalla quale si desumono, a contrario, due principi di significativa rilevanza, entrambi coerenti con il quadro legislativo: la possibilità dell'amministratore giudiziario di assumere egli stesso la carica di amministratore delle società in sequestro, e la cumulabilità dei rispettivi compensi in sede di liquidazione finale. Tuttavia, per razionalizzare gli effetti della suddetta disciplina ed evitare indebite duplicazioni di somme, appare appropriato il richiamo al criterio generale che impone di tenere conto in sede di liquidazione del compenso dell'amministratore giudiziario dei costi degli organi esecutivi delle società (punto 4.6) nei quali può certamente ricomprendersi il compenso da lui percepito per il ruolo di amministratore delle stesse. In altri termini, all'amministratore giudiziario potrà essere corrisposto, in sede di liquidazione finale, il compenso che attiene ad attività ulteriori rispetto a quelle che hanno già trovato una adeguata retribuzione nell'ambito della compagine sociale.

La regolamentazione, di indubbia opportunità, contenuta nelle direttive del tribunale di Palermo, rafforza la convinzione della utilità di un intervento di riforma legislativa volto a modificare l'art. 42, comma 4 del codice antimafia stabilendo che « la determinazione dell'ammontare del compenso, la liquidazione dello stesso e del trattamento di cui all'articolo 35, comma 8, nonché il rimborso delle spese sostenute per i coadiutori, sono effettuati dal cancelliere sulla base delle indicazioni fornite con decreto motivato daltribunale, su relazione del giudice delegato ».

Come rilevato nella relazione della relazione della Commissione ministeriale incaricata di elaborare una proposta di interventi in materia di criminalità organizzata, presieduta dal Prof. Giovanni Fiandaca, una siffatta modifica servirebbe a rimuovere una vistosa anomalia del sistema italiano, in cui, a differenza di quanto avviene in pressoché tutti gli altri ordinamenti europei, le attività di liquidazione dei compensi degli ausiliari del giudice sono effettuate dallo stesso organo giudicante e non dalla cancelleria.

Si realizza così un evidente appesantimento del carico di lavoro dell'autorità giudiziaria, senza alcun apprezzabile miglioramento qualitativo dei provvedimenti, che non a caso rientrano nelle competenze del personale di cancelleria in pressoché tutti gli altri Stati dell'Unione europea.

Una volta emanate le tabelle per la liquidazione dei compensi e adottate dal tribunale una serie di direttive di ordine generale, è logico che la relativa attività applicativa debba essere attribuita alla cancelleria, la quale può provvedervi sulla base delle indicazioni fornite dal giudice circa i parametri da prendere in considerazione con riguardo al valore del patrimonio, alla complessità del compito gestionale e al diligente impegno dell'amministratore.

Si tratta di una regolamentazione che potrà favorire la realizzazione del principio di ragionevole durata del processo, valorizzando la professionalità del personale di cancelleria e sgravando i magistrati di compiti che negli altri ordinamenti, giustamente, non sono loro attribuiti. A ciò si aggiunge un indubbio vantaggio derivante dalla divisione dei compiti tra chi conferisce l'incarico e chi liquida i relativi compensi, evitando ogni concentrazione di funzioni che non giova all'efficienza né alla credibilità della giustizia.

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