Esercizio abusivo di una professioneFonte: Cod. Pen Articolo 348
04 Settembre 2015
Inquadramento
Il reato di esercizio abusivo di una professione, disciplinato dall'art. 348 c.p., che punisce chi “abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato” trova ampio riconoscimento nell'art. 33 Cost. che prescrive l'esame di Stato per l'abilitazione all'esercizio delle professioni. La norma di cui all'art. 348 c.p. è volta a tutelare l'interesse generale, riferito in via diretta ed immediata alla pubblica amministrazione, che determinate professioni, richiedenti, tra l'altro, particolari competenze tecniche, vengano esercitate soltanto da soggetti che abbiano conseguito una speciale abilitazione amministrativa; di conseguenza, a seconda della professione esercitata da un soggetto, ci si dovrà riferire alle disposizioni legislative relative a quel tipo di attività professionale per individuare compiutamente il soggetto legittimato ad esercitare l'attività che forma oggetto tipico di quella professione. Norma penale in bianco
Secondo l'orientamento prevalentemente seguito in dottrina e in giurisprudenza, l'art. 348 c.p. ha natura di norma penale in bianco in quanto anziché specificare il contenuto del precetto, la cui inosservanza intende penalizzare, opera un rinvio ad altra fonte dell'ordinamento (Cass. pen., Sez. VI, n. 47028/2009; Cass. pen., Sez. V, n. 41142/2001; Cass. pen., Sez. VI, n. 16230/2001). La norma in questione presuppone, pertanto, come si evince dalla stessa formulazione del testo normativo (che reca l'avverbio “abusivamente”), l'esistenza di altre disposizioni di legge che stabiliscano le condizioni oggettive e soggettive in difetto delle quali non è consentito – ed è quindi abusivo – l'esercizio di determinate professioni per le quali occorre quindi l'abilitazione statale. Si tratta di disposizioni che, essendo sottintese all'art. 348 c.p., sono integrative della norma penale ed entrano a far parte del suo contenuto, cosicché la violazione di esse si risolve in violazione della norma incriminatrice. La norma rinvia alle normative inerenti le varie professioni, in mancanza delle quali la norma incriminatrice non può trovare alcuna applicazione. Dette fonti integrative sono costituite non solo dalle discipline relative agli ordinamenti professionali ma da tutte quelle rilevanti allo scopo; tra tali discipline rientrano altresì le procedure propedeutiche all'esercizio in Italia di un'attività professionale da parte dei cittadini di uno Stato membro dell'Unione europea, sulla base del diritto di stabilimento e di quello della libera circolazione dei servizi sanciti dal Trattato Ue (Cass. pen., Sez. un., n. 11545/2012). In ossequio al principio di determinatezza si esclude, in giurisprudenza, che il giudice penale possa colmare eventuali lacune normative ricorrendo a regole generali e astratte (Cass. pen., Sez. VI, n. 9089/1995; Cass. pen., Sez. VI, n. 30590/2003). A tale corrente di pensiero si contrappone un diverso orientamento, seguito da una parte della dottrina, teso ad escludere la natura di norma penale in bianco dell'art. 348 c.p.; orientamento che sembra trovare riscontro nella sentenza della Corte Costituzionale n. 199/1993. Con tale sentenza la Consulta ha affrontato e risolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dal pretore di Treviso in merito al combinato disposto degli artt. 348 c.p. e 16 del regio decreto 11 febbraio 1929, n. 274 (Regolamento per la professione di geometra), censurato sia per violazione del principio di riserva di legge in materia penale, sia per contrasto con il principio di tassatività sancito dall'art. 25, comma 2, della Costituzione. A parere del giudice rimettente, i limiti professionali del geometra sarebbero individuati attraverso generiche e indeterminate espressioni, quali, ad esempio modeste costruzioni al punto da impedire il conseguimento di univoci responsi giurisprudenziali circa i criteri alla cui stregua assegnare concretezza al concetto che quella locuzione ha inteso esprimere. La Corte costituzionale, nel rigettare il ricorso, non ha ritenuto corretto l'assunto che configura l'art. 348 c.p. quale norma priva di qualsivoglia autonomia precettiva e, come tale, destinata ad operare nell'ordinamento in "simbiotica" concorrenza con le disposizioni extrapenali che disciplinano le professioni il cui abusivo esercizio "esaurisce" il precetto, assoggettando a pena la relativa condotta. L'art. 348 c.p. non è, pertanto, a giudizio della Consulta, una norma penale in bianco, delineando esaurientemente la fattispecie in tutte le sue componenti essenziali. L'abilitazione, sostiene la Corte, più che fungere da elemento scriminante che esclude l'antigiuridicità di una condotta formalmente sussumibile nel modello legale delineato dalla norma incriminatrice, opera quale condizione negativa che impedisce di ricondurre il fatto, nella sua stessa materialità, alla figura astratta delineata dal legislatore, mentre i contenuti ed i limiti propri di ciascuna abilitazione rappresenterebbero null'altro che un presupposto di fatto che il giudice è chiamato a valutare caso per caso.
Appare senza dubbio inevitabile una analisi dei rapporti intercorrenti tra la norma di cui all'art. 348 c.p. e la normativa comunitaria in tema di libera circolazione dei lavoratori nel quadro della libera prestazione di servizi. In tale contesto assume un non trascurabile rilievo l'azione comunitaria in favore del riconoscimento delle qualifiche professionali, titoli e diplomi, azione finalizzata a rendere effettivo il c.d. diritto di stabilimento, ovvero il diritto riconosciuto ai cittadini di uno Stato membro della Unione europea, di esercitare la propria attività professionale in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito la relativa qualifica o abilitazione professionale; di conseguenza quando in uno Stato membro ospitante l'accesso ad una professione è subordinato al possesso di un diploma, è il caso delle professioni regolamentate, l'autorità competente non può rifiutare ad un cittadino di un altro Stato membro, per mancanza di qualifiche, l'accesso a tale professione se è in possesso del diploma che è prescritto nello Stato membro di origine per l'accesso o l'esercizio di questa stessa professione sul suo territorio (direttiva Ce 89/1948). Proprio in relazione al reato di esercizio abusivo di una professione e alla incidenza che su di esso può avere il diritto comunitario, la Corte di cassazione ha stabilito che lo svolgimento dell'attività di odontoiatra da parte dei cittadini dell'Unione europea in possesso del diploma rilasciato da uno Stato dell'Unione non configura gli estremi del reato previsto dall'art. 348 c.p. solo se l'interessato abbia presentato domanda al Ministero della sanità e questo, dopo aver accertato la regolarità dell'istanza e della relativa documentazione, abbia trasmesso la stessa all'ordine professionale competente per l'iscrizione (Cass. pen., Sez. VI, n. 47533/2013).
Elemento soggettivo
Per quanto concerne l'elemento soggettivo, la giurisprudenza di merito e di legittimità escludono, ai fini della configurabilità del reato di esercizio abusivo di una professione, qualsiasi rilevanza alla assenza di scopo di lucro nell'autore o al movente di carattere meramente privato. Lo Stato è unico titolare del bene protetto dalla norma, di conseguenza il consenso alla prestazione professionale manifestato dal destinatario appare inidoneo ad escludere la configurabilità del reato per la cui integrazione si ritiene sufficiente la mancanza del titolo abilitativo. Condotta in genere
In tema di esercizio abusivo di una professione, la questione maggiormente dibattuta in dottrina e in giurisprudenza è quella relativa alla individuazione della condotta penalmente rilevante. Sul punto giova evidenziare che con la sentenza della Cass. pen., Sez. VI, n. 49/2003, è emerso un contrasto tra diversi orientamenti giurisprudenziali risolto solo nel 2012 con un intervento delle Sezioni unite penali della Cassazione. In genere esercitare una professione significa compiere atti caratteristici della stessa, intesa come una attività umana, caratterizzata da continuità e svolta a fine lucrativo e con autonomia da parte di persona dotata di un adeguato corredo di cognizioni tecnico-scientifiche. Gli atti caratteristici che contraddistinguono le singole professioni vanno distinti in due categorie: atti tipici o propri o riservati, che sono quelli il compimento dei quali è riservato agli appartenenti alla professione, con l'effetto che è inibito il compimento anche di uno solo di questi a chi non è in possesso del titolo abilitativo; atti che, pur essendo caratteristici della professione, rimangono relativamente liberi, nel senso che chiunque può compierli, purché a titolo occasionale e gratuito. L'indirizzo tradizionale attribuisce rilevanza penale al compimento dei soli atti attribuiti in esclusiva ad una determinata professione dal momento che un ampliamento degli “atti di esercizio della professione per i quali è richiesto il possesso dell'abilitazione statale” determinerebbe un'eccessiva compressione dei diritti di libertà ed iniziativa economica riconosciuti dalla Costituzione (Cass. pen., Sez. VI, n. 17702/2004; Cass. pen., Sez. VI, n. 17921/2003). Il compimento anche di un solo atto riservato, persino a titolo gratuito, costituisce quindi esercizio della professione. Un diverso e più recente orientamento, fondato sulla interpretazione letterale del concetto di esercizio di una professione contenuto nell'art. 348 c.p., esclude, ai fini della configurabilità del reato di esercizio abusivo di una professione, che possa attribuirsi esclusivamente rilevanza penale ai soli atti tipici della professione, dovendo invece darsi rilievo anche agli atti c.d. caratteristici a quella strumentalmente connessi, a condizione che vengano compiuti in modo continuativo e professionale. Anche in questa seconda ipotesi si ha esercizio della professione, per il quale è richiesta l'iscrizione nel relativo albo (Cass. pen., sez. VI, n. 26829/2006). In altre parole, se si tratta di atti caratteristici, ma relativamente liberi, esercita la professione solo chi abitualmente li compie, facendosi retribuire per il loro compimento. Non assumono invece alcuna rilevanza penale laddove siano compiuti a titolo occasionale o gratuito. Il secondo indirizzo interpretativo, che amplia il novero degli atti che possono integrare un esercizio abusivo di una professione, è stato elaborato con riferimento alla professione di ragioniere e perito commerciale: Cass. pen., Sez. VI, n. 49/2003; Cass. pen., ord. n. 36951/2011). Il richiamato orientamento giurisprudenziale è stato inoltre seguito dalle Sezioni Unite della Cassazione, chiamate a decidere “se le condotte di tenuta della contabilità aziendale, redazione delle dichiarazioni fiscali ed effettuazione dei relativi pagamenti integrino il reato di esercizio abusivo della professione di ragioniere, perito commerciale o dottore commercialista, se svolte – da chi non sia iscritto al relativo albo professionale – in modo continuativo, organizzato e retribuito”. Nel risolvere il quesito, le Sezioni unite della Cassazione, con sentenza n. 11545/2012, hanno affermato che il reato di esercizio abusivo di una professione si concretizza in due ipotesi:
Vicende processuali
Un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato ritiene legittimo il sequestro preventivo dell'immobile collegato da un nesso strumentale diretto ed immediato all'esercizio dell'attività svolta senza le prescritte autorizzazioni e/o abilitazioni. Il principio è stato affermato:
Casistica
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