Un giorno in Cassazione (deontologia spicciola del ricorso e del giudizio)
12 Dicembre 2016
Quest'anno due Colleghi di studio diverranno cassazionisti, un altro lo è da alcuni mesi. Cari amici con cui ci confrontiamo anche sul tema, attualissimo specie per loro; eppure, non mi sento di averli informati ordinatamente di quel che troveranno quando andranno nel Palazzaccio. Mi rivolgo perciò ai giovani Colleghi che a volte conoscono la suprema Corte solo nei loro studi astratti e credono di aver raggiunto l'apice della professione forense, avendo acquisito il nulla-osta per far parte dell'Empireo della giustizia umana. Lo farò senza dire che ci sono troppi ricorsi e che sono spesso fatti male, come del resto molte sentenze. Senza pretendere di spiegare come si fanno, esporrò una breve descrizione di un giorno di udienza in Cassazione, con l'indicazione di quel che ci si deve aspettare dal contatto con i protagonisti e con le utili comparse di questo sfarzoso e agonizzante grado di giudizio. Lo farò con riferimento ai soggetti del processo dinanzi la Corte di legittimità come li vedo nella mia esperienza, oltre che a coloro che gravitano attorno ad essi. Farò un cenno alla necessaria preparazione che il ricorrente dovrà aver acquisito per stendere il ricorso, evitando di stendere chi dovrà leggerlo. Per diventare cassazionista (in ossequio alla nuova legge professionale) è necessario frequentare e superare un apposito corso del C.N.F. Durante il quale si farà una ripassata sintetica dello scibile giuridico non solo penalistico, in certi casi molto interessante e piacevole. I miei giovani Colleghi, più che quanto appreso dai professori del corso e – se ce l'hanno – dal loro maestro, devono adeguarsi al format, stratagemma concordato dai vertici della Corte di cassazione e dell'avvocatura per fornire al ricorrente un più breve e schematico modello di redazione del ricorso, con un riepilogo prezioso – qualora si superino le venticinque pagine – che i maligni sostengono potrebbe essere l'unica lettura che faranno certi magistrati di cassazione. Il giovane cassazionista, del resto, penserà presto che la formula di bocciatura dell'impugnazione dipende dalla prescrizione: rigetto se non maturata, inammissibilità se maturata. E l'accoglimento? Sì capita ma è una decisione riservata a percentuali quasi insignificanti, specie se si considera che i dati ufficiali sono comprensivi di depenalizzazione, estinzione ed improcedibilità.
I miei giovani Colleghi di solito hanno già imparato che l'avvocato, se vuole essere apprezzato anche da certi magistrati preponenti, non può impugnare una sentenza solo perché – senza speranza di accoglimento – conviene all'imputato, alias per meri scopi dilatori, come il protrarsi di una carcerazione domiciliare che si trasformerà in carcerazione autentica con il passaggio in giudicato. È vero che gli avvocati più esperti sostengono che l'interesse dell'assistito è certamente quello e lecitamente, doverosamente va garantito ma certi giudici si infastidiscono molto. Come quelli che non tollerano che il difensore neghi il consenso alla rinnovazione mediante lettura, o all'inversione dell'ordine di assunzione testimoniale, o all'acquisizione di atti che altrimenti non possono entrare nel fascicolo del dibattimento. In definitiva per un difensore che vorrebbe confrontarsi lealmente con i magistrati non si comprende perché giuristi di pari esperienza e magari ex colleghi d'università la pensino poi così diversamente. Il motivo c'è: la perniciosa “sindrome da durata” del processo, che infetta solo i magistrati. Si sostiene pure che l'avvocato per lo stesso motivo non debba riservare all'ultimo grado di giudizio l'eccezione di nullità che conosce sin dal primo grado, così manifestando l'ignobile intento di perseguire (appunto) la famigerata prescrizione, una “sconfitta per la giustizia” alla quale però Corte suprema (beh qualche supplenza, se necessaria …) e conseguentemente il Legislatore stanno “ponendo rimedio”. Al contrario, gli avvocati obiettano che la prescrizione è un istituto sostanziale, che non è giusto scontare una sanzione a distanza eccessiva dai fatti e che così, invece, i tempi del processo possono allungarsi a dismisura.
Appena entrati nel maestoso Palazzaccio, il cui architetto si suicidò non certo perché pensò ai milioni di misfatti che si sarebbero consumati, troverete a pochi metri sulla destra l'affittatoghe. Che giustamente non si fida degli avvocati e oltre al compenso per l'uso della toga – quando c'è – nonostante si lasci il soprabito, vuole un documento, che trattiene finché non venga restituita. Sapete com'è, noi avvocati non beneficiamo di una grande considerazione, la nostra patologia del resto è devastante. Vabbè, non fateci caso, sono gli altri iscritti al nostro albo a provocare questa reazione, prima o poi qualcuno se ne occuperà.
Arrivati dinanzi l'aula di udienza vi accorgete di un capannello di avvocati attorno a un commesso (insieme all'affittatoghe l'unico soddisfatto del numero di udienze e specialmente di avvocati), che annoterà la vostra presenza, perché saranno chiamati dapprima i processi in cui è presente almeno un difensore e, a volte, vi chiederà se “vi riportate”. Ne riparleremo. Cari Colleghi, siate generosi con quei signori. Sono loro a chiamarci cortesemente (seppure per … procurata gratitudine) a tarda sera per darci la mala notizia e sono così contenti, quale che sia il verdetto, che a volte ce lo facciamo ripetere. Il rigetto, anziché l'inammissibilità, è quasi un successo.
Mentre gli avvocati attendono, più o meno nervosi o disillusi, che sia chiamata la propria causa, un altro personaggio in toga si aggira sornione e sicuro di sé. Si presenta in udienza rilassato e spesso con un sorriso, o peggio con un'aria di circostanza nei confronti dei suoi colleghi, magari in preda a manifestazioni ansiose non sempre trattenute. È un avvocato, a fine giornata avrà anche lui la sua mala notizia, che avrà da ridere? Ah ecco, la causa la vincerà, è difensore di parte civile è l'unico (tranne, fino alla telefonata, qualche illuso) a credere nella giustizia semidivina del terzo grado, almeno finché non tornerà a difendere gli imputati. In aula di solito il difensore di parte civile tace. Diligentemente si concentra sulle conclusioni e relativa nota spese, che ritocca accuratamente. La causa è vinta con elevatissime percentuali di probabilità.
Nemmeno quando, estate e inverno, il caldo o il freddo sono insopportabili, nemmeno quando non c'è dove sedersi (e non c'è mai dove sedersi, tutt'al più ci è concessa una scomoda panca per tre-quattro persone), l'avvocato protesta perché non lo fanno entrare in aula in attesa che cominci l'udienza (del resto anche l'associazione di categoria tace, credo per delicatezza). Entra il P.G., ossequiato dagli avvocati, che addirittura siede alla destra della Corte onnipotente, anziché accanto difensori come negli altri gradi di giudizio (e in assenza di alcuna differenziazione normativa). Potrebbe farsi la relativa protesta/eccezione. Però gli avvocati, singoli e associati, tacciono da tempo, inspiegabilmente rassegnati. Qualcuno, tutt'al più, entra lo stesso. Il suo timido coraggio si conclude miseramente: interviene il cancelliere. Nessuno può togliergli la soddisfazione di cacciarci fuori.
Finalmente, alle dieci o poco più, comincia l'udienza. Prima le camerali partecipate e in cui vi sia almeno un difensore, poi il supremo Collegio celebrerà le altre camerali, infine si aprono le porte: comincia l'udienza pubblica. Il Presidente chiede – se non l'ha già fatto il commesso – agli avvocati (che del resto hanno scritto tanto …) se intendono riportarsi ai ricorsi senza discuterli, così legittimando se non istigando una decisione fraudolenta del difensore nei confronti del suo assistito, che ha pagato o pagherà trasferta e onorari per nessuna attività professionale. Il giovane Collega pensa che nessuno accetterà una simile mascalzonata ma si sbaglia: mediamente la metà dei presenti fa a gara a segnalare il suo riporto. Anche chi viene da Venezia o da Siracusa e avrà “guadagnato” trasferta e onorario nonostante non abbia svolto nessuna attività. Tanto l'interessato non lo saprà mai. Un brutto momento per il giovane Collega. In compenso il processo con riporto dura sessanta secondi, il tempo di verbalizzare le conclusioni. È necessario ricavare tempo per decidere bene. Tre o quattro, persino cinque ore di camera di consiglio per cinquanta cause bastano, no? Si arriva a una media di tre, a volte addirittura quattro minuti lordi per decisione (detratte esigenze fisiologiche, pasto frugale, due chiacchiere per riprendersi dopo l'udienza). Ci sono questioni ripetitive, tra l'altro. E poi gli avvocati hanno scritto, il P.G. non può lamentarsi, perché ha pressoché sempre ragione (a meno che non chieda l'accoglimento) e insomma il relatore illustrerà telegraficamente la sua soluzione e la Corte si fida del relatore. E soprattutto la pendenza va smaltita. Con buona pace dei criticoni. Il numero dei ricorsi nelle altre nazioni europee è ben minore, se guardiamo le percentuali, in Italia ci sono troppi ricorsi, la gran parte inammissibili, meno male che c'è la settima e che il quarto comma del 625-bis c.p.p. (ricorso straordinario vittima di infanticidio ad opera della giurisprudenza sempre più insofferente di fronte a certe iniziative legislative non concordate) riesce persino a superarla evitando la notifica agli avvocati che non si rassegnano e continuano testardi a presentare straordinari ricorsi speranzati e inammissibili.
La tiritera è lunga e risaputa. Vi chiederete: ma allora per il sistema è meglio presto che bene? Sono fondate le accuse di supplenza, di decisioni salva-processi, di quelle dettate dalla sindrome da durata? Quando ne discuteranno? In quella manciata di minuti? I giudici non si curano delle critiche, almeno così si dice. Che ne sanno gli avvocati della loro difficoltà di applicare una legge non condivisa, di annullare un processo dopo tanti anni di impegno dello stato e dei suoi funzionari (definendo infondato il ricorso laddove, se manifestamente infondato, si evita la prescrizione), della loro responsabilità disciplinare e delle valutazioni di carriera, dettate da burocratiche considerazioni quasi solo statistiche? Sono loro a renderne conto alla coscienza e agli organi competenti. Ci torneremo. Intanto l'udienza va avanti. Vi vergognate, cari Colleghi, delle copiose adesioni degli avvocati alla proposta di non adempiere al mandato.
Del resto, anche chi non si riporta, infastidendo il giudice relatore che s'è già sorbito lo scritto e gli altri giudici che in quel processo non c'entrano nulla, riceve spesso dal Presidente l'invito dopo qualche minuto della sua arringa a concludere, che ha già ha scritto molto e bene. Altrimenti rischia di essere sconveniente, come quel difensore che al Presidente che gli chiedeva se ne avesse ancora per molto rispose: Il tempo che la Corte capisca, credo di sì.
La Corte si divide i ricorsi da decidere con assegnazione equa da parte del presidente ai consiglieri. Non si usa da tempo che tutti i giudici conoscano tutti i ricorsi, sarebbe un disumano spreco di energie, vista la quantità insostenibile di processi. È vero che la legge prevede che il supremo Collegio decida con tutti i suoi cinque membri. Il che è una garanzia in più per il ricorrente. Però, innanzitutto la legge se non piace ai magistrati va … interpretata (ce lo insegnò anni fa con sconcertante franchezza un primo Presidente in un convegno durante una tavola rotonda da lui diretta); e poi in camera di consiglio se ne parlerà. Comunque non possono studiarsi cinquanta ricorsi, è già tanto che si riesca a deciderli ...
Vi accorgete che quando l'avvocato si riporta, o comunque quando è assente, il consigliere relatore non deve relazionare. Quindi gli altri giudici continuano a non saperne nulla? Quindi è come se decidesse un giudice monocratico? Ma no, in camera di consiglio si recupererà, perché dovremmo essere così diffidenti? Tre o quattro minuti se si ha un cervello scoppiettante di diritto bastano, no? Il sostituto procuratore generale, a sua volta, non può studiare una media di 50 ricorsi per udienza, motivando così specificamente tutte le sue richieste di inammissibilità o rigetto. Anche senza il riporto della difesa, dunque, gli basta dettare le conclusioni, così regala altro tempo ai giudici per decidere. Lo fanno solo alcuni, per la verità. Nessuno però pronuncia la sua requisitoria se l'avvocato si riporta o se è assente. Così i giudici non conoscono le ragioni delle sue richieste! Ho sentito chiedere l'annullamento parziale senza specificazioni ulteriori: perché, per quale motivo? Non importa, dettagli; del resto con 50 ricorsi le avrebbero dimenticate, salvo il verbale (e i suoi eventuali errori).
Beh, giustizia, è fatta. E con essa appaiono sparute e imbarazzate la deontologia e la legalità di cui disponiamo. Mi scuso con tutti, in certi momenti mi è sembrato di staccare la spina di un moribondo. Ora però la facile ironia è finita. E con essa le amarezze: per gli avvocati che si riportano con tanti ossequi e scusandosi di aver tediato chi ha il compito anche di ascoltarli, per i magistrati che internamente si lamentano di non poter lavorare con serenità e senza affanni. Per non dire del tormento di applicare leggi gravemente non condivise. Penso al monito di Leonardo Sciascia in Porte aperte, dove un piccolo giudice viene pressato perché applichi la pena di morte. Alla fine resiste e ne subirà le conseguenze, senza perciò sentirsi un eroe: non farà carriera, rimanendo anche isolato socialmente. Il romanzo è preceduto da una frase di un grande Salvatore Satta: La verità è che chi uccide non è il legislatore ma il giudice, non è il provvedimento legislativo ma il provvedimento giurisdizionale. Quando poi, durante i suoi tormenti di giudice piccolo e solo, gli si contesta che l'illustre Alfredo Rocco è sostenitore della pena di morte e gli si snocciolano i suoi prestigiosi titoli (avvocato, Ministro di grazia e giustizia, ordinario di procedura penale a Roma, autore dei codici penale e di procedura), lui si ribella, riempiendomi di orgoglio: titoli che vanno benissimo, a paludamento del lacchè. Ma quello di avvocato, che amava far precedere dal suo nome, questo titolo no, il giudice non riusciva a concederglielo.
Qui è doverosa una precisazione. Non sono inspiegabili i rimedi, seppure molto discutibili, impiegati dai magistrati di cassazione. Che con ogni probabilità, in cuor loro e senza ammetterlo nemmeno sotto tortura, concordano con le perplessità ora esposte. È inspiegabile, anzi balordo, il sistema. Che lascia ai soli vertici della suprema Corte la soluzione impossibile di un problema immane, gravemente appesantito dalle valutazioni statistiche ridicole e dirimenti della professionalità del magistrato. Non mi importa se hai scritto tante belle sentenze, ne hai scritte meno della media, meno dell'anno scorso.
Forse anche qui ci vuole un lavoro comune. Il LaPec e Giusto processo potrebbe essere la sede giusta, non vedo altre iniziative delle associazioni che dovrebbero gridare le loro proteste, proporre le loro soluzioni. Noi non grideremo, non è nel nostro stile né nel nostro statuto. Noi, magistrati e avvocati, lavoriamo insieme e di solito una soluzione la troviamo. Cari Colleghi, mi dispiace. Volevo ridere e farvi ridere. Comunque volevo essere più scanzonato. Non ce l'ho fatta. E ora qualcuno di voi potrebbe chiedersi: ma intanto, finché prevarrà lo sfacelo, perché andare in cassazione? Perché per l'interessato è l'ultima speranza, perché il mio è uno sfogo semitragico ma anche semiserio, perché comunque le regole hanno le loro eccezioni, perché ci sono avvocati di rango e magistrati straordinari (non solo lapechiani) che si battono anche contro la statistica conciliandoci con la giustizia. Perché siamo avvocati. E gli avvocati non si rassegnano.
* intervento dell'Autore al Convegno, organizzato dalla sezione LaPec di Palermo Il ricorso per Cassazione e il ricorso alla Corte Edu del 2 dicembre 2016 |