Il bilanciamento tra l’identità religiosa del lavoratore e le ragioni di neutralità dell’impresa

09 Giugno 2017

L'art. 2, par. 2, lett. a), della Direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un'impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale Direttiva. Siffatta norma interna di un'impresa privata può invece costituire una discriminazione indiretta ai sensi dell'art. 2, par. 2, lett. b), della Direttiva 2000/78/CE, qualora venga dimostrato che l'obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare
Massima

L'art. 2, par. 2, lett. a), della Direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un'impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale Direttiva.

Siffatta norma interna di un'impresa privata può invece costituire una discriminazione indiretta ai sensi dell'art. 2, par. 2, lett. b), della Direttiva 2000/78/CE, qualora venga dimostrato che l'obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare

Il caso

La domanda di pronuncia pregiudiziale, vertente sull'interpretazione dell'art. 2, par. 2, lett. a), della Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, è stata presentata nell'ambito di una controversia tra una dipendente di fede musulmana ed una società con sede in Belgio, in merito al divieto imposto dalla normativa aziendale ai propri dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e di compiere qualsiasi rituale che derivi da tali convinzioni.

Nel 2006 la ricorrente, receptionist con contratto a tempo indeterminato presso una società privata con mansioni di ricevimento e accoglienza ai clienti, comunicava al datore di lavoro l'intenzione di voler indossare il velo islamico durante l'orario di lavoro. La direzione della società rispondeva alla lavoratrice che un tale comportamento non sarebbe stato tollerato poiché contrario alla neutralità cui si atteneva l'impresa già dal 2003, sebbene in virtù di regole non scritte. Nel maggio del 2006 il comitato aziendale approvava una modifica del regolamento interno, entrata in vigore nel giugno dello stesso anno, in forza della quale veniva vietato per iscritto ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o di manifestare qualsiasi rituale connesso. A causa della perdurante volontà della lavoratrice di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro, la medesima veniva licenziata ricevendo il pagamento di un'indennità pari a tre mensilità di stipendio e dei vantaggi acquisiti in forza del contratto di lavoro. La lavoratrice proponeva ricorso al Tribunale del Lavoro di Anversa per far dichiarare l'illegittimità del recesso, ma il giudice di prime cure rigettava la domanda della ricorrente, la quale appellava la pronuncia. Tuttavia, anche la Corte d'appello belga respingeva il ricorso ritenendo che il licenziamento non poteva essere considerato ingiustificato in quanto il divieto generale di indossare sul luogo di lavoro segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose non comportava una discriminazione diretta, non risultando neppure una forma di discriminazione indiretta né una violazione della libertà individuale o di religione. Invero i giudici di secondo grado rilevavano che la ricorrente non era stata licenziata per la sua fede musulmana, bensì per aver voluto manifestare la propria fede in maniera visibile e durante l'orario di lavoro, violando così la disposizione del regolamento interno che vietava a tutti i dipendenti, senza distinzioni basate sul tipo di religione professata, di indossare sul luogo di lavoro segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose. La Corte d'appello di Anversa respingeva altresì l'argomento secondo il quale il divieto adottato all'interno della società avrebbe costituito di per sé una discriminazione diretta della lavoratrice quale credente, rilevando che tale divieto non riguardava soltanto il fatto di indossare simboli legati a convinzioni religiose, ma anche i segni concernenti le convinzioni filosofiche.

La lavoratrice ricorreva alla Cassazione belga sostenendo che la pronuncia della Corte d'Appello avesse travisato le nozioni di «discriminazione diretta ed indiretta» di cui all'art. 2, par. 2, della Direttiva 2000/78/CE. La Corte di Cassazione sospendeva il procedimento e sollevava questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia chiedendo se l'art. 2, par. 2, lett. a), della Direttiva de qua deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare il velo islamico, derivante da una norma interna di un'impresa privata che vieta in via generale di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, costituisce una discriminazione diretta vietata da tale direttiva.

La questione

Il caso affrontato dalla Corte in ordine alle modalità di espressione dei segni religiosi nel contesto lavorativo è particolarmente interessante poiché situato su un terreno in cui la dimensione privata del lavoratore incontra lo spazio pubblico con la conseguente eventualità di un conflitto tra valori di rilievo costituzionale: il diritto all'identità personale, da un lato, e la libertà d'impresa dall'altro. Laddove il primo attiene alla coscienza del singolo ed alla relativa libertà di manifestare le personali convinzioni religiose o filosofiche di cui agli artt. 9 e 14 CEDU, l'altra è richiamata all'art. 16 della Carta di Nizza e tutelata dall'art. 41 Cost. rientrando nella libertà di iniziativa economica.

In particolare la questione all'esame della Corte di Giustizia riguarda la verifica dell'esistenza di una disparità di trattamento, indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali della lavoratrice, ai sensi dell'art. 2, par. 2, lett. b) della citata Direttiva, al fine di accertare se, pur in presenza di una norma aziendale in astratto neutra, il datore di lavoro con le sue determinazioni abbia in concreto comportato uno svantaggio per una particolare categoria di dipendenti, quelle di fede musulmana, tenute, in base al proprio credo, ad indossare il velo islamico.

Le soluzioni giuridiche

Preliminarmente occorre osservare che l'art. 1 della Direttiva 2000/78/CE mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento. Ai sensi dell'art. 2 della Direttiva per “principio della parità di trattamento” si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all'art. 1.

La Corte di Giustizia rileva che la CEDU e la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea attribuiscono alla nozione di «religione» un'accezione ampia, includendovi la libertà di manifestare il proprio credo. Il legislatore dell'Unione ha inteso mantenere lo stesso approccio nell'adottare la Direttiva 2000/78/CE, cosicché occorre interpretare la nozione di «religione» come comprensiva sia del forum internum, ossia il fatto di avere determinate convinzioni personali, sia del forum externum, vale a dire la manifestazione in pubblico delle stesse.

La Corte valuta in primo luogo se dalla normativa aziendale emerga una disparità di trattamento tra lavoratori a seconda delle relative religioni o convinzioni e, in caso affermativo, se tale disparità di trattamento costituisca una discriminazione diretta ai sensi dell'art. 2, par. 2, lett. a), della Direttiva 2000/78/CE. Nel caso di specie, il regolamento aziendale si riferisce al fatto di indossare segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose e riguarda quindi qualsiasi manifestazione di tali convinzioni, senza distinzione alcuna. Si deve pertanto considerare che la disposizione in esame tratta in maniera identica tutti i dipendenti dell'impresa, imponendo loro, in modo generalizzato ed indiscriminato, la neutralità di abbigliamento. Ne consegue che l'applicazione della normativa aziendale, volta a garantire nei confronti della clientela l'immagine neutrale della società, ha trovato uniforme applicazione verso tutti i dipendenti, a prescindere dalla tipologia di credo professato, e pertanto non ha integrato una disparità di trattamento direttamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. Sul punto la Corte precisa che non è escluso che il giudice del rinvio possa giungere alla conclusione che la norma interna istituisca una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi dell'art. 2, par. 2, lett. b), della Direttiva 2000/78/CE, ma ciò solo qualora venga dimostrato, e spetta al giudice nazionale verificarlo, che l'obbligo apparentemente neutro in essa contenuto comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia. Tuttavia, soggiunge ancora la Corte, siffatta disparità di trattamento, ove esistente, non costituirebbe una discriminazione indiretta, se oggettivamente giustificata da una finalità legittima e se i mezzi impiegati per il relativo conseguimento fossero appropriati e necessari. In proposito la Corte ritiene legittima la scelta del datore di lavoro di mostrare, nei rapporti con i clienti, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa, dal momento che creare un'immagine di neutralità rientra nella libertà d'impresa, di cui all'art. 16 della Carta di Nizza, ed ha, in linea di principio, carattere legittimo, in particolare ove il datore di lavoro coinvolga nel perseguimento di tale obiettivo soltanto i dipendenti che si suppone entrino in contatto con la clientela. A riguardo va osservato che l'interpretazione secondo la quale il perseguimento di tale finalità consente, entro certi limiti, di apportare una restrizione alla libertà di religione è suffragata dalla giurisprudenza della Corte europea relativa all'art. 9 della CEDU (si veda il caso “Eweida e altri c. Regno Unito” del 15.01.2013).

Per quanto concerne, in secondo luogo, il carattere appropriato della normativa aziendale, la Corte di Giustizia constata che il divieto posto ai lavoratori di indossare in modo visibile segni di convinzioni politiche, filosofiche o religiose è idoneo ad assicurare la corretta applicazione di una politica di neutralità, a condizione che tale politica sia realmente perseguita in modo coerente e sistematico. (si vedano, in tal senso, le sentenze Hartlauer, C-169/07 del 10.03.2009 e Petersen, C-341/08 del 12.01.2010). Pertanto, spetta al giudice del rinvio verificare se la società avesse stabilito, prima del licenziamento della lavoratrice, una politica generale ed indifferenziata che vietava di indossare in modo visibile segni di convinzioni politiche, filosofiche o religiose nei confronti del personale a contatto con la clientela.

Per quanto riguarda, in terzo luogo, la sussistenza del carattere di necessarietà del divieto posto dall'azienda, secondo la Corte di Giustizia occorre verificare se fosse limitato effettivamente allo stretto necessario, il che si traduce, nel caso di specie, nel fatto di riguardare unicamente i dipendenti che hanno rapporti con i clienti. Solo in tal caso, infatti, il divieto può essere considerato strettamente necessario per il conseguimento della finalità perseguita.

La questione esaminata, concernente i limiti all'esercizio della libertà religiosa sul posto di lavoro, consente alla Corte di Giustizia di osservare, tra l'altro, che per quanto attiene al rifiuto della dipendente di rinunciare ad indossare il velo durante lo svolgimento delle proprie attività professionali a contatto con i clienti della società, spetta al giudice del rinvio verificare se, tenendo conto dei vincoli inerenti all'impresa, e senza che quest'ultima dovesse sostenere un onere aggiuntivo, sarebbe stato possibile per il datore di lavoro proporle un posto di lavoro che non comportasse un contatto visivo con il pubblico, invece di procedere sic et simpliciter al relativo licenziamento. Ne consegue che spetta al giudice del rinvio bilanciare gli interessi in gioco, limitando allo stretto necessario le restrizioni all'esercizio del diritto alla libertà di manifestare il proprio credo religioso.

In proposito va rilevato che in passato era intervenuta sul tema anche la Corte europea dei Diritti dell'uomo. Si pensi al caso Eweida ed altri c. Regno Unito del 15.01.2013, in cui la hostess di una compagnia aerea addetta al check-in si era rifiutata di non indossare una catenina con una croce, simbolo della sua religione, contravvenendo così alle regole aziendali sull'abbigliamento volte a mostrare all'esterno un'immagine laica della società. In tale ipotesi la Corte europea, esaminando la fattispecie alla luce del combinato disposto di cui agli artt. 9 e 14 CEDU, aveva riscontrato la violazione da parte dello Stato del diritto della ricorrente a manifestare il proprio credo religioso sulla scorta delle specifiche circostanze del caso concreto. In particolare il fatto che la società avesse consentito ad altri dipendenti l'adattamento dell'uniforme alle rispettive fedi religiose ed in seguito modificato il codice sull'abbigliamento senza con ciò ravvisare una lesione all'immagine commerciale della compagnia, deponeva, secondo la Corte, nel senso che il divieto precedentemente imposto non fosse di vitale interesse per la società. Si trattava dunque di una discriminazione ad personam, piuttosto che di un'applicazione del principio di necessaria neutralità della corporate identity, rispetto al quale il divieto di indossare simboli delle proprie convinzioni religiose o filosofiche sul luogo di lavoro, derivante da una norma interna aziendale, non sembra poter costituire una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali dal momento che è valevole in maniera identica nei confronti di tutti i dipendenti dell'impresa.

È opportuno osservare che nel caso appena richiamato, a differenza di quello in esame, era stato leso il “principio della parità di trattamento” inteso quale assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all'art. 1 della Direttiva 2000/78/CE. Invero, fermo restando che tale direttiva lascia impregiudicate le misure previste dalla legislazione nazionale che, in una società democratica, sono necessarie alla sicurezza pubblica, alla tutela dell'ordine pubblico, alla prevenzione dei reati e alla tutela della salute e dei diritti e delle libertà altrui, sussiste una discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all'art. 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga. Si riscontra una discriminazione indiretta, invece, laddove una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che: tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.

Inoltre va precisato che l'art. 4, par. 1, della Direttiva 2000/78/CE, in tema di requisiti per lo svolgimento dell'attività lavorativa, attribuisce agli Stati membri la possibilità di stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all'art. 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura dell'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento della stessa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato. Nell'interpretazione della Corte la nozione di requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, che giustificherebbe la disparità di trattamento, rinvia ad un requisito oggettivamente dettato dalla natura o dal contesto in cui l'attività lavorativa viene espletata, e non fa riferimento né alle motivazioni sottese, né alle considerazioni soggettive, quali ad esempio la volontà del datore di lavoro di tener conto dei particolari desiderata del cliente. In proposito la dottrina (E. Tarquini) ha rilevato che i divieti di discriminazione hanno carattere oggettivo e funzionale e sono destinati ad operare indipendentemente dall'intenzione soggettiva dell'agente, con la conseguenza che ad essere vietato è un effetto, quale il trattamento deteriore causalmente connesso al fattore protetto, non già un motivo. Invero la Corte di Giustizia ha affermato che l'art. 4, par.1, della citata Direttiva deve essere interpretato nel senso che “la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore non siano più assicurati da una dipendente che indossa il velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa ai sensi di detta disposizione”.

Osservazioni

A conclusione della disamina del caso sembra opportuno riflettere sul principio di non discriminazione, quale principio generale dell'ordinamento dell'Unione Europea, rispetto al quale la Corte di Giustizia, nella sentenza Kücükdeveci del 9 gennaio 2010 (C-555/07), ha riconosciuto l'invocabilità nei rapporti tra privati a prescindere dall'esistenza di una normativa nazionale di recepimento della Direttiva 2000/78/CE. In tal senso, la Grande Camera ha stabilito che “è compito del giudice nazionale, investito di una controversia tra privati, garantire il rispetto del principio di non discriminazione (nel caso di specie era in riferimento all'età), quale espresso concretamente dalla Direttiva 2000/78/CE, disapplicando, se necessario, qualsiasi disposizione contraria della normativa nazionale, indipendentemente dall'esercizio della facoltà di cui dispone, nei casi previsti dall'art. 267, secondo comma, TFUE, di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale sull'interpretazione di tale principio”.

Preme altresì rilevare che lesione del principio di non discriminazione ricade nell'alveo della disciplina del licenziamento discriminatorio, inteso come il recesso del datore di lavoro determinato esclusivamente da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza del lavoratore ad un sindacato o dalla partecipazione ad attività sindacali, da ragioni attinenti all'etnia, alla lingua, al genere o all'orientamento sessuale. Nell'ordinamento giuridico italiano la definizione di licenziamento discriminatorio si rintraccia nell'art. 3, L. n. 108/90, che a sua volta fa espresso rinvio ad altre due norme, l'art. 15, L. n. 300/70 e l'art. 4, L. n. 604/66. A riguardo, va ricordato che la legislazione sul tema si è sviluppata gradualmente a partire dalla L. n. 604/66 che, all'art. 4, sanciva la nullità, a prescindere dalla motivazione formalmente adottata, del «licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali». Il successivo art. 15 dello Statuto dei lavoratori sanciva altresì la nullità dei patti o degli altri atti diretti a discriminare il lavoratore. La L. n. 903/77 con l'art. 13 ha poi ampliato l'elenco contenuto nell'art. 15 dello Statuto, inserendovi le ragioni razziali, di lingua o di sesso. Da ultimo, il D.lgs. n. 216/2003 con l'art. 4 ha aggiunto le ragioni di handicap, di età, di orientamento sessuale e di convinzioni personali.

Per meglio evidenziare il regime di tutela particolarmente incisivo predisposto dall'ordinamento laddove vengano in considerazione profili discriminatori, giova sottolineare l'importante impatto che ha avuto sulla normativa nazionale il diritto antidiscriminatorio europeo, fondato sugli artt. 18 e 19 TFUE e sulle Direttive in materia di discriminazioni di genere (2006/54) o dovute ad altre ragioni (2000/43 e 2000/78), alle quali si aggiunge il Regolamento n. 492/2011 che vieta le discriminazioni basate sulla nazionalità, in attuazione dei principi in materia di libertà di circolazione dettati dall'art. 21 TFUE. In particolare, si è assistito ad un ampliamento dei casi in cui non sono ammessi trattamenti differenziati, laddove i D.lgs. nn. 215 e 216 del 2003 qualificano come discriminatori tutti quei “comportamenti, trattamenti o altre conseguenze pregiudizievoli posti in essere o determinati, nei confronti della persona lesa da una discriminazione diretta o indiretta o di qualsiasi altra persona, quale reazione ad una qualsiasi attività diretta a ottenere la parità di trattamento”.

Da quanto detto emerge che il datore di lavoro non può adottare come criteri di assunzione, di inquadramento, di differenza di trattamento, né di recesso le convinzioni personali religiose o filosofiche dei lavoratori. L'accertamento del fatto discriminatorio, sottendendo un giudizio di tipo comparativo fra trattamenti differenziati, è incentrato sulla prova dell'effetto lesivo in atto o sulla discriminazione indiretta, anche potenziale, di un trattamento differenziato obiettivamente connesso ad uno dei fattori di discriminazione, quale ad esempio la religione professata dal lavoratore.

Il regime dell'onere della prova, modulato in ragione del funzionale divieto di discriminazione, prevede che il lavoratore che si considera discriminato deve dimostrare l'esistenza di un trattamento differenziato in suo danno, spettando solo in seguito al datore di lavoro la prova dell'inesistenza della discriminazione, con l'allegazione di fatti specifici dai quali sia desumibile l'esistenza di una ragione lecita posta a fondamento del trattamento differenziato ovvero, nel caso di discriminazione diretta, di una deroga, vale a dire di una causa di esclusione del divieto, o ancora, in caso di discriminazione indiretta, l'esistenza di una causa di giustificazione. Sul punto merita altresì osservare che recentemente la Corte di Cassazione ha affermato che la discriminazione, diversamente dal motivo illecito, opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro. Ne consegue che la nullità del licenziamento derivante dal divieto di discriminazione discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed europeo e che la condotta discriminatoria è idonea di per sé sola a determinare la nullità del licenziamento, indipendentemente dalla prova di un intento soggettivo illecito (Cass. n. 6575/2016).

Guida all'approfondimento
  • C. De Marco, Simboli religiosi e prestazione di lavoro, Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 14 dicembre 2016, n. 12, p. 820 ss.;
  • N. Colaianni, Il velo delle donne musulmane tra libertà di religione e libertà d'impresa. Prime osservazioni alla sentenza della Corte di giustizia sul divieto di indossare il velo sul luogo di lavoro, Questione Giustizia, 21.03.2017;
  • Corte di Cassazione, sentenza n. 6575 del 5.04.2016, note di commento di M.T. Carinci, D. Gottardi, E. Tarquini, in RIDL, 2016, II, p. 714 ss.;
  • E. Tarquini, Il velo islamico e i diritti di discriminazione: spunti per alcune riflessioni sull'efficacia protettiva del principio paritario, in Labor, 2016, p. 431 ss. (nota a Corte d'Appello di Milano, sentenza n. 579/2016 del 20.05.2016).
  • M. Peruzzi, Il prezzo del velo: ragioni di mercato, discriminazione religiosa e quantificazione del danno patrimoniale, in RIDL, 2016, II, p. 821 ss. (Tribunale di Lodi, ordinanza n. 1558/2014 del 07.07.2014).;
  • A. Lassandari, Le discriminazioni nel lavoro. Nozioni, interessi, tutele, in Tratt G, Padova, 2010, 55.;
  • T. Treu, Condotta antisindacale e atti discriminatori, F. Angeli, 1974, p. 120 ss.;
  • E. Ghera, Le sanzioni civili nella tutela del lavoro subordinato, in GDLRI, 1979, p. 348.

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