La scriminante tacita dell'esercizio dell'attività sportiva ed i suoi limiti applicativi
21 Aprile 2016
Abstract
La condotta violenta compiuta nel corso di un'azione di gioco, che cagioni delle lesioni all'avversario, non ha rilevanza penalistica se appaia caratterizzata da una finalità agonistica e rimanga entro la soglia del cosiddetto rischio consentito e ciò anche nell'ipotesi di violazione delle regole di gioco sanzionata in via disciplinare. Il caso in esame
Durante una partita di calcio del campionato dilettanti, categoria "eccellenza", nel corso di un'azione di gioco, un calciatore colpiva con violenza l'avversario sferrandogli un calcio con la finalità di interrompere un contropiede da questi intrapreso nei minuti finali dell'incontro, così cagionandogli lesioni gravi. Il giudice di primo grado condannava il calciatore per lesioni colpose ed il tribunale in funzione di giudice di appello, pur dopo avere evidenziato che l'intento era quello di colpire il pallone ed interrompere l'azione avversaria e non già quello di cagionare allo stesso delle lesioni gravi, pronunciava sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. Evidentemente non soddisfatto per la mera declaratoria di estinzione del reato, l'imputato ricorreva per cassazione allo scopo di ottenere l'assoluzione nel merito. La Corte di cassazione (Sez. IV, 26 novembre 2015 - dep. 8 marzo 2016, n.9559) ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata con la formula terminativa, perché il fatto non costituisce reato, riconoscendo operante la scriminante non codificata dell'esercizio dell'attività sportiva, nei limiti del cosiddetto rischio consentito, meglio precisati nell'ampia motivazione. La sentenza della Cassazione n. 9559/2016
Nel caso posto all'esame della Cassazione l'imputato aveva tentato di recuperare il pallone, prendendo però male tempo e misure, colpendo così la gamba dell'avversario con estrema violenza, tanto da cagionargli delle lesioni. Ne derivava che, secondo il giudice di legittimità, la condotta era meritevole di un rimprovero in sede disciplinare ma non anche in sede penale. Infatti, il contesto era quello della competizione e la fase di gioco era intensa, versando la gara nei frangenti finali e rivestendo una importanza notevole per la situazione di classifica delle due squadre. In particolare si riporta della motivazione il passaggio centrale: L'atto (ossia il calcio sferrato alla gamba dell'avversario, n.d.r.), di poi, era manifestamente indirizzato a interrompere l'azione di contropiede della squadra avversaria, mediante il tentativo d'impossessarsi regolarmente del pallone. La condotta del D.B., diretta a colpire il pallone, appare meritevole di censura intranea all'ordinamento sportivo, non già perché smodatamente violenta (la pienezza agonistica qui era giustificata dal contesto dell'azione, dal momento di essa e dagli interessi in campo), bensì perché, mal calcolando la tempistica, invece che cogliere il pallone, aveva finito per colpire la gamba dell'avversario, che già aveva allungato la sfera in avanti; ma, certamente, non sconfina dal perimetro coperto dalla scriminante di cui s'è discorso. In sostanza i giudici di legittimità hanno ritenuto che vi fosse una violazione della regola sportiva ma che dal punto di vista penalistico difettasse ogni profilo di colpevolezza. La suprema Corte, con la sentenza Sez. IV, 26 novembre 2015 (dep. 8 marzo 2016), n. 9559, De Bardi qui commentata, prima di giungere alla suddetta conclusione di assoluzione dell'imputato, ha ricostruito l'operatività della scriminante dell'esercizio dell'attività sportiva nelle diverse ipotesi in cui essa si svolge, offrendo un utile quadro sistematico, esposto nei seguenti termini: a) Solo nelle discipline a violenza necessaria o indispensabile la scriminante copre azioni dirette a ledere l'incolumità del competitore, salvo, come si è anticipato, il rigoroso rispetto della disciplina cautelare di settore, ivi inclusa la speciale cautela nell'affrontare incontri tra atleti aventi capacità e/o forza fisica impari. In ogni caso, la scriminante non opera se resti accertato che lo scopo dell'agente non era quello di prevalere sul piano sportivo, ma di arrecare, sempre e comunque, una lesione fisica o, addirittura, procurare la morte del contendente. b) Occorre il rispetto della regola della proporzionalità dell'ardore agonistico al rilievo della vicenda sportiva, pur dovendo trovare mitigazione, un tale limite, nell'inevitabile coinvolgimento psico-fisico procurato dalla contesa sportiva, idoneo ad allentare la capacità di giudizio e d'inibizione dell'agente. c) L'eventualità che venga violata una delle regole del gioco, costituisce evenienza preventivamente nota ed accettata dai competitori, i quali rimettono alla decisione dell'arbitro la risoluzione dell'antigiuridicità, che non tracima dall'ordinamento sportivo a quello generale. d) In ogni caso, ove il fatto violento, pur se conforme al regolamento del gioco, sia diretto ad uno scopo estraneo al finalismo dell'azione sportiva o, addirittura, all'azione di gioco, l'esimente non opera. e) La scriminante non opera ove il fatto, caratterizzato da violenza trasmodante, appaia inidoneo, con giudizio ex ante, a perseguire lo scopo sportivo. f) La scriminante non opera, infine, ove l'azione violenta, contraria al regolamento, venga commessa nonostante risulti percepibile, ex ante, da parte dell'agente, come prevedibile la lesione dell'integrità fisica del competitore. La sentenza si segnala pertanto perché affronta in maniera generale la tematica relativa ai limiti applicativi della c.d. scriminante sportiva, offrendo validi spunti per risolvere le ipotesi più controverse che si verificano quando l'azione lesiva è commessa nel corso dell'attività sportiva, non essendo stata la gara sospesa dall'arbitro. È infatti pacifico che, se la gara è momentaneamente sospesa o definitivamente conclusa, qualsivoglia condotta violenta (il caso tipico è quello del cosiddetto fallo di reazione) non può rientrare nell'ipotesi scriminata dell'esercizio dell'attività sportiva, perché tale causa di giustificazione presuppone che l'attività sportiva sia in corso. In tal senso si è espressa la suprema Corte (Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 28 aprile 2010, n. 20595), confermando la condanna per lesioni colpose nei confronti di un giocatore di calcio, il quale malgrado l'arbitro avesse fischiato per fermare il gioco, non aveva frenato il suo slancio agonistico, né aveva considerato la vicinanza della mano dell'avversario al pallone, ed aveva quindi tentato di calciare il pallone impattando invece la mano del giocatore della squadra avversaria procurandogli una frattura. Non è parimenti dubbio che nell'ipotesi in cui si accerta che la gara sportiva è solo un'occasione dell'azione illecita volta a cagionare l'evento, l'autore del fatto integrante il reato di lesioni risponderà dello stesso a titolo di dolo, non potendosi invocare alcuna delle cause di giustificazione relative all'attività sportiva indicate in precedenza, anche se ciò avvenga durante lo svolgimento di una gara (si veda in tal senso Cass. pen., Sez. IV, 4 luglio 2011, n. 42114, caso in cui era stato sferrato un pugno da un calciatore al di fuori di un'azione di gioco, che si stava sviluppando in altra zona del campo). Non vi sono poi particolari perplessità neanche nei casi diametralmente opposti, ossia quando la violazione della regola sportiva è avvenuta involontariamente, per la concitazione della gara, per la stanchezza che ha ridotto il livello di attenzione dell'atleta ecc. ecc. È evidente che non vi sono profili di rimproverabilità penale da imputare allo sportivo, per cui in quell'ambito trova comunque piena applicazione la scriminante de qua . Dubbi invece sussistono, come detto, nelle ipotesi in cui la lesione o la morte derivino dalla violazione anche consapevole delle regole sportive, compiuta però nel corso di un'azione di gioco in cui, dalla ricostruzione in fatto, appare evidente che l'atleta perseguisse solo finalità agonistiche (proprio il caso qui in esame), ipotesi per così dire di scuola, del calciatore che rincorrendo l'avversario che si avviava con il pallone verso la sua porta per segnare un goal, nell'impossibilità di togliergli la palla, lo atterri da tergo, colpendolo con un calcio ad una gamba, così cagionandogli lesioni (si veda anche la sentenza, Cass. pen., Sez. V, 8 ottobre 1992, n. 9627, in Cass. pen., 1993, n. 1726, pag. 1002). Non pare tuttavia condivisibile in questi casi la ricostruzione dogmatica in termini di stretto parallelismo tra violazione volontaria della regola sportiva ed illecito penale, in quanto tale interpretazione non è rispettosa dell'intrinseca peculiarità dell'attività sportiva, la quale trova motivi di perfezionamento e di interesse, anche per gli spettatori oltre che per i praticanti, proprio nella cosiddetta ansia di risultato, la quale invero costituisce l'in sé dell'agonismo, che a sua volta rappresenta l'anima dell'attività sportiva, anche di quella amatoriale. Va sottolineato che il mancato rispetto, anche volontario, delle regole del gioco, è in una certa misura fisiologicamente connesso ad ogni pratica agonistica, tant'è che gli stessi regolamenti sportivi prevedono una serie di violazioni, con le rispettive sanzioni per i cosiddetti "falli di gioco" commessi dagli atleti; ipotizzare invece in questi casi sempre l'intervento del giudice penale, significherebbe scoraggiare in radice ogni attività sportiva, in quanto si finirebbe con il ridurre drasticamente i margini di liceità. La soglia del cosiddetto rischio consentito
Secondo l'impostazione offerta dalla dottrina nettamente maggioritaria e da parte della giurisprudenza, l'area di liceità nella pratica dello sport non è limitata dall'osservanza o meno delle regole di gioco ma piuttosto dal livello di "violenza base", in ragione dei diversi sport, che ogni partecipante accetta implicitamente nello svolgimento dell'attività agonistica. È evidente che in una partita di calcio o di basket, entrambi sport a violenza cosiddetta eventuale, solo di fronte a eventi di particolare gravità lesiva, tali da ricomprendere anche lesioni permanenti all'integrità fisica, si potrà presumere il superamento della soglia del rischio consentito. Tale impostazione, per così dire meno rigoristica, trova peraltro dei giusti contemperamenti in ulteriori criteri di valutazione della soglia del cosiddetto rischio consentito; essa infatti non dipende solamente dall'individuazione della cosiddetta "violenza-base" a seconda dei tipi di sport che si praticano, che vanno infatti distinti tra quelli a violenza necessaria, quelli a violenza eventuale e quelli senza contatto fisico (es. tennis), ma anche dal livello agonistico sotteso alla gara sportiva. Detta soglia va perciò ritenuta particolarmente bassa nel caso di semplice allenamento o di gare amatoriali nelle quali i partecipanti si attendono un livello di correttezza maggiore dagli avversari e invece deve essere via via innalzata nell'ipotesi di gare ufficiali tra dilettanti, sino a quelle tra professionisti, in cui l'ansia di risultato assume la sua massima espansione, in ragione anche degli interessi economici presenti. Appare infine degna di nota la posizione di quegli autori i quali, ritenendo che il discrimine tra ciò che è lecito e quello che risulta penalmente rilevante non sta nell'osservanza delle regole del gioco, quanto piuttosto nella violazione del principio di lealtà che deve sorreggere l'attività sportiva, arrivano alla conclusione che l'alternativa è solo tra due possibilità: mero illecito sportivo e reato doloso, contrariamente a quanto invece sostenuto dalla giurisprudenza che prevede anche l'ipotesi del reato colposo. In realtà le incertezze interpretative esposte, consentono conclusivamente di concordare con quanto affermato expressis verbis dalla Cassazione in più sentenze, e cioè che: Neppure è facile stabilire quale sia la soglia del c.d. rischio consentito per ciascuna disciplina sportiva. Trattasi in realtà di questione prevalentemente di fatto la cui soluzione compete ai giudici di merito. Peraltro in un primo tempo, la giurisprudenza della Cassazione è sembrata dare centralità al consenso dell'avente diritto, al fine di individuare così la soglia del c.d. rischio consentito, entro la quale non vi sarebbe rilevanza penale. In particolare ha affermato che la violazione consapevole delle regole del gioco, anche di quelle poste specificamente a salvaguardia dell'incolumità dei partecipanti, non può comportare automaticamente l'affermazione della colpa per inosservanza di norme cautelari ai sensi dell'art. 43 c.p. ma che essa può ricorrere solo quando si accerta nel merito il superamento della predetta soglia, determinata in ragione del tipo e livello di attività sportiva, su cui viene dato anche implicitamente il consenso all'offesa da parte di ogni partecipante (in una partita di calcio la Cassazione ha ritenuto che gli atleti fossero consapevoli del rischio di essere atterrati con uno sgambetto o con una spinta che superasse i limiti regolamentari). Tale superamento è stato poi individuato in quelle condotte che abbiano travalicato dal dovere di lealtà sportiva fino a trasmodare nel disprezzo per l'altrui integrità fisica (si veda in tal senso : Cass. pen., Sez. V, 8 ottobre 1992, n. 9627; Cass. pen., Sez. V, 12 maggio 1993; Cass. pen., Sez. IV, 25 febbraio 2000, n. 2765, in Riv. dir. sport, 2000, 1-2, 142 ss. Negli stessi termini anche una sentenza in sede civile Cass. pen., Sez. III, 8 agosto 2002, n. 12012, Fregola c. Salietti). Tale impostazione è stata poi prevalentemente seguita dalla giurisprudenza di merito (vedi trib. Aosta, 21 maggio 1997, in Resp. civ.e prev., 1997, 1208; trib. civ. Milano, 20 dicembre 1999, Di Salvo c. Crescione, in Riv. dir. sport, 2000, 1-2, 189 ss.; trib. Rieti, 12 gennaio 2001, in Giur. merito, 2001, II, 409; App. Palermo, 26 novembre 2002, in Giur. merito, 2003, II, 719). Di diverso avviso sono invece alcune più recenti sentenze della suprema Corte, (Cass. pen., Sez.V, 21 febbraio 2000, n.1951; Cass. pen., Sez. IV, 7 ottobre 2003, n. 39204, in Riv.pen., 2004, 194; più di recente Cass. pen., Sez. V, 20 gennaio 2005, n. 19473) nelle quali abbandonando il richiamo alla figura del consenso dell'avente diritto, si è sostenuto che quando il fatto lesivo si è verificato perché il giocatore ha violato volontariamente le regole del gioco, disattendendo i doveri di lealtà verso l'avversario, allora esso non potrà rientrare nella causa di giustificazione dell'attività sportiva, ma sarà penalmente perseguibile. Se il fatto si è poi verificato nel corso di una azione di gioco al fine di impossessarsi della palla o di impedire che l'avversario ne assuma il controllo, ed il mancato rispetto delle regole del gioco sia in realtà dovuto all'ansia di risultato, si è affermato ricorrere la natura colposa dell'illecito penale (in in tal senso trib. Venezia 2 dicembre 1999, in Giur. merito, 2000, II, 641). In questi termini perciò la Cassazione da ultimo richiamata ha limitato l'area dell'illecito sportivo penalmente irrilevante, alle sole ipotesi d'inosservanza involontaria delle norme regolamentari di gioco (ad es. a causa della concitazione della fase di gioco o per stanchezza), mentre ha ritenuto che la violazione volontaria delle stesse comporterà sempre una responsabilità penale: 1) di natura colposa, se l'atleta non le ha osservate, anche solo per ansia di risultato, nell'ambito di una azione di gioco ed in funzione dell'obiettivo agonistico; 2) di natura dolosa se l'agente le ha violate fuori da finalità sportive, con l'intenzione o la mera accettazione del rischio di arrecare pregiudizio all'integrità fisica dell'antagonista. In sostanza è la finalizzazione o meno allo sviluppo del gioco che contraddistingue l'atto lesivo doloso da quello colposo, in cui è voluto soltanto il contrasto, sia pure irregolare, all'azione di gioco dell'avversario (Cfr. in questi termini le già citate: Cass. pen., Sez.IV, 28 aprile 2010, n. 20595; Cass. pen., Sez. V, 13 febbraio 2009, n. 17923). In conclusione
La Cassazione nelle pronunce per ultimo citate, ha voluto raccogliere i suggerimenti di quella parte della dottrina che ha contestato l'automaticità tra violazione disciplinare con effetti lesivi ed illecito penale, in nome della necessità di non "soffocare" lo spirito agonistico che dà linfa vitale allo sport con la cappa del penalmente rilevante. Viene perciò detto che per integrare la fattispecie penale non basta che il giocatore violi volontariamente la regola sportiva ma è necessario che la sua condotta sia abnorme, nel senso di contraria con evidenza al cosiddetto principio di lealtà e correttezza sportiva. Queste affermazioni della Cassazione, per certi versi richiamano l'idea che la scriminante dell'attività sportiva abbia come presupposto (e non anche come fondamento) il consenso implicito dei partecipanti al gioco, i quali sono consapevoli che l'attività sportiva includa quasi inevitabilmente anche la violazione delle relative regole (punite con le sanzioni disciplinari), nel limite però del principio di lealtà sportiva, che certamente non può comprendere una grave lesione della propria integrità fisica a cui nessun giocatore di regola acconsentirebbe (ad eccezione ovviamente per gli sport a violenza c.d. necessaria). Individuato perciò l'ambito del penalmente rilevante, la Cassazione ha in altra occasione precisato e poi ribadito infine il criterio di imputazione del profilo soggettivo, doloso o colposo, affermando che esso andrà poi, agevolmente risolto sulla base del criterio finalistico (applicabile solo in tale limitato ambito), ossia se l'azione violenta, anche se antisportiva – e dunque antidoverosa – sia direttamente funzionale non alla messa in pericolo dell'altrui incolumità, ma al perseguimento dell'obiettivo agonistico, ovvero se sia gratuitamente rivolta alla persona dell'avversario, in forma diretta o intenzionale ( con consapevole profittamento della circostanza di gioco) o con mera accettazione preventiva del rischio di arrecare pregiudizio all'integrità fisica dell'antagonista. Nel primo caso, si avrà responsabilità per colpa; nel secondo a titolo di dolo, diretto od eventuale. In conclusione si può ritenere che il dato interpretativo più interessante della giurisprudenza della Cassazione sin qui esaminata, è che di fronte ad un gesto volontario dell'atleta, in cui in molti casi si può ragionevolmente immaginare che l'agente abbia accettato il rischio di colpire pericolosamente l'avversario, la suprema Corte ha utilizzato il criterio finalistico per escludere l'imputazione dolosa, sottolineando che tale criterio è applicabile solo in tale limitato ambito. Si è perciò tenuto in massimo conto il contesto in cui si è verificata la condotta violenta, ossia nell'ambito di un'attività, che come detto, non solo è consentita dall'ordinamento ma è anche da esso promossa a fini di utilità sociale. In generale sull'incidenza del diritto penale nello sport si veda ALBEGGIANI, voce Sport,in Enc. dir., vol. XLIII, Giuffrè, 1990, 552; DE FRANCESCO, La violenza sportiva ed i suoi limiti scriminanti, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, 597; MANTOVANI, voce Esercizio del diritto ( diritto penale), in Enc. dir., vol. XV, Giuffrè, 1990, 648.
Quanto poi in particolare alla problematica delle lesioni nel corso dell'attività sportiva, si veda: AMATO, Per i danni causati nell'azione di gioco la responsabilità è solo per colpa, in Guida dir., 2000, 10, 73 ss.; D'AMBROSIO, La responsabilità per le lesioni cagionate durante un'attività sportiva; in Cass.pen., 2000, 1634, 3016 MELILLO, Violenza sportiva: condizioni per la rilevanza penale del fatto., in Cass. pen., 1993, 1726, 1002; RONCO, sub art. 590, in Codice penale ipertestuale, a cura di M. Ronco e S. Ardizzone, Padova, 2003, 2084 ss.; nonché ci sia consentito il richiamo a MARRA, La Cassazione precisa i limiti scriminanti dell'attività sportiva, in Cass. pen., 2010, 279, 933; MARRA, Le lesioni dolose possono ricorrere anche nel corso della gara sportiva, in Dir. pen. proc., 2012, fasc. 2, pag. 204. |