Profili di responsabilità tributaria degli enti
26 Gennaio 2016
Massima
In tema di responsabilità da reato degli enti, ove si proceda per associazione per delinquere transnazionale finalizzata alla commissione di reati non previsti tra quelli fondanti la responsabilità dell'ente, nella specie tributari, il profitto confiscabile all'ente ben può consistere nel complesso di vantaggi direttamente conseguente dall'insieme dei reati-fine, in quanto detto complesso di vantaggi è imputabile all'associazione, autonoma dai reati-fine, l'esecuzione dei quali è però agevolata dall'esistenza della stabile struttura organizzativa e del comune progetto delinquenziale costituenti i requisiti dell'associazione stessa.
(Fonte: www.ilsocietario.it, 10.12.2015) Il caso
La decisione che si commenta attiene ad un sequestro preventivo per equivalente disposto a carico di una società indagata per condotte ascrivibili ai suoi vertici a titolo di associazione per delinquere transnazionale finalizzata al compimento di delitti ex artt. 5 ed 8 D.lgs. n. 74/2000.
I contorni sono quelli, ricorrenti, di frodi estero-vestite parzialmente coincidenti con le cadenze delle c.d. frodi-carosello. Secondo la tesi d'accusa, condivisa dai giudici di merito, la società, al centro apparentemente di una lecita triangolazione comunitaria, che consente ad un operatore interno di acquistare beni e servizi da un operatore estero per cederli ad un altro operatore estero designato come debitore d'imposta, in realtà otteneva la disponibilità della merce in Italia per la consegna a clienti italiani previa emissione di fatture false da parte di cartiere, che, in quanto importatrici dall'estero, era gravate dall'obbligo – tuttavia non assolto – di versare l'IVA.
Fondamentale è rimarcare come la società ritraesse un vantaggio, rilevante agli effetti dell'art. 5, comma 1, D.lgs. n. 231/2001, atteso che attraverso la cessione solo cartolare alle società estere, anziché diretta ai clienti italiani, non assumeva la veste di importatore e perciò non si gravava dell'obbligazione tributaria, con conseguente possibilità di vendere a prezzi fortemente concorrenziali, come attestato dall'aumento di fatturato e ricavi.
Il sequestro è stato disposto per un valore corrispondente al profitto conseguito attraverso le frodi fiscali, a loro volta rientranti nel programma criminoso dell'associazione per delinquere transnazionale. Le questioni
Rilevanza dell'associazione per delinquere nel sistema di responsabilità degli enti
Un profilo d'interesse riguarda il fatto che, quantunque le frodi fiscali non rientrino nei paradigmi fondanti la responsabilità degli enti ex artt. 24 ss. d.lgs. n. 231/2001, in relazione al sequestro a fini di confisca, l'associazione per delinquere, compresa tra i reati-presupposto giusta l'art. 24-ter, commi 1 e 2, consente di attingere anche alle prime e più in generale a tutti i fatti di reato qualificati come delitti, a prescindere dalla loro esclusione dalla “lista nera” di cui agli artt. 24 ss. Difettando la valvola della fattispecie associativa, detta esclusione, alla luce di Cass., Sez. Un., 30 gennaio 2014, n. 10561, rende ragione del motivo per cui i reati tributari commessi dal legale rappresentante di un ente non legittimano ex se il sequestro a fini di confisca sui beni dell'ente stesso. Ciò è vero, ma neppure in assoluto, dal momento che, da un lato, la regola riguarda la confisca per equivalente prevista dagli artt. 1, comma 143, l. n. 244/2007 e 322-ter c.p. e non la confisca diretta, con i ben noti effetti espansivi che questa si porta appresso; dall'altro, è fatto salvo – con conseguente ammissibilità della confisca anche per equivalente – il caso in cui l'ente sia privo di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso il quale il reo agisce come effettivo titolare dei beni: talché, se l'ente è un fantoccio nelle mani del reo, non c'è “lista nera” che tenga. Aspra è la critica rivolta alla tesi principale dalla dottrina, meno interessata, invece, all'ente-fantoccio. Acutamente, comunque, si osserva che “l'inedito marchingegno escogitato dalla S.C. … è consistito … nel qualificare come “diretta” e non “per equivalente” l'ablazione di somme corrispondenti all'imposta indebitamente evasa, muovendo dal duplice assunto che il denaro di cui consta siffatto profitto è un bene fungibile non suscettibile di identificazione storica nel patrimonio dell'ente, e che quest'ultimo non può reputarsi persona estranea al reato (non operando, dunque, la preclusione stabilita dall'art. 322-ter, comma 1, c.p.) … [ma], così opinando, da un lato si è capovolta d'emblée la consolidata visione che discerneva nella confisca di valore il naturale strumento di ablazione di qualsiasi vantaggio immateriale (e quindi anche di un mero risparmio di spese); e dall'altro si è giunti de facto ad ammettere una generalizzata confiscabilità dei benefici economici che una società può ritrarre da illeciti penal-tributari” [Mongillo, Confisca (per equivalente) e risparmi di spesa: dall'incerto statuto alla violazione dei principi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 2015].
In disparte ciò, l'associazione per delinquere, in quanto lesiva dell'incolumità pubblica, si astrae dai reati-fine, che vengono in linea di conto come svolgimento del programma criminoso perseguito dagli associati. Donde la formula aggregativa è il veicolo che, pur non rompendo gli schemi degli artt. 24 ss. D.lgs. n. 231/2001 e con essi la tipicità della "lista nera", fa assurgere i reati-fine alla ribalta della dinamica associativa, proiettandone gli effetti sulla responsabilità penal-amministrativa dell'ente.
Si potrebbe obiettare che ciò costituisce un vulnus al principio di legalità, applicabile, nella declinazione sanzionatoria, anche agli enti. Non è così, sia perché, su un piano formale, è il combinato disposto degli artt. 24-ter d.lgs. n. 231/2001 e 416 c.p. a determinare la sensibilità della situazione patrimoniale dell'ente all'attingimento dei reati-fine attraverso il filtro della formula associativa; sia perché, su un piano sostanziale, l'ente risponde non già dei reati-fine, ma delle “proiezioni patrimoniali” dell'insieme dei reati-fine, in quanto convogliati dalla forza del vincolo associativo nell'effetto di potenziamento dei precipitati lesivi che da ciascuno deriva. Rebus sic stantibus, come sottolineato dalla decisione che si commenta, prova troppo l'enunciato di Cass., Sez. VI, 20 dicembre 2013, n. 3635, secondo cui la rilevanza delle fattispecie non incluse nella “lista nera” è insuscettiva di “essere indirettamente recuperata” anche solo ai fini della individuazione del profitto confiscabile, poiché l'apertura all'atipicità attraverso l'art. 416 c.p. determinerebbe “un'ingiustificata dilatazione dell'area di potenziale responsabilità dell'ente collettivo, i cui organi direttivi, peraltro, verrebbero in tal modo costretti ad adottare su basi di assoluta incertezza, e nella totale assenza di oggettivi criteri di riferimento, i modelli di organizzazione e di gestione previsti dal citato d.lgs., art. 6, scomparendone di fatto ogni efficacia in relazione agli auspicati fini di prevenzione” (par. 7 delle motivazioni in diritto). La responsabilità dell'ente collettivo, in quanto responsabilità penal-amministrativa, è e resta limitata all'associazione, ma, sul piano della confiscabilità (e sequestrabilità) del profitto, “il tema, in realtà, attiene non tanto alla possibilità di “recuperare” il profitto derivante da un reato non previsto fra quelli idonei a fondare la responsabilità dell'ente, imputandolo a profitto del reato associativo, quanto, piuttosto, alla possibilità di individuare un profitto derivante ex se da un reato associativo, suscettibile, quindi, di essere sequestrato e confiscato anche nel caso in cui i delitti-scopo non siano fra quelli idonei a fondare la responsabilità dell'ente” (Silvestri, Questioni aperte in tema di profitto confiscabile nei confronti degli enti: la confiscabilità dei risparmi di spesa, la individuazione del profitto derivante dal reato associativo, in Cass. pen., 5, 2014, 1546).
In definitiva, il rimprovero che, sul piano del diritto penal-amministrativo, l'art. 24-ter D.lgs. n. 231/2001 impone di muovere all'ente concerne la snaturalizzazione della sua essenza per farsi strumento di un circuito criminale in cui le volontà di più persone si uniscono per perseguire, con o attraverso l'ente, un programma non semplicemente illecito ma propriamente delinquenziale (ragionandosi, infatti, di associazione per delinquere). Poiché il grado di deviazione dell'ente dallo schema tipico è massimo, il modello organizzativo deve prevenire il rischio che l'ente sia usato come motore di attività aggressive in sé della legalità penale. Realizzatosi il rischio in evento, l'ente sopporta le conseguenze patrimoniali della fattispecie associativa in funzione delle sue caratteristiche di fenomeno complesso, autonomo ma collegato ai reati-fine.
Nel diritto degli enti, la più eclatante emersione dei reati-fine attraverso la fattispecie associativa si trae nel settore del diritto penal-tributario, per la considerazione che, quantunque le condotte penalmente rilevanti siano personali, soggetto d'imposta è il singolo ente, il quale, ove utilizzato per sistematicamente frodare il fisco, costituisce il “luogo giuridico” che consente alle persone fisiche di operare, spendendone la soggettività. Il meccanismo si fonda sull'attribuzione alle persone fisiche di poteri che esse altrimenti non avrebbero (o avrebbero soltanto impegnandosi in proprio). Sicché l'ente, se non coincide con l'associazione per delinquere, ne è comunque un ingranaggio.
Alla stregua di ciò, in chiave investigativa, emerge la potenzialità del "grimaldello" dell'associazione per delinquere per attingere con misure cautelari (non solo patrimoniali) direttamente gli operatori attivi sui mercati – che non sono le persone fisiche, ma gli enti – prima che il marcio dilaghi: le frodi fiscali, infatti, sono tipici reati-spia di evoluzioni imprenditoriali votate al fallimento. Nondimeno le velleità di pulizia devono fare i conti con la realtà, in cui operano sia schermi societari uni-personali, che consumano lo spettro della responsabilità già allo stadio di quella penale del titolare, sia segregazioni patrimoniali – semplici, come il patrimonio separato; o assai più sofisticate, come il trust – che tutt'ora sfuggono alla responsabilità penal-amministrativa di cui al D.lgs. n. 231/2001.
La confisca
Nella decisione in commento, altro profilo di interesse, collegato al primo, attiene al sequestro del profitto ex art. 53 d.lgs. n. 231/01 – disposto, ab origine per equivalente, in prospettiva della confisca ex art. 19 – sul quantum corrispondente al valore che la società ha ritratto dalle frodi fiscali.
Nuovamente le frodi fiscali ritornano, questa volta come parametro della patrimonialità di illeciti di cui pur tuttavia la società non risponde, e nuovamente il principio di legalità entra in tensione, tanto che l'esigenza della sua riaffermazione ha portato qualche tempo fa Cass., Sez. VI, 20 dicembre 2013, n. 3635, a proclamare che, “in tema di responsabilità da reato degli enti, allorché si proceda per il delitto di associazione per delinquere e per reati non previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, la rilevanza di questi ultimi non può essere indirettamente recuperata, ai fini della individuazione del profitto confiscabile, per il loro carattere di delitti scopo del reato associativo contestato”. Né, se il reato commesso nell'interesse o a vantaggio di un ente resta fuori dalla “lista nera”, ma la relativa fattispecie ne contiene o assorbe un'altra invece in essa compresa, “è possibile procedere alla scomposizione del reato complesso o di quello assorbente al fine di configurare la responsabilità della persona giuridica” (Cass., Sez. II, 29 settembre 2009, n. 41488, relativamente all'annullamento del provvedimento di sequestro preventivo a fini di confisca del profitto del reato di truffa aggravata ai danni dello Stato contestato ad una società in seguito alla sua enucleazione da quello di frode fiscale contestato invece ai suoi amministratori). L'art. 19 D.lgs. n. 231/2001 disciplina la confisca nel contesto della responsabilità penal-amministrativa degli enti, prevedendo, al comma 1, che, “nei confronti dell'ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato. Sono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede”; e, al comma 2, che, “quando non è possibile eseguire la confisca a norma del comma 1, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato”.
Trattasi di confisca obbligatoria, che cade sul prezzo o sul profitto del reato, ma non anche sul prodotto di esso e neppure sui mezzi utilizzati per commetterlo. Ciò marca una discrasia con l'art. 11 l. n. 146/2006, ai sensi del quale, per i reati transnazionali ex art. 3, “qualora la confisca delle cose che costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo del reato non sia possibile, il giudice ordina la confisca di somme di denaro, beni od altre utilità di cui il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona fisica o giuridica, per un valore corrispondente a tale prodotto, profitto o prezzo”. In realtà la discrasia è duplice, posto che l'art. 11 non si limita a menzionare il prodotto ma soprattutto paventa la praticabilità della confisca per equivalente – e qui sta la novità – anche nel caso di interposizione fittizia, che ben può coinvolgere un ente.
Anche l'art. 19 D.lgs. n. 231/2001 contempla la confisca per equivalente, nel caso classico di ineseguibilità della confisca “in forma specifica”, perché le res da apprendere o ontologicamente non esistono, in quanto derivanti da un semplice risparmio, o non sono individuabili, in quanto confuse in una massa di genere, o non sono più nella disponibilità dell'ente, in quanto alienate; ma l'alienazione e più in generale la disposizione patrimoniale fanno scattare la clausola di salvezza dei diritti – non però di credito (Cass., Sez. Un., 25 settembre 2014, n. 11170 – “acquisiti dai terzi in buona fede” (con la conseguenza che la confisca non è pregiudicata dalle operazioni in mala fede, le quali nondimeno obbediscono a presupposti divergenti dalla fittizietà di cui all'art. 11 l. n. 146/2006).
Obbligatoria è la confisca diretta, lo è pure quella per equivalente, che – così denominata perché colpisce denaro, beni o altre utilità di valore eguale alle res costituenti il prezzo o il profitto – condivide con la prima la qualifica di “sanzione principale ed autonoma”. Ad affermarlo è Cass., Sez. Un., 25 settembre 2014, n. 11170, secondo cui, “il ricorso da parte del legislatore, nel secondo comma …, alla locuzione ‘può', non esprime l'intenzione di riconoscere ad essa natura facoltativa, ma la volontà di vincolare il dovere del giudice di procedervi alla previa verifica dell'impossibilità di provvedere alla confisca diretta del profitto del reato e dell'effettiva corrispondenza del valore dei beni oggetto di ablazione al valore di detto profitto”. Il sistema si espone ad una criticità: conseguendo la confisca diretta o per equivalente soltanto ad un titolo di condanna, avrà buon gioco l'ente, raggiunto da evidenze non contrastabili in giudizio, a cercare un accordo con il P.M. in guisa da ottenere, con la delibazione favorevole da parte del G.I.P., anche il dissequestro di quanto sottoposto a vincolo sul fondamento dell'obbligatorietà della confisca.
Associazione per delinquere finalizzata a frodi fiscali e confisca
Nel caso che ne occupa, il sequestro a fini di confisca del profitto, emesso dal G.I.P. e confermato dal tribunale del riesame, fa applicazione dell'equazione per cui il profitto, consistendo nel guadagno o vantaggio ricavato dall'illecito, può corrispondere anche ad un risparmio, che, nel settore del diritto tributario, alla stregua di Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2013, n. 18374, coincide – quantomeno – con il risparmio d'imposta (mentre, nel settore della sicurezza sul lavoro, alla stregua di Cass., Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343, intervenuta a valutare la responsabilità da reato di un ente derivante da reati colposi commessi in violazione della disciplina prevenzionistica, coincide – quantomeno – con il “risparmio di spesa che si concreta nella mancata adozione di qualche oneroso accorgimento di natura cautelare o nello svolgimento di una attività in una condizione che risulta economicamente favorevole, anche se meno sicura di quanto dovuto”). In tale ambito concettuale, il punto di partenza del ragionamento seguito dalla S.C. (che in parte qua conferma l'ordinanza impugnata) per giungere ad attribuire all'ente, attraverso l'associazione, il beneficio economico delle frodi fiscali è rappresentato dalla considerazione – risalente a Cass., Sez. III, 27 gennaio 2011, n. 5869 – che “il profitto del reato di associazione per delinquere, sequestrabile ai fini della successiva confisca per equivalente …, è costituito dal complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall'insieme dei reati-fine, dai quali è del tutto autonomo e la cui esecuzione è agevolata dall'esistenza di una stabile struttura organizzata e dal comune progetto delinquenziale”. A prescindere dal fatto che i reati-fine producano di per sé “vantaggi” (di guisa che però si perde la prospettiva dei “guadagni”), quel che rileva è il “complesso”, ossia l'insieme, “dei vantaggi”, i quali chiasmicamente si correlano all'“insieme”, ossia al complesso, “dei reati-fine”, sul fondamento tuttavia non di un'attribuzione a-specifica ma di una “consequenzialità diretta”. L'attenzione si concentra sull'associazione, che manifesta una capacità produttiva di profitto proiettata ad oltrepassare il singolo reato-fine per avvincerli tutti in un'accresciuta potenzialità.
La derivazione fiscale di siffatta impostazione è enunciata da Cass., Sez. III, 24 febbraio 2011, n. 11969: “Il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, previsto dall'art. 11 della legge 16 marzo 2006, n. 146, per i reati transnazionali, è applicabile anche al profitto dei reati di frode fiscale rientranti nel programma associativo di un'organizzazione criminale transnazionale”,perché – come leggesi in motivazione – “il profitto dei singoli reati-fine” (nella fattispecie peraltro di per sé transnazionali ex art. 3, comma 1, lettera c), L. n. 146/2006) “si traduce in vantaggio” – nuovamente ricorre questo termine – “per l'intera organizzazione criminosa ed i suoi componenti”.
I più recenti enunciati di conferma in punto di redditività in sé dell'associazione si devono a Cass., Sez. III, 4 marzo 2015, n. 26721, che, in tema di sottrazione di oli minerali alle accise, compie un passo ulteriore sulla strada della trasfigurazione dei “vantaggi” in “utili”, quasi a tradire il retro-pensiero della lettura aziendalistica della delinquenza associata, capace di produrre “utili”sì ma “d'impresa”. Afferma la S.C. che “il delitto di associazione per delinquere é idoneo a generare un profitto, che é sequestrabile ai fini della successiva confisca per equivalente … in via del tutto autonoma rispetto a quello prodotto dai reati fine, e che è costituito dal complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall'insieme di questi ultimi, siano essi attribuibili ad uno o più associati, anche non identificati, posto che l'istituzione della societas sceleris è funzionale alla ripartizione degli utili derivanti dalla realizzazione del programma criminoso”. È dalla motivazione (in part., par. 3.1.3.) che si trae l'esplicitazione della premessa su cui riposa la conclusione di far corrispondere il profitto confiscabile “alla sommatoria dei profitti conseguiti dall'associazione nel suo complesso per effetto della consumazione dei singoli reati-fine, che vanno pertanto accertati e attribuiti, sia pure nelle forme provvisorie della fase cautelare, ad uno o più associati”.
Detta premessa sta nell'intendimento dell'associazione come centro di raccolta degli associati, che agiscono “nella consapevolezza delle attività volte alla realizzazione del comune programma criminale e dei profitti che ne derivano, ossia dei profitti che, in qualunque forma, l'associazione vada concretamente e periodicamente a conseguire in maniera duratura e permanente, anche e soprattutto attraverso la consumazione dei reati programmati, sicché non vi è dubbio che i proventi delittuosi, realizzati con la consumazione di detti reati, costituiscono il vantaggio per il quale il reato associativo è stato concepito, anche in funzione della prevedibile ripartizione degli utili, del cui conseguimento, quale profitto del reato associativo, tutti gli associati…devono pertanto rispondere. In altri termini, i partecipi sono consapevoli sia del fatto che le proprie condotte rientrano nell'esecuzione del programma criminoso attraverso lo specifico contributo ricompreso nel generico programma di delinquenza e sia del fatto che il profitto non è destinato a recare un vantaggio uti singuli, se non limitatamente alla divisione degli utili conseguiti dall'organizzazione”.
Associazione semplice ed associazione mafiosa
Risalta la modernità della linea di pensiero della S.C., che tuttavia impone un supplemento di riflessione sui rapporti tra associazione semplice ex art. 416 c.p. ed associazione mafiosa ex art. 416-bis c.p. Citando Cass., Sez. Un., 27 febbraio 2014, n. 25191, già la diversità delle rubriche (“Associazione per delinquere” e “Associazioni di tipo mafioso …”) “rispecchia la differenza ontologica delle due fattispecie, l'una preordinata esclusivamente alla commissione di reati, l'altra contraddistinta da una maggiore articolazione del disegno criminoso” (par. 5.1. delle motivazioni in diritto).
A termini dell'art. 416-bis, comma 3, c.p., l'associazione mafiosa, che esiste di per se stessa, in funzione dell'avvalimento della forza di intimidazione del vincolo associativo, può essere orientata non solo a “commettere delitti” ma anche ad “acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche…” o a “realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri” (oltreché a manipolare gli esiti delle elezioni), mentre l'associazione semplice è tutta proiettata “allo scopo di commettere più delitti”. Una semplificazione forse eccessiva porta a dire che la mafia “ha” una caratterizzazione (anche) imprenditoriale; l'associazione semplice “può” averla, quando articola imprenditorialmente il suo programma criminoso. Le soluzioni giuridiche
Da quanto precede discende l'indicazione procedimentale di una verifica del concreto modus essendidell'associazione ex art. 416 c.p. per riscontrarne l'attitudine imprenditoriale. In tal senso pare di doversi interpretare Cass., Sez. I, 20 gennaio 2015, n. 7860, la quale, in un caso di confisca pertinenziale in sede esecutiva concernente il profitto ritratto dal reato (prescritto) di associazione per delinquere finalizzata alla realizzazione di truffe in danno dello Stato per indebiti rimborsi d'imposta, afferma che “il reato di associazione per delinquere di cui all'art. 416 c.p. non genera autonomamente dai reati-fine vantaggi economici costituenti prodotto o profitto illecito immediatamente riconducibili al sodalizio criminale…, in quanto il mero fatto di associarsi al fine della commissione di più delitti è di per sé improduttivo di ricchezze illecite”. La decisione di cui si tratta non nega che l'associazione possa generare “vantaggi”, qualificati come economici, né che possa generarli dai reati-fine; ma esige la perpetrazione dei reati-fine per saggiare la coloritura imprenditoriale dell'associazione, contestando ogni automatismo. Se ne può trarre l'insegnamento che, ai fini della confisca, è necessaria la dimostrazione, attingibile anche presuntivamente, che i “vantaggi”ritratti dai reati-fine – dei quali, ricordasi, l'associato non risponde penalmente per il sol fatto della partecipazione all'associazione, perché il programma è a priori indeterminato, sicché non v'è ragione che debba per forze di cose risponderne patrimonialmente – entrino nel circuito associativo ed obbediscano ad una logica spartitoria. Solo così è predicabile una loro imputazioneall'associazione come utili d'impresa, recuperandosi il percorso motivazionale di Cass., Sez. III, n. 26721/2015, cit., in coerenza con i binari della legalità penale.
Del resto, oltre a siffatti “vantaggi”, ben possono emergere ulteriori benefici che, nella prospettiva dell'associato, assurgono ad autentici “guadagni”, elargitigli dall'associazione e perciò a ritroso ad essa facenti capo. Se ne dimostra avvertita Cass., sez. II, 20 gennaio 2015, n. 6507, che ha confermato la legittimità della confisca per equivalente di somme, non coincidenti con quelle riferibili ai reati-fine di natura fiscale, erogate ad una società posseduta dall'indagato, a sua volta chiamato a rispondere di partecipazione ad un'associazione per delinquere transazionale finalizzata alla commissione di detti reati. Essa spiega che “il delitto di associazione per delinquere può essere considerato in sé idoneo a generare profitto illecito – come tale suscettibile di confisca in via del tutto autonoma da quello conseguito dai reati-fine perpetrati in esecuzione del programma criminoso – con riferimento alle utilità percepite dagli associati per il contributo da essi prestato per assicurare il regolare funzionamento del sodalizio”.
Si profila una nuova frontiera del ragionamento, che ricostruisce il profitto dell'associazione come antecedente del corrispettivo – in limine assimilabile al prezzo – dedotto nel rapporto sinallagmatico tra essa e gli associati in cambio dei loro servigi. Osservazioni
Quando nel fenomeno criminoso entra un ente, il titolo della sua responsabilità non è un'inesistente sua partecipazione all'accordo spartitorio ma l'interesse o vantaggio di cui esso gode ex art. 5, comma 1, D.lgs. n. 231/2001. Ciò spiega per quale ragione l'accertamento della redditività dell'associazione per delinquere, pur necessario, rappresenta solo il presupposto della responsabilità penal-amministrativa dell'ente, che si autonomizza dalla responsabilità (nella duplice versione penale e patrimoniale) degli associati. Pertanto pare inapplicabile nei confronti dell'ente la regola per cui, attribuendosi all'associazione (sebbene non automaticamente) i “vantaggi” ritratti dai reati-fine, in specie fiscali, il loro “ribaltamento” sugli associati legittima alla confisca anche per equivalente, giacché l'ente non è un associato tra gli associati.
Alla stregua di quanto precede, occorre verificare caso per caso le utilitates ridondanti in capo all'ente in termini di profitto, che possono coincidere con il “profitto tributario”, ma anche oltrepassarlo. Per aversi coincidenza, l'ente deve essere soggetto passivo di un'obbligazione tributaria, giacché solo in tale veste può beneficiare del mancato decremento (nel caso di evasione od elusione) o dell'indebito arricchimento (nel caso di illegittimo rimborso) del suo patrimonio.
Stabilire quando insorge l'obbligazione tributaria dell'ente, in specie a fronte di violazioni fiscali (formalmente) commesse (anche) da altri (enti o, in ipotesi, associati), spetta al diritto tributario. Nondimeno i rapporti di rete rilevano anche nel sistema sanzionatorio ex d.lgs. n. 231/2001, il cui art. 19, comma 1, imponendo bensì la confisca nei confronti dell'ente, “salvo” però “che per la parte che può essere restituita al danneggiato”, esige oggi di essere coordinato con l'art. 12-bis D.lgs. n. 74/2000, introdotto dall'art. 10 D.lgs. n. 158/2015, a termini del quale la confisca nei confronti del responsabile di un reato tributario (che allo stato non può che essere una persona fisica) “non opera per la parte che il contribuente”– coincidente o meno con il responsabile stesso – “si impegna a versare all'erario anche in presenza di sequestro”. Al riguardo, peraltro, perplessità sorgono in ordine alla rilevanza del mero impegno di versamento, che, sebbene temperato dalla previsione di chiusura per cui il mancato versamento fa “sempre” scattare la confisca, alla lettera sembra produrre un effetto ostativo finanche del sequestro, a meno di uscire dai ranghi e pensare ad inedite figure di sequestro e a fortiori di confisca condizionate al mancato versamento (sottolinea Santoriello, Applicabilità della confisca al profitto dei reti tributari tra vecchie e nuove disposizioni, in Il fisco, 2015, l'irragionevolezza di “permettere al condannato di evitare la confisca semplicemente ‘impegnandosi a versare all'Erario' ciò che, fino a quel momento, non ha mai versato e che presumibilmente non verserà certo dopo la pronuncia della sentenza; sarebbe forse stato meglio che la norma fosse stata formulata nel senso di far riferimento, per l'eliminazione del vincolo, alla parte d'imposta che il contribuente avesse già restituito”).
Comunque quel che in questa sede preme di sottolineare è il fattore di complicazione che inevitabilmente si scarica anche sulla valutazione di sequestrabilità-confiscabilità a carico dell'ente, giacché occorre tener conto dei plurimi strumenti che l'ordinamento tributario mette a disposizione del contribuente, coincida o meno con l'ente, per una definizione concordata del debito: la semplice rateazione (con riferimento alla quale il problema perenne è il puntuale ed integrale pagamento delle rate), l'accertamento con adesione (le cui diversioni dalle finalità tipiche sono ben note alla prassi) e, oltre, la transazione fiscale e la conciliazione giudiziale (che impongono un raffronto costante con i procedimenti amministrativi e giurisdizionali, complessi e…lunghi) (Tassani, La “nuova” confisca tributaria, in Il fisco, 43, 2015).
Ma il profitto dell'ente può anche valicare i limiti connaturali all'enucleazione di un “profitto” propriamente “tributario”. Considerato che il pagamento delle imposte realizza un costo, può accadere che, in un'ottica di sistema, da individuare attraverso la determinazione del programma criminoso dell'associazione ex art. 416 c.p., il beneficio riservato all'ente – in ipotesi non raggiunto dall'obbligazione tributaria – consista in un'accresciuta competitività ontologicamente anticoncorrenziale (un cenno a tale questione, tuttavia non sviluppata, si scorge nella motivazione dei provvedimenti di merito riportata dalla S.C. nella decisione in commento).
Potrà allora essere utile che le parti ed eventualmente il giudice si avvalgano delle cognizioni aziendalistiche di esperti. |