Eccessiva durata delle indagini e avocazione: il Legislatore tenta la via del “dialogo” tra le procure

31 Luglio 2017

La legge 23 giugno 2017 n. 103 modifica i contenuti di una delle ipotesi di avocazione c.d. obbligatoria (quella disciplinata nell'art. 412, comma 1, c.p.p.) ed assegna al pubblico ministero di appello il compito di vigilare sulle scansioni cronologiche del segmento finale delle indagini preliminari.
Abstract

La legge 23 giugno 2017, n. 103 modifica i contenuti di una delle ipotesi di avocazione c.d. obbligatoria (quella disciplinata nell'art. 412, comma 1, c.p.p.) ed assegna al pubblico ministero di appello il compito di vigilare sulle scansioni cronologiche del segmento finale delle indagini preliminari.

La disciplina previgente

Prima di prendere in esame i contenuti delle nuove previsioni, torna utile inquadrare il contesto sistematico in cui si inserisce il novum legislativo e focalizzare l'attenzione sulla disciplina interessata dalle modifiche normative prese in esame. Esse si collocano in un ambito procedimentale preciso, che è quello conclusivo della fase preliminare; più esattamente quello in cui la parte pubblica assume le proprie determinazioni per sciogliere l'alternativa fra azione e inazione. Prima della novella, l'ordito normativo era di elementare limpidezza. La preminente esigenza di contenere i tempi delle indagini (1) era attuata attraverso un ben congegnato reticolo di previsioni. Innanzitutto, si prevedeva che fosse inutilizzabile l'atto d'indagine compiuto dopo la scadenza del termine di durata della fase preliminare (art. 407, comma 3, c.p.p.); inoltre, si imponeva al pubblico ministero di effettuare l'opzione fra richiesta di archiviazione ed esercizio dell'azione penale alla scadenza del termine d'indagine; infine, si assicurava l'osservanza di questa tempistica da parte del pubblico ministero, attraverso la previsione dell'ipotesi di avocazione obbligatoria disciplinata nell'art. 412, comma 1, c.p.p. Nel caso in cui il pubblico ministero, scaduto il termine di durata delle indagini preliminari, fosse esso ordinario o prorogato, non avesse assunto determinazione alcuna, si sarebbe infatti perfezionato il presupposto dell'avocazione obbligatoria prevista nella disposizione appena richiamata. Adottato il relativo provvedimento, l'avocante disponeva di trenta giorni per svolgere «le indagini preliminari indispensabili» e formulare le proprie richieste (art. 412, comma 1, secondo periodo). Inoltre, per consentire al procuratore generale presso la Corte d'appello l'esercizio di tale prerogativa si stabiliva espressamente che, con cadenza settimanale, tale ufficio ricevesse dalle Procure della Repubblica del distretto l'elenco dei procedimenti per i quali risultassero scaduti i tempi d'indagine (art. 127 disp. att.). Infine, in funzione sollecitatoria di tale forma di avocazione, si attribuiva alla persona sottoposta alle indagini ed alla persona offesa la facoltà di richiedere al pubblico ministero di secondo grado di disporre l'avocazione tutte le volte in cui l'ufficio di prime cure fosse rimasto inerte allo scadere del termine di durata massima delle indagini (art. 413 c.p.p.).

Le disfunzioni della prassi

È noto il totale fallimento del disegno legislativo appena illustrato. La contingentazione dei tempi dell'indagine rappresenta una delle regole meno applicate del codice di procedura penale. Il dies a quo di decorrenza della durata delle indagini, vale a dire l'iscrizione del nome della persona cui attribuire il fatto di reato nell'apposito registro di cui all'art. 335 c.p.p., è fissato in un momento che potrebbe seguire di molti mesi la formale acquisizione della notizia di reato da parte della polizia, il cui obbligo di trasmissione al pubblico ministero è conformato su un parametro cronologico molto sfuggente e non ancorato a rigide scansioni temporali (senza ritardo recita l'art. 347, comma 1, c.p.p. per indicare i tempi di trasmissione della notizia di reato dalla polizia giudiziaria al pubblico ministero) (2). Inoltre, la giurisprudenza nega che il giudice per le indagini preliminari possa sindacare la tardiva iscrizione del nome della persona sottoposta alle indagini nell'apposito registro di cui all'art. 335 c.p.p. e che tale valutazione possa preludere alla declaratoria d'inutilizzabilità dell'atto d'indagine tardivo (Corte cost., 22 luglio 2005, n. 307; Cass. pen., Sez. un., 23 aprile 2009, n. 23868, Fruci). Allo stesso tempo, si afferma pacificamente che la scadenza del termine di durata delle indagini renda inutilizzabili esclusivamente gli atti successivi alla scadenza di natura probatoria e non impedisca al pubblico ministero di porre in essere atti di diversa natura (3). Di conseguenza, nulla impedisce che il promovimento dell'accusa o la presentazione della richiesta di archiviazione possano avere luogo molto tempo dopo lo scadere dei termini di durata massima delle indagini stabiliti nell'art. 407 c.p.p.

Sostanzialmente disapplicata, per lo più, è risultata l'ipotesi di avocazione disciplinata nell'art. 412, comma 1, c.p.p. (4). A differenza di quella facoltativa disciplinata nell'art. 412, comma 2, c.p.p., che è istituto ricorrente nell'esperienza giudiziaria (ex plurimis v. Cass. pen., 11 gennaio 1991, Agnolucci ed altro, in Cass. pen., 1991, II, 251; Cass. pen., Sez. VI, 9 marzo 2000, n. 1176, Tibello; Cass. pen., Sez. VI, 29 maggio 2002, n. 37725, Barigazzi; Cass. pen., Sez. II, 28 gennaio 2003, 10575, Scuto; Cass. pen., Sez. VI, 30 gennaio 2003, Romanazzo e altro, in Ced Cass., n. 224005; Cass. pen., Sez. VI, 10 marzo 2003, Boccassini, in Cass. pen., 2004, 2073 ss.), l'avocazione obbligatoria prevista nel primo comma di quella stessa previsione è infatti rimasto uno strumento privo di una consistente dimensione operativa e proiezione pratica.

Deve aggiungersi che l'ineffettività dei termini di durata delle indagini cumulata all'ineffettività dell'avocazione obbligatoria si accompagnano, per lo più, a ricorrenti farraginosità procedimentali determinate da disfunzioni organizzative o burocratiche, riconducibili a inefficienze eminentemente amministrative.

Ne risulta una situazione complessiva in cui la dilatazione della durata media dei procedimenti è un problema all'ordine del giorno per la giustizia penale del nostro Paese e che la fase delle indagini preliminari rappresenta una quota troppo consistente dei tempi necessari per giungere alla pronuncia della sentenza di primo grado.

Le nuove prerogative della procura generale presso la Corte di appello sui tempi di durata delle indagini preliminari

Le nuove norme in esame fronteggiano lo status quo appena descritto con un approccio che potrebbe far pensare ad una sorta di attestazione di impotenza del Legislatore, consapevole dell'enormità delle disfunzioni e della assoluta mancanza di soluzioni. Quasi che i redattori delle nuove previsioni non avessero l'ambizione di risolvere i problemi, preferendo limitarsi a “governare” l'inefficienza, con l'auspicio che una “gestione razionale” di essa possa, nel medio e lungo periodo, minimizzarla.

Non è possibile prevedere l'esito di un simile tentativo. Utile ricordare, però, il risalente insegnamento di autorevole dottrina che sottolineava come «la cautela empirica rende nel processo come in filosofia», «quanto più ragionevolmente modeste le pretese, tanto maggiori i risultati» (CORDERO, Procedura penale, IX ed., Giuffrè, 1987, 5). Non può escludersi, pertanto, che questo atteggiamento “minimalista” risulti poi premiato nella pratica.

Proviamo ora a capire il senso, esplicito e implicito, delle nuove previsioni.

A fronte della diffusa inosservanza del termine di durata delle indagini, la riforma Orlando prova a dare fondo alle risorse potenziali del sistema, valorizzando la funzione sussidiaria degli uffici di accusa di secondo grado. In effetti, il nuovo codice di procedura penale, in netta discontinuità con quello previgente (s

ull'avocazione nel codice di procedura penale del 1930 si rinvia, volendo, a M. L. DI BITONTO

,

L'avocazione facoltativa

, Torino, 2006, 17 ss.),

tratteggia una fisionomia dell'avocazione dalla quale emerge, da un lato, la natura squisitamente organizzativa di questo istituto, volto a rimediare situazioni di impasse non altrimenti rimediabili; dall'altro, una sorta di concorso di attribuzioni fra gli uffici del pubblico ministero di primo e secondo grado.

Nel codice di procedura penale l'avocazione presenta una fisionomia “costituzionalmente orientata” e costituisce un presidio dell'obbligo di agire e della correlata legalità del procedere del pubblico ministero stabiliti nell'art. 112 Cost. (nel senso che l'avocazione configuri un istituto a salvaguardia dell'obbligo di agire sancito nell'art. 112 Cost. v., da ultimo, Procura generale preso la Corte di cassazione, decreto 11 ottobre 2016, contrasto n. 495/A/2016RG. In argomento, volendo, si rinvia a M. L. DI BITONTO, Avocazione, in Enc. dir., Annali, III, 112 ss.; Ead., Interessanti puntualizzazioni in materia di avocazione facoltativa, in Proc. pen. e giust., 2017, n. 3, 514 ss.). La riforma del 1988, con riferimento all'avocazione, rappresenta l'ultima tappa di un plurisecolare percorso di trasformazione, che ha fatto perdere all'istituto l'originaria natura di strumento di sottrazione degli affari più delicati da parte dell'organo superiore. Il potere di avocazione è ora configurato come un intervento in funzione vicaria, per rimediare ad eventuali deficienze e/o inefficienze degli uffici di accusa di primo grado e, più in generale, per vagliare la correttezza delle relative determinazioni ed attività.

In continuità con questi aspetti già presenti nel sistema, la novella valorizza il ruolo della procura generale interessandola direttamente della tutela del termine di durata massima delle indagini e coinvolgendola, insieme agli uffici di primo grado, nelle delicate scelte inerenti all'azione penale.

Si è già ricordato come risultasse del tutto inadeguata l'ipotesi di avocazione disciplinata nell'art. 412, comma 1, c.p.p.; per questo il Legislatore ora cambia registro e si affida al “dialogo” fra procura della Repubblica e procura generale. L'interlocuzione implica la responsabilizzazione dei dialoganti e il Legislatore punta su questa responsabilizzazione per governare l'inefficienza.

Il nuovo art. 407, comma 3-bis, c.p.p. impone agli uffici della procura della Repubblica di prendere posizione in relazione ai procedimenti per i quali, alla scadenza del termine di durata massima delle indagini, non è possibile sciogliere l'alternativa fra azione e inazione. Nel disegno originario, precedente alla riforma Orlando, l'indagine preliminare aveva la forma di una Y: alla scadenza del termine delle indagini il pubblico ministero era tenuto a presentare richiesta di archiviazione o esercitare l'azione: tertium non dabatur. A fronte dell'inettitudine di questo schema, ora, sembrerebbe che tertium et quartum dabitur.

Resta ovviamente ferma la possibilità di sciogliere l'alternativa fra azione e inazione allo scadere del termine di durata massima delle indagini. Rispetto a prima, però, si legittima il pubblico ministero ad assumere le proprie determinazioni beneficiando di ulteriori tre mesi (o quindici mesi se il procedimento riguarda reati di cui all'art. 407, comma 2, lett. a), numeri 1, 3 e 4 c.p.p.), che decorrono dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini o dei termini di cui all'art. 415-bis c.p.p. Peraltro, pare plausibile preconizzare che l'introduzione di questo arco temporale aggiuntivo fra la scadenza del termine di durata massima delle indagini e l'assunzione delle determinazioni del pubblico ministero consenta di attribuire rilevanza disciplinare dell'eventuale inosservanza di tale tempistica (SPANGHER, Riforma Orlando: servono soluzioni condivise).

All'opzione tradizionale fra azione e inazione si aggiungono le altre due appena introdotte. Ecco la prima novità: il pubblico ministero, dopo la scadenza del termine massimo di durata delle indagini ma prima che siano trascorsi i 3 o i 15 mesi per assumere le proprie determinazioni, può chiedere alla Procura generale presso la corte d'appello la proroga di quest'ultima scadenza.

Questa soluzione fa pensare a casi in cui il pubblico ministero procedente, prendendo in carico il procedimento per il quale siano scaduti i termini di durata delle indagini, si renda conto che lo studio degli atti per assumere le proprie determinazioni necessiti approfondimenti tali da esigere la dilatazione del termine ordinario di 3 o 15 mesi stabilito dalla legge. Nulla esclude, però, che la richiesta di proroga presentata alla procura generale sia fondata non già su ragioni riconducibili alla specificità del procedimento per il quale si chiede la dilazione, bensì su situazioni esterne ad esso, come ad esempio il carico dell'ufficio, o specifiche esigenze riconducibili al singolo magistrato.

Quel che conta è che tale richiesta manifesti una esplicita presa di posizione dell'ufficio di primo grado in relazione allo specifico fascicolo e non si atteggi quale adempimento meramente formalistico.

Di conseguenza, il decreto di proroga della procura generale pare atteggiarsi come atto dovuto tutte le volte in cui la richiesta si fondi sull'enunciazione di ragioni specifiche e concrete; e debba essere rifiutato, al contrario, quando manchi nella richiesta il riferimento a motivi concreti e determinati che giustifichino il supplemento cronologico richiesto.

In definitiva, il Legislatore sembra essere consapevole del fatto che i ritardi nella fase conclusiva delle indagini, per lo più dovuti all'enorme massa di notizie di reato che le procure devono trattare, rappresentino una cronica patologia dell'attuale modello procedimentale e, come tale, non possano trovare soluzione attraverso la predisposizione di meccanismi, apparentemente più lineari ma, di fatto, eccessivamente “tranchant” come quelli contemplati dalla disciplina previgente. Si chiede, perciò, alle procure della Repubblica una sorta di responsabilizzazione nella gestione di questi ritardi. Anche se gli uffici di primo grado non sono in condizioni di sciogliere l'alternativa fra azione e inazione, nondimeno non possono rimanere inerti: che decidano se chiedere alla procura generale una dilazione dei tempi ovvero se coinvolgere quest'ultimo ufficio nella stessa assunzione delle determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale, attraverso la immediata comunicazione di cui si parlerà nel paragrafo successivo.

L'immediata comunicazione al procuratore generale circa la mancata assunzione delle determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale e relativo provvedimento di avocazione

Allo stato di quanto risulta dall'innesto dei primi tre periodi del comma 3-bis nell'art. 407 c.p.p., il segmento conclusivo delle indagini preliminari si presenta articolato nella maniera seguente. Il pubblico ministero procedente, tenuto a sciogliere l'alternativa fra azione e inazione in esito alla fase preliminare, può assumere le proprie determinazioni prima della scadenza del termine di durata massima delle indagini preliminari, alla scadenza di questo termine e, da ultimo, sulla base di quanto disciplinato dalla novella in esame, entro l'ulteriore termine di 3 o 15 mesi. Lasso di tempo, quest'ultimo, decorrente dalla scadenza del termine di durata massima o dai termini di cui all'art. 415-bis c.p.p., eventualmente prorogato per non più di tre mesi dal procuratore generale presso la Corte d'appello al quale sia stata formulata una specifica richiesta in tal senso.

Sulla base di quanto stabilito nell'ultimo periodo dell'art. 407, comma 3-bis, c.p.p., l'organo dell'accusa di primo grado, oltre alle diverse strade sopra enumerate, dispone di una chance operativa aggiuntiva: può scegliere di dare immediata comunicazione al procuratore generale presso la Corte d'appello, ove non assuma le proprie determinazioni in ordine all'azione penale nel termine stabilito.

Sembra potersi affermare che l'invio della immediata comunicazione circa la mancata assunzione delle proprie determinazioni possa avere luogo sia dopo il decreto di proroga del procuratore generale, sia in luogo della richiesta di proroga. Suggerisce tale soluzione l'impiego della locuzione «nel termine stabilito dal presente comma», che è sia quello di 3 o 15 mesi del primo periodo, sia quello eventualmente prorogato alla stregua di quanto stabilito nel secondo periodo.

Il principale problema posto dalla «immediata comunicazione» disciplinata dalla nuova previsione è la sua compatibilità con l'art. 127 disp. att. Quest'ultima recita: «la segreteria del pubblico ministero trasmette ogni settimana al procuratore generale presso la corte d'appello un elenco delle notizie di reato contro persone note per le quali non è stata esercitata l'azione penale o richiesta l'archiviazione, entro il termine previsto dalla legge o prorogato dal giudice». Tale articolo era funzionale a consentire alla Procura generale di disporre l'avocazione obbligatoria di cui al primo comma dell'art. 412 c.p.p. ma, come si diceva, questo istituto non ha funzionato e la novella si muove proprio nel senso di superare quello stato di cose.

Ragioni letterali e sistematiche inducono a ritenere che l'art. 127 disp. att. debba intendersi tacitamente abrogato, stante la sua incompatibilità con il nuovo art. 407, comma 3-bis, c.p.p. (cfr. art. 15 preleggi, ove è stabilito che: «Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore»).

Sul piano letterale, va rilevato che la norma di attuazione non tiene conto della nuova tempistica relativa allo scioglimento dell'alternativa fra azione e inazione introdotta dal nuovo art. 407, comma 3-bis, c.p.p. Quest'ultima previsione, peraltro, disciplina diversamente lo scambio di notizie tra l'ufficio dell'accusa di primo grado e quello di secondo grado, sostituendo la trasmissione degli elenchi a cura della segreteria del pubblico ministero, con la comunicazione di quest'ultimo relativa al singolo procedimento.

Inoltre, ragioni sistematiche portano ad escludere che il Legislatore abbia inteso duplicare gli adempimenti: uno a cura della segreteria, da espletarsi quando il pubblico ministero è ancora in termini per presentare la richiesta di archiviazione, esercitare l'azione o richiedere la proroga al procuratore generale presso la Corte d'appello; l'altro, successivo, a cura del pubblico ministero.

A favore dell'abrogazione tacita dell'art. 127 disp. att. milita anche la valorizzazione di un'altra considerazione di ordine sistematico.

La comunicazione disciplinata nell'ultimo periodo dell'art. 407, comma 3-bis, c.p.p. si raccorda strettamente alla modifica del primo periodo dell'art. 412, comma 1, c.p.p. e pare collegare l'eventuale avocazione del procuratore generale all'avvenuta comunicazione circa la mancata assunzione delle proprie determinazioni da parte dell'ufficio procedente di primo grado. È dunque plausibile sostenere che tale raccordo attribuisca all'immediata comunicazione di cui all'ultimo periodo dell'art. 407, comma 3-bis, c.p.p. una duplice valenza. Essa vale come rinuncia da parte del pubblico ministero procedente ad assumere le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale nello specifico procedimento e come trasmissione all'ufficio superiore della responsabilità di sciogliere l'alternativa fra azione e inazione.

In ultima analisi, a fronte della materiale impossibilità degli uffici della procura della Repubblica di fronteggiare l'enorme quantità di notizie di reato, il Legislatore sembra puntare sul ruolo sussidiario della Procura generale presso la Corte d'appello. Quest'ultimo ufficio deve supportare gli uffici di primo grado e tale supporto presuppone la responsabilizzazione delle procure della Repubblica, tenute a segnalare tempestivamente al pubblico ministero istituito presso il giudice di appello quali siano i procedimenti in relazione ai quali l'ufficio di primo grado non riesce ad onorare i propri doveri istituzionali, non risultando nella condizioni di assumere le proprie determinazioni in ordine all'esercizio dell'azione penale.

Ne risulta un disegno inedito. Il codice di procedura penale del 1988 delineava la procura generale presso la Corte d'appello quale ufficio deputato a rimediare alle deficienze e/o inefficienze degli uffici di accusa di primo grado e, più in generale, a vagliare la correttezza delle relative determinazioni ed attività. Con la riforma Orlando, invece, il ruolo sussidiario di questo ufficio si valorizza attraverso un più ampio coinvolgimento dei suoi componenti nella stessa assunzione delle determinazioni in ordine all'azione penale, provocato dall'ufficio procedente di primo grado e dalla scelta di quest'ultimo di non assumere nessuna iniziativa, trasmettendo alla procura generale il relativo incombente.

La nuova avocazione obbligatoria di cui all'art. 412, comma 1, c.p.p.

Alla modifica dell'art. 407 c.p.p., nel quale è stato introdotto il comma 3-bis, si accompagna la riformulazione del primo periodo dell'art. 412, comma 1, c.p.p., che ora stabilisce: «il procuratore generale presso la Corte d'appello, se il pubblico ministero non esercita l'azione penale o non richiede l'archiviazione nel termine previsto dall'art. 407, comma 3-bis, dispone, con decreto motivato, l'avocazione delle indagini preliminari». A parte il differente ordine con cui sono collocate le parole, la modifica riguarda esclusivamente il presupposto dell'avocazione, che è la scadenza del termine previsto dal comma 3-bis, non accompagnato né dall'instaurazione del processo, né dalla presentazione della richiesta di archiviazione .

È proprio il riferimento al termine previsto nell'art. 407, comma 3-bis, c.p.p. che fa cambiare pelle all'istituto, trasformandolo da sanzione di una patologia nel fisiologico rimedio alla obiettiva e non rimproverabile incapacità dell'ufficio di primo grado di dare corso alla totalità delle notizie di reato ricevute.

Nell'originario disegno codicistico il superamento della scadenza del termine massimo di durata delle indagini era considerata evenienza eccezionale e patologica, tale da esigere l'immediata reazione dell'ufficio superiore, tenuto a disporre obbligatoriamente l'avocazione ai sensi dell'art. 412, comma 1, c.p.p., che fissava una diretta conseguenzialità fra emersione del presupposto e adozione del relativo provvedimento.

Poco meno di trent'anni dopo, questo modo d'intendere il caso di avocazione in parola risulta priva di ogni riscontro realistico; e ciò spiega l'assoluta ineffettività dell'istituto, quasi mai attuato nella pratica.

Il mancato rispetto dei termini ormai rappresenta una disfunzione sì patologica ma endemica, di per sé non rimproverabile all'ufficio di primo grado. Di conseguenza, il Legislatore ribalta la prospettiva originaria. Se nel nuovo codice il rispetto dei termini di durata massima delle indagini rappresentava una situazione di fatto data per scontata, tale da giustificare l'avocazione obbligatoria in caso di scadenza dei termini non seguita dall'esercizio dell'azione o dalla richiesta di archiviazione, con la riforma Orlando la situazione di fatto data per scontata è, al contrario, l'oggettiva impossibilità di assumere le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale entro i tempi di durata massima delle indagini.

Perciò la riforma legittima i pubblici ministeri di primo grado a “sforare” questi termini per assumere le proprie determinazioni. Al tempo stesso, però, predetermina i confini cronologici dello “sforamento” e impone alla procura generale di intervenire avocando le indagini, per richiedere l'archiviazione o esercitare l'azione penale, tutte le volte in cui la procura della Repubblica non sia in grado di farlo. Quest'ultima, dal canto suo non può rimanere meramente inerte ma deve attivarsi per comunicare alla procura generale i casi per i quali, senza il coinvolgimento di quest'ultima, il procedimento soffrirebbe l'inevitabile stasi.

Così inquadrato il nuovo istituto, potrebbe osservarsi che, nondimeno, il nuovo espediente introdotto per minimizzare la stasi dei procedimenti ancora pendenti all'avvenuta scadenza dei termini per indagare non risolva il problema, perché rimane comunque una falla: l'intervento sussidiario della procura generale presso la Corte d'appello risulta inibito fino a quando essa non riceva la «immediata comunicazione» della procura della Repubblica; ma ciò significa che quest'ultimo ufficio continui a rimanere titolare del potere assoluto, insindacabile e irresponsabile – e quindi inaccettabile – di decidere per quali procedimenti procedere e per quali no, senza contrappeso alcuno.

A tale osservazione si può obiettare che la riforma Orlando lascia immutato l'art. 413 c.p.p.; e che anzi riconosce alla persona offesa il diritto di essere informata circa lo stato del procedimento avviato dalla sua denuncia o querela, una volta decorsi 6 mesi dalla presentazione di uno di questi due atti (cfr. in questo senso art. 335, comma 3-ter, c.p.p., introdotto dall'art. 1, comma 26, della l. 103/2017). Ciò significa che eventuali inerzie della procura della Repubblica potranno essere agevolmente sanzionate dai privati interessati, attraverso la presentazione dell'espressa richiesta di avocazione alla Procura generale presso la Corte d'appello.

Insomma, la nuova avocazione ex art. 412, comma 1, c.p.p. pare spingersi oltre in un disegno che nel codice di procedura penale risultava già accennato e che la riforma Orlando sviluppa in tutte le sue implicazioni. Il Legislatore dell'88, mutando gli assetti consolidati nel codice Rocco, aveva costruito l'avocazione come un istituto a presidio dell'obbligatorietà dell'azione penale, sul presupposto che ogni situazione di impasse riferibile allo svolgimento delle indagini preliminari si ripercuota direttamente sulla stessa operatività dell'obbligo di agire. In continuità con tale approccio, il nuovo coinvolgimento in via sussidiaria del procuratore generale presso la Corte d'appello nell'assunzione delle determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale non si connota più per la sua straordinarietà ma diviene fenomeno ordinario. E la relazione fra pubblico ministero di primo e secondo grado, perde definitivamente carattere verticistico per conformarsi alla stregua del modello cooperativo, in cui diversi uffici concorrono e si armonizzano fra loro al fine di meglio adempiere i doveri istituzionali dell'organo di accusa.

Il provvedimento di avocazione e le attività successive

La novella legislativa lascia intatta l'applicazione delle regole generali in materia di avocazione. L'atto con cui viene disposta l'avocazione ai sensi dell'art. 412, comma 1, c.p.p. assume la veste formale del decreto motivato, contenente le ragioni di fatto che nello specifico hanno giustificato l'ingerenza dell'organo avocante. Non basta, quindi, il mero riferimento alla sussistenza del fondamento legale che legittima l'esercizio del potere in parola, e quindi al mero riferimento normativo; occorre, invece, l'enunciazione degli elementi concreti che integrano la situazione legittimante il coinvolgimento del pubblico ministero avocante.

La motivazione costituisce il parametro alla cui stregua il C.S.M. valuta la correttezza dell'operato sia dell'organo inizialmente procedente sia di quello subentrato, poiché «quando … il procuratore generale presso la corte d'appello dispone l'avocazione delle indagini preliminari nei casi previsti dalla legge, trasmette copia del relativo decreto motivato al Consiglio Superiore della Magistratura e ai procuratori della Repubblica interessati» (art. 70, comma 6, ord. giud. come modificato dall'art. 20 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449, Norme per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni, che ha sostituito l'originario articolo del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12).

Inoltre, la motivazione del decreto di avocazione costituisce l'oggetto del sindacato che su tale provvedimento può effettuare il procuratore generale presso la Corte di cassazione, dinanzi al quale il pubblico ministero di primo grado – dopo aver ricevuto comunicazione del provvedimento di avocazione – è abilitato a presentare reclamo entro dieci giorni dalla sua ricezione, ai sensi di quanto stabilito dall'art. 70, comma 6-bis, ord. giud., introdotto dal secondo comma dell'art. 10 d.l. 367 del 1991.

Gli effetti del reclamo hanno una valenza meramente interna all'ufficio del pubblico ministero: l'eventuale revoca del decreto disposta dalla procura generale presso la Corte di cassazione, in armonia con quanto stabilito in materia di contrasti dagli artt. 54 ss. c.p.p., non invalida gli atti posti in essere dall'organo avocante.

Una volta disposta l'avocazione, il procuratore generale presso la Corte d'appello assume le funzioni del pubblico ministero sostituito per tutta la restante durata del procedimento. Pertanto, dispone dei consueti 30 giorni per svolgere eventuali indagini reputate necessarie per assumere le proprie determinazioni (art. 412, comma 1, secondo periodo, c.p.p.). In caso di esercizio dell'azione penale, svolge le funzioni di accusa nell'udienza preliminare, nelle eventuali indagini suppletive e integrative, nei procedimenti speciali e nel dibattimento. Occorre segnalare, al riguardo, la risalente e discutibile prassi – avallata dalla deliberazione prot. P-97-13519 del Consiglio Superiore della Magistratura – in forza della quale il procuratore generale avocante potrebbe delegare quale proprio sostituto nella conduzione delle indagini avocate un magistrato della procura della Repubblica inizialmente titolare del procedimento (in termini critici v. P. MICELI, Avocazione delle indagini preliminari da parte del procuratore generale presso la Corte d'appello, in Giur. mer., 1999, 939 s.). Tuttavia, l'art. 51, comma 2, c.p.p. prevede inderogabilmente che in caso di avocazione, le funzioni di pubblico ministero nel procedimento di primo grado sono esercitate da magistrati della procura generale presso la Corte d'appello. Appare indubitabile, pertanto, che per assicurare effettività alla nuova avocazione disciplinata nell'art. 412, comma 1, c.p.p., occorra trovare adeguati espedienti organizzativi, anche in collaborazione con gli uffici di primo grado, che consentano all'ufficio avocante di disporre di più consistenti risorse personali e di avvalersi, analogamente a quello avocato, del supporto dei viceprocuratori onorari per l'espletamento delle attività di udienza nei procedimenti di primo grado avocati.

In conclusione

Non c'è dubbio che le nuove norme cui sono dedicate le presenti riflessioni non rappresentano l'optimum ed anzi paiono inutilmente complicate; testimoniano, per di più, l'enorme peso che il momento investigativo ha sulla struttura del processo penale italiano (v. SPANGHER, La riforma Orlando della giustizia penale: prime riflessioni, in Dir. pen. cont., 2016, n. 1, 92). Non si può escludere nemmeno l'introduzione di future correzioni, nel senso già suggerito dalla dottrina che con più attenzione si era fatta carico di trovare un'equilibrata mediazione fra i diversi interessi in gioco (SPANGHER, Riforma Orlando: servono soluzioni condivise).

Nondimeno, merita di essere sottolineato favorevolmente il sostrato politico di questo intervento. Anche se risulta fondato il timore che la nuova formulazione degli articoli 407 e 412 c.p.p. abbia un impatto minimo sulla riduzione dei tempi di pendenza delle indagini preliminari, non si può fare a meno di apprezzare il fatto che il Legislatore abbia provato a toccare un nervo scoperto della giustizia penale, forse il più problematico.

Dietro lo scudo dell'enorme quantità di notizie di reato, le procure della Repubblica selezionano i fatti per i quali procedere senza i necessari contrappesi istituzionali, mancando qualsivoglia forma di responsabilizzazione per queste scelte di opportunità vietate dall'art. 112 Cost. (5).

Così stando le cose, ed indipendentemente dalla effettiva utilità degli strumenti individuati, non si può non fare a meno di valutare positivamente il fatto che il Legislatore si sia ingegnato nella ricerca di soluzioni per ovviare allo stallo senza rimedi e senza alternative che sovente ha caratterizzato lo status quo dei procedimenti penali nel nostro Paese.

Allo stesso tempo, deve guardarsi con favore la tendenza a coinvolgere maggiormente la Procura generale presso la Corte di appello nell'assunzione delle determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale. Com'è noto, l'art. 112 Cost., nel fissare la norma cardine dell'indipendenza del pubblico ministero da ogni altro potere dello Stato, esclude qualsivoglia relazione di tipo gerarchico fra gli uffici della Procura della Repubblica e quelli della Procura generale presso la Corte d'appello (su tali aspetti si rinvia a M. L. DI BITONTO, L'avocazione facoltativa, cit., 22 ss.) ma non esclude affatto che quest'ultimo ufficio concorra con il primo nella gestione delle notizie di reato.

Naturalmente, ciò sarà possibile in concreto solo se le Procure generali sapranno organizzarsi adeguatamente, attraverso protocolli organizzativi che riallochino magistrati, funzionari e mezzi materiali verso la più oculata disamina dei procedimenti per i quali gli uffici di primo grado abbiano trasmesso la comunicazione di cui all'ultimo periodo dell'art. 407, comma 3-bis, c.p.p. A tal fine, c'è da auspicare che la semplificazione delle impugnazioni, che rappresenta un altro aspetto qualificante della riforma Orlando, consenta agli uffici dei pubblici ministeri istituiti presso le Corti d'appello di conseguire quei risparmi di personale e dotazioni che si rendono necessari per fronteggiare, a risorse invariate, la nuova incombenza.

È evidente che tutto ciò esigerà una redistribuzione degli assetti organizzativi dell'ufficio e la predisposizione di linee di indirizzo, nelle quali siano illustrati gli orientamenti cui la Procura generale intende conformarsi nell'attività di assunzione delle determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale per i procedimenti per i quali a ciò non ha provveduto la procura della Repubblica.

Si tratta di una vera e propria rivoluzione, inevitabile però e, per ora, senza alternative.

Guida all'approfondimento

(1) Sulla contingentazione dei tempi investigativi, v. SPANGHER, La proroga del termine per la conclusione delle indagini preliminari, in Studium juris, 1996, 813 ss. Nel senso che la predeterminazione legale della durata massima della fase preliminare rappresentasse l'insopprimibile corollario della scelta di incentrare nel dibattimento l'attività probatoria di ricostruzione dei fatti, stante la necessità di avvicinare il più possibile l'escussione dibattimentale della prova alla data di accadimento dei fatti v. CONSO, Conclusioni, in AA.VV., Il codice di procedura penale. Esperienze, valutazioni e prospettive, Giuffrè, Milano, 1994, 366. Sulle reciproche implicazioni fra formazione dialettica della prova e durata delle indagini v. VICOLI, La “ragionevole durata” delle indagini, Torino, 2012, 19 ss.

(2) Nel senso che a seguito del d.l. 8 giugno 1992 n. 306, convertito nella l. 7 agosto 1992 n. 356, è stata reintrodotta nel nostro sistema una fase di polizia la cui durata è prolungabile indefinitamente, con la conseguenza che il dies a quo della decorrenza del termine di durata delle indagini è determinato dalla polizia medesima v. GIOSTRA Pubblico ministero e polizia giudiziaria nel processo di parti, in Pol. dir., 1994, p. 40 e 48. In argomento v. anche VICOLI, La “ragionevole durata”, cit., 145 ss.

(3) Nel senso che il decorso del termine per il compimento delle indagini preliminari non determini la decadenza del pubblico ministero dal potere di esercitare l'azione penale, salva l'ipotesi che il procuratore generale abbia esercitato il suo potere di avocazione ai sensi dell'art. 412, comma 1, c.p.p. v. Cass., Sez. VI, 20 marzo 2009, Cavallo; nel senso che dopo la scadenza del termine di durata massima delle indagini il pubblico ministero possa ordinare una perquisizione e disporre il sequestro probatorio di quanto rinvenuto in esito ad essa v. Cass., Sez. VI, 10 ottobre 2007, Genovese; nel senso che il pubblico ministero procedente, anche dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari, può richiedere il sequestro preventivo e il giudice per le indagini preliminari è competente a provvedere sulla richiesta v. Cass., Sez. III, 7 luglio 1995, Imerito; Cass., Sez. II, 28 novembre 2007, Tripodi.

(4) Sulla disapplicazione dell'ipotesi di avocazione di cui all'art. 412, comma 1, c.p.p. si veda la delibera del Consiglio superiore della magistratura n. P-97-13159 del 21 luglio 1997, la quale, nel trattare di ipotesi di avocazione delle indagini preliminari con termini scaduti, aveva suggerito, nella materiale impossibilità di avocare ogni procedimento nel quale fosse decorso il termine per l'espletamento delle indagini, di limitare tale opzione ai soli procedimenti in cui fossero stati richiesti degli ulteriori atti di indagine - tuttavia prevedendo, anche in questo caso, che il potere di avocazione dovesse essere esercitato «nei tempi opportuni e possibili in rapporto alle risorse personali e materiali a disposizione».

(5) Nel senso che l'art. 112 Cost. vieta che il processo possa essere evitato sulla base di ragioni di mera opportunità, poiché la Costituzione circoscrive l'area dell' archiviazione ai casi in cui l'instaurazione del processo si palesi come oggettivamente superflua v. M. CHIAVARIO, La fisionomia del titolare dell'azione penale, tema essenziale di dibattito per la cultura del processo, in AA.VV., Pubblico ministero e riforma dell'ordinamento giudiziario, Giuffrè, 2006, 16. Il medesimo Autore, però, non nasconde che non di rado «il confine tra la “superfluità” del processo e l' “inopportunità” del medesimo è quantomeno labile» posto che la valutazione sulla superfluità è sempre influenzabile da propensioni personali e da pressioni esterne: così M. CHIAVARIO, Riflessioni sul principio di obbligatorietà dell'azione penale, in AA.VV., Aspetti e tendenze del diritto costituzionale. Scritti in onore di Costantino Mortati, vol. IV, Le garanzie giurisdizionali e non giurisdizionali del diritto obiettivo, Giuffrè, 1977, 109.

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