Il ricorso straordinario per cassazione per errore di fatto cagionato dal travisamento della prova

03 Settembre 2018

Con sentenza n. 29450/2018, la Suprema Corte, Sez. II, ha ribadito il principio di diritto secondo il quale il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto di cui all'art. 625-bis c.p.p. può avere ad oggetto l'omessa considerazione di una prova esistente ma non il suo travisamento.
Abstract

Con sentenza n. 29450/2018, la Suprema Corte, Sez. II, ha ribadito il principio di diritto secondo il quale il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto di cui all'art. 625-bis c.p.p. può avere ad oggetto l'omessa considerazione di una prova esistente ma non il suo travisamento.

Il caso

Con sentenza del 4 luglio 2017, la Corte di cassazione aveva respinto il ricorso proposto da S. D.G. avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo che aveva confermato la sua condanna per il delitto di estorsione aggravata. Con ricorso straordinario, proposto ai sensi dell'art. 625-bis c.p.p., il condannato ha eccepito che non v'era prova che il S. avesse riferito della rivendicazione, da parte del condannato stesso, dell'attentato posto in essere ai danni della vittima, così come affermato a pag. 18 della revocanda sentenza, e che D.G. aveva accusato altra persona e non lui, come pure ritenuto dalla sentenza impugnata.

Storia (breve) della genesi dell'istituto

La Corte di cassazione, in quanto organo supremo della giustizia che assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni, che regola i confini di competenza e di attribuzione (art. 65, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12), è giudice di ultima istanza. In quanto giudice nomofilattico di ultima istanza, la Corte di cassazione non può commettere, per definizione, errori di diritto e le sue pronunce non potrebbero mai essere impugnate per tale motivo per la contraddizione che non lo consente: se ne dovrebbe dedurre, infatti, che la Corte non commette errori di diritto solo nella fase di auto-emenda (Sez. I, 1 ottobre 1991, n. 3482, Pirolo, aveva affermato la inconcepibilità, almeno sul piano concettuale, dell'abnormità di un provvedimento della Corte di cassazione cui spetta, a norma dell'art. 65 dell'ordinamento giudiziario, la funzione istituzionale di assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge).

Nei confronti dei provvedimenti della Corte di cassazione, dunque, non era tradizionalmente previsto alcun mezzo di impugnazione. Perciò se vi è stato ricorso per cassazione, la sentenza è ope legis irrevocabile dal giorno in cui è pronunciata l'ordinanza o la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso (art. 648, comma 2, c.p.p.).

La Corte costituzionale, con le sentenze n. 51 e n. 52 del 1970, n. 136 del 1972, n. 21 del 1982 e nn. 247 e 294 del 1995, aveva reiteratamente osservato che «il principio della irrevocabilità e incensurabilità delle decisioni della Corte di cassazione, oltre ad essere rispondente al fine di evitare la perpetuazione dei giudizi e di conseguire un accertamento definitivo – il che costituisce, del resto, lo scopo stesso dell'attività giurisdizionale e realizza l'interesse fondamentale dell'ordinamento alla certezza delle situazioni giuridiche –, è pienamente conforme alla funzione di giudice ultimo della legittimità affidata alla medesima Corte di cassazione dall'art. 111 della Costituzione» e aveva dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che mirassero alla sostanziale introduzione di un mezzo straordinario di impugnazione delle sentenze penali della Corte di cassazione.

Tuttavia, lo stesso Giudice delle leggi, con sentenza n. 17 del 22 gennaio 1986, aveva dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 395, prima parte, e n. 4) c.p.c. nella parte in cui non prevedeva la revocazione di sentenze dalla Corte di cassazione rese su ricorsi basati sul n. 4) dell'art. 360 c.p.c. e affette dall'errore di cui al n. 4) dell'art. 395 dello stesso codice. Aveva osservato la Corte costituzionale che «il diritto di difesa, in ogni stato e grado del procedimento garantito dall'art. 24 comma secondo Cost., sarebbe gravemente offeso se l'errore di fatto, così come descritto nell'art. 395 n. 4, non fosse suscettibile di emenda sol per essere stato perpetrato dal giudice cui spetta il potere-dovere di nomofilachia. Né le peculiarità del magistero della Cassazione svuotano di rilevanza il comandamento di giustizia che di per sé permea la ripetuta disposizione del codice di rito civile, perché l'indagine cognitoria cui dà luogo il n. 4 dell'art. 360 non è diversa da quella condotta da ogni e qualsiasi giudice di merito allorquando scrutina la ritualità degli atti del processo sottoposto al suo esame».

Rispondendo alla sollecitazione contenuta nella sentenza n. 17 del 1986, il Legislatore è intervenuto con legge 26 novembre 1990, n. 353, che ha aggiunto al codice di procedura civile l'art. 391-bis che, con decorrenza dal 1° gennaio 1993, consente la correzione degli errori materiali e la revocazione delle sentenze della Corte di cassazione. Nella sua formulazione originaria, l'art. 391-bis, comma 1, c.p.c., così recitava: «Se la sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione è affetta da errore materiale o di calcolo ai sensi dell'articolo 287 ovvero da errore di fatto ai sensi dell'art. 395, n. 4), la parte interessata può chiederne la correzione o la revocazione con ricorso ai sensi degli articoli 365 e seguenti da notificare entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione della sentenza, ovvero di un anno dalla pubblicazione della sentenza stessa». L'art. 395, n. 4), c.p.c., individua, a sua volta, la seguente ipotesi di revocazione: «se la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare».

Dunque, per la prima volta, il Legislatore aveva positivamente previsto la possibilità di emendare le sentenze della Corte di cassazione se viziate non solo (e non tanto) da errore materiale quanto (e soprattutto) da errore di fatto, da un errore, cioè, della decisione.

Il versante penale è rimasto affidato per lungo tempo alla possibilità di applicare anche alle sentenze e alle ordinanze della Suprema Corte, la procedura di correzione dell'errore materiale prevista dall'art. 130 c.p.p., purché, aveva subito precisato Sez. 1, 26 ottobre 1992 n. 4322, Raso, si trattasse di mere irregolarità che, in coerenza con lo specifico rimedio processuale, denotassero, in maniera evidente, una difformità non voluta tra la realtà processuale e la statuizione adottata e per sanare le quali non vi fosse spazio diverso da quello del rimedio in questione, tendente a conservare l'atto eliminandone il vizio per il quale non riguarda l'essenza dell'atto stesso ma esclusivamente la sua apparente esteriorità, non rispondendo questa al reale contenuto. Una qualche timida apertura era giunta da quelle pronunce della Suprema Corte che avevano tentato di allargare l'applicazione dell'istituto a errori difficilmente qualificabili come puramente e semplicemente materiali. Si era così affermato che la procedura della correzione degli errori materiali «poteva essere utilizzata anche alla mancata cognizione di fatti storici che investano elementi essenziali della decisione» (Sez. III, 10 novembre 1993, n. 2373, Armati). In precedenza, Sez. 1, 6 novembre 1991, n. 34481, Cinque, aveva riconosciuto la legittimità della procedura di correzione dell'errore materiale nell'ipotesi di sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione, a seguito di dibattimento svoltosi in pubblica udienza senza l'intervento del difensore di fiducia, al quale non era stato notificato il prescritto avviso, al fine di rimuovere il danno ingiusto conseguente, non altrimenti eliminabile per l'inoppugnabilità delle pronunce del giudice di legittimità; di rilievo la conseguenza: la Corte ha preso atto che nel frattempo si era verificata l'estinzione del reato per prescrizione e ha annullato la sentenza di merito senza rinvio, ritenendo inutile per ragioni di economia processuale fissare una nuova data per la trattazione del processo, che non avrebbe potuto dare altro risultato, ne' ravvisando l'applicabilità di formula di proscioglimento più favorevole all'imputato.

Nel 1994, le Sezioni unite della Suprema Corte, nel dichiarare inammissibile la richiesta di correzione della motivazione di un'ordinanza del 10 novembre 1993 della terza Sezione penale della stessa Corte, hanno riaffermato la necessità di non trasformare la correzione in uno strumento di straordinaria revisione dei provvedimenti della Corte di cassazione, sol perché questi non sono più impugnabili(Sez. unite, n. 8 del 18/05/1994, Armati). Nel caso di specie, si sollecitava la Corte di cassazione a prendere in considerazione due motivi di ricorso non esaminati per errore e che, nell'auspicio della ricorrente, avrebbero potuto determinare un diverso e più favorevole epilogo decisorio. Orbene, se è vero, spiegano le Sezioni unite, che la correzione di errori materiali è un rimedio che il Legislatore ha offerto al giudice per rimuovere da tutti i provvedimenti eventuali errori od omissioni, deve convenirsi che i limiti previsti dalla legge per la sua applicazione debbono avere una valenza altrettanto generale. La duplice condizione prevista dall'art. 130 c.p.p., e cioè che l'errore o l'omissione non debbono determinare la nullità del provvedimento e nemmeno, una volta rimossi, una modificazione essenziale del suo contenuto, rappresenta il confine invalicabile per qualsiasi intervento correttivo. Quanto al primo limite, non contestano le S.U. che i provvedimenti della Corte di cassazione, proprio perché inoppugnabili, non possano mai contenere errori od omissioni capaci di determinarne la nullità: «ma una cosa è affermare che la previsione dell'errore correggibile, come alternativa a quella dell'errore che è causa di nullità del provvedimento, non è riferibile a tutti i provvedimenti non più impugnabili, ed altra cosa, ben diversa, è voler trarre da tale premessa la conclusione, non condivisibile, secondo la quale per i provvedimenti della Corte di Cassazione non sussisterebbero limiti all'ammissibilità della correzione. […]. Quel primo limite» prosegue la Corte «contribuisce a circoscrivere l'area di operatività della correzione anche per i provvedimenti della Corte di Cassazione, perché nell'esaltare il rapporto di esclusione che la legge ha inteso richiamare tra la funzione riparatoria della correzione e quella sostitutiva, propria delle impugnazioni, ha finito per sottolineare il carattere marginale dell'errore correggibile attraverso il ricorso ad un criterio che privilegia la ricognizione degli effetti processuali determinati da errori od omissioni». La Corte mette in guardia da possibili usi distorti dell'istituto: «la successiva condizione prevista dall'art. 130 c.p.p., e cioè il divieto di apportare, attraverso la correzione, una modificazione "essenziale" del provvedimento, si armonizza compiutamente con la prima e, senza porre limiti alla sua osservanza a seconda della tipologia dei provvedimenti del giudice ed ai loro effetti, utilizza pur essa la ricognizione anticipata del risultato della correzione allo scopo di impedire che l'uso illimitato di tale rimedio possa trasformarlo in un anomalo mezzo d'impugnazione. E se non è consentita dalla legge una correzione che determini la modificazione essenziale del provvedimento che tale intervento subisce, a maggior ragione dev'essere interdetta quella correzione che si risolve nella sostituzione di una decisione già assunta dal giudice. L'errore, quale che sia la causa che possa averlo determinato, una volta divenuto partecipe del processo formativo della volontà del giudice, non può che diffondere i suoi effetti sulla decisione: ma questa, nella sua organica unità e nelle sue essenziali componenti non può subire interventi correttivi, per quanto ampio significato si voglia dare alla nozione di "errore materiale", suscettibile di correzione. Viceversa, gli interventi correttivi imposti soltanto dalla necessità di armonizzare l'estrinsecazione formale della decisione con il suo reale contenuto, proprio perché intrinsecamente incapaci di incidere sulla decisione già assunta, sono sempre ammissibili. Dalle su esposte premesse discende che la correzione integrativa sarà consentita solo se la stessa sarà riconducibile nell'ambito di un rapporto di stretta dipendenza logico-giuridica con il contenuto di una decisione, perché soltanto in presenza di tale rapporto l'integrazione rispetta l'intangibilità del contenuto essenziale del provvedimento e lo rende conforme ai parametri normativi di riferimento. Nè l'impossibilità di rimuovere diversamente un'erronea decisione può giustificare, di per sè sola, una diversa conclusione. Il doveroso rispetto dell'immodificabilità di una pronuncia, allorquando questa non presenti vizi così radicali da renderla inesistente, è esso stesso un valore altamente positivo tutelato, e con appropriato rigore, dall'ordinamento processuale. Nè appropriato può essere ritenuto il richiamo all'art. 547 c.p.p. nel tentativo di estendere la correzione alla motivazione dei provvedimenti della Corte di Cassazione: quella norma non pone alcuna deroga alle condizioni di ammissibilità della correzione, indicate nell'art. 130 c.p.p. ed è applicabile soltanto con riguardo alle sentenze pronunciate da giudici diversi dalla Corte di Cassazione, com'è agevole rilevare dal suo mancato richiamo nell'art. 615 dello stesso codice».

Dopo due mesi, la S.C. avrebbe ribadito il principio affermato dalle S.U., Armati, con una pronuncia resa in materia di errata individuazione del giudice del rinvio (Sez. V, 4 luglio 1994, n. 3658, Greco) che avrebbe indotto la Corte di assise di appello di Caltanissetta, quale giudice del rinvio erroneamente indicato, a sollevare la questione di legittimità costituzionale degli artt. 623 e 624, c.p.p., dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 294 del 1995.

Anche Sez. I, 14 dicembre 1994, n. 6022, Ciarelli, nel dichiarare inammissibile l'istanza con cui era stata chiesta la correzione dell'errore inficiante una sentenza del giudice di legittimità che, sulla base di un non compiuto esame delle risultanze documentali, aveva erroneamente ritenuto depositato in maniera irrituale, e di conseguenza dichiarato inammissibile, un ricorso per cassazione presentato dall'istante nell'ambito di un procedimento di prevenzione, aveva affermato il principio secondo il quale allorché la pronuncia del giudice di legittimità sia inficiata da una svista materiale, incidente direttamente sul giudizio, non ci si trova in presenza di un errore materiale e non è di conseguenza ammissibile il ricorso alla relativa procedura di correzione (art. 130 c.p.p.), perché in tal modo si farebbe luogo a una non consentita modifica essenziale – o addirittura alla sostituzione – della decisione così assunta; simili evenienze, eliminabili nei giudizi di merito attraverso i mezzi di gravame, non lo sono quando si verifichino nei giudizi di legittimità, avverso i quali l'ordinamento non prevede che possano esperirsi impugnazioni di sorta.

L'entrata in vigore dell'art. 62, legge 353 del 1990 che, con effetto dal 1° gennaio 1993 aveva aggiunto l'art. 391-bis c.p.c. non era passata inosservata in sede penale.

Sez. VI, 22 maggio 1995, n. 2005, Russo, aveva affermato il principio che l'art. 130 c.p.p. deve essere letto nel quadro dei principi costituzionali e delle caratteristiche generali dell'ordinamento processuale tenendo conto, sul piano interpretativo, delle modifiche apportate all'art. 391-bis del c.p.c. con l'art. 67 della legge 27 novembre 1990 n. 353, modifiche introdotte a seguito dei ripetuti interventi della Corte Costituzionale, ribaditi da ultimo con la sentenza 31 gennaio 1991 n. 36, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 395 n. 4 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva la revocazione delle sentenze della Cassazione per errore di fatto nella lettura di atti interni al suo stesso giudizio e che hanno sostanzialmente equiparato le procedure di correzione materiale e quelle di revocazione. Quando perciò l'errore investe non la motivazione ma la stessa esistenza della sentenza, occorrerà adottare soluzioni interpretative che facciano salvi i principi costituzionali e, analogamente a quanto avvenuto nel processo civile, distinguere tra un momento rescindente da attuarsi attraverso la procedura di correzione degli errori materiali e una fase rescissoria da demandarsi alla pubblica udienza. In applicazione di tale principio, la Corte aveva accertato che il rapporto processuale relativo al ricorso per cassazione da parte del difensore si era irregolarmente costituito, perché vi era stato un errore nella notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza, e aveva conseguentemente proceduto, con le formalità previste per la correzione degli errori materiali, a rettificare il tenore della decisione assunta in udienza sostituendola con il rinvio del ricorso a nuovo ruolo e le disposizioni necessarie per la corretta notifica al difensore.

Successivamente, Sez. III, 13 febbraio 1996, n. 673, Conte, aveva ribadito che «con la procedura di correzione degli errori materiali può porsi rimedio anche alla mancata cognizione di fatti storici che investono elementi essenziali della decisione». Perciò – aveva sostenuto – legittimamente la Corte di cassazione può adottare la procedura prevista dall'art. 130 c.p.p. e revocare la sentenza dichiarativa dell'inammissibilità del ricorso basata sul presupposto - erroneo in punto di fatto - che l'impugnazione fosse stata presentata dal difensore dell'imputato contumace non munito di specifico mandato, mentre la dichiarazione di ricorso era stata presentata personalmente dall'imputato.

Conformemente al principio affermato dalla citata sentenza Russo, Sez. II, 10 luglio 1996, n. 3164, Lisi, aveva ribadito che «qualora si accerti che il giudice di legittimità sia incorso nel decidere in un errore di fatto nella lettura degli atti interni del giudizio, è ammissibile il ricorso alla procedura di correzione degli errori materiali»; devono infatti ritenersi applicabili alle sentenze penali della Corte di cassazione, nell'ambito di una lettura sistematica delle disposizioni complessivamente regolanti la procedura di correzione, il principio generale di diritto processuale enunciato dalla Corte costituzionale nella sentenza 31 gennaio 1991, n. 36 – con la quale ha dichiarato la parziale illegittimità dell'art. 395 c.p.c. nella parte in cui non prevedeva la revocazione delle sentenze della Corte di cassazione per errore di fatto – e le nuove disposizioni di cui all'art. 391-bis c.p.c. – che attuano, in sede civile, detto principio – le quali hanno sostanzialmente equiparato la procedura di correzione degli errori materiali a quella di revocazione. Nelle predette ipotesi, pertanto, è consentito anche in sede penale provvedere alla correzione dell'errore di fatto in camera di consiglio – fase rescindente – con eventuale rinvio alla pubblica udienza per la fase rescissoria.

Sez. II, 19 settembre 1996, n. 3355, De Novellis, sulla premessa che con la procedura per la correzione degli errori materiali «può porsi rimedio in sede di legittimità anche alla mancata cognizione di fatti storici che investono elementi essenziali della decisione», aveva affermato che qualora si accerti, successivamente alla pronuncia, che il ricorrente è deceduto prima della decisione, può procedersi alla correzione della sentenza, emessa nei confronti di persona non più esistente, per dare atto di tale inesistenza (in applicazione di tale principio la Corte ha disposto la correzione della propria sentenza sostituendone la motivazione ed il dispositivo – dichiarativo dell'inammissibilità del ricorso – nel modo che segue: ritenuto che l'imputato è deceduto .. visto l'art. 150 cod. pen. ... annulla l'impugnata sentenza senza rinvio perché il fatto è estinto per morte dell'imputato).

Ponendosi sulla stessa scia, Sez. V, 15 dicembre 1999, n. 6093, Cervetti, aveva affermato che la regola generale in base alla quale la correzione di errore materiale non è consentita quando essa si risolverebbe nella modifica essenziale o nella sostituzione di una decisione già assunta, non può ritenersi operante, in sede di legittimità, nel caso in cui la Corte di cassazione abbia emanato un provvedimento che, «senza l'errore materiale in cui essa è stata indotta, non avrebbe potuto essere emesso, per difetto dei poteri di cognizione o decisione». Ne consegue, proseguiva la Corte, che è emendabile con la procedura ex art. 130 c.p.p. l'errore materiale o l'omissione della Corte di cassazione determinati dal mancato inserimento nel fascicolo processuale (da parte della cancelleria del giudice a quo o ad quem) di atti ritualmente presentati dalle parti, atti incidenti sui predetti poteri di cognizione e decisione (Nella fattispecie, la Corte aveva proceduto alla correzione di sua precedente sentenza, pronunciata a seguito di impugnazione, a suo tempo, proposta dal Procuratore generale presso una Corte di appello, il quale aveva poi, tempestivamente, rinunciato al ricorso, con apposita dichiarazione, che, tuttavia, non era stata inserita nel fascicolo inviato alla Suprema corte. Nell'enunciare il principio sopra riportato, la Corte aveva corretto la propria precedente pronunzia, dichiarando inammissibile il predetto ricorso del Procuratore generale).

In senso contrario a questo indirizzo, Sez. I, 24 novembre 1995, n. 6037, Del Gado, pronunciando in relazione alla rappresentata nullità del giudizio di cassazione per asserita mancanza di avviso ai difensori di fiducia, aveva ribadito che agli eventuali errori processuali o sostanziali che si verifichino nell'ambito del giudizio di cassazione non può porsi rimedio mediante il ricorso alla procedura di correzione degli errori materiali, prevista dall'art. 130 c.p.p.

Sez. II, 21 gennaio 1997, n. 124, Pilato, aveva ribadito che non è consentito il ricorso alla procedura di correzione degli errori materiali per emendare gli errori concettuali di fatto in cui sia incorso il giudice di legittimità; diversamente opinando si potrebbe dare ingresso a una inammissibile modifica sostanziale della decisione, in violazione non soltanto dei canoni imposti dalla procedura di cui all'art. 130 c.p.p. ma, soprattutto, del principio della definitività delle sentenze della Corte di cassazione.

Sez. III, 17 aprile 1997, n. 1762, Salmi, aveva affermato che il principio della definitività delle sentenze della Corte di Cassazione è preclusivo del nuovo esame di ogni questione di merito e di rito, salvo il ricorso ai rimedi straordinari previsti dal sistema e che non è consentito ricorrere alla procedura di correzione degli errori materiali, di cui all'art.130 c.p.p., al fine di emendare gli errori di fatto in cui sia eventualmente incorso il giudice, in quanto - altrimenti - si darebbe ingresso ad un mezzo volto non già all'emenda del testo della sentenza, ma ad una non ammissibile modifica della decisione in violazione del richiamato principio di definitività. (Nel caso di specie era stata dichiarata inammissibile l'istanza di revoca di sentenza della Suprema Corte sul rilievo che la sentenza emessa nei confronti del ricorrente era stata assunta sulla scorta delle risultanze processuali, nelle quali non v'era traccia della nomina del difensore di fiducia asseritamente fatta, e siffatta decisione, definitiva, non avrebbe potuto essere censurata ne' modificata attraverso il ricorso alla procedura di correzione di errori materiali, non essendo fondata su alcun errore di ordine materiale alla Corte stessa imputabile e non essendo frutto di discordanza tra l'effettivo pensiero del giudice e l'esteriorizzazione di esso).

Sez. VI, 3 giugno 1998, n. 2076, Caruso, decidendo in un caso in cui era stato dedotto quale errore materiale il presupposto della mancanza dello specifico mandato a impugnare del difensore dell'imputato contumace su cui si era fondata la pronuncia della Corte di cassazione di inammissibilità del ricorso, aveva negato la possibilità di ricorrere alla procedura per la correzione degli errori materiali al fine di emendare gli errori di fatto in cui sia incorso il giudice: in tal modo, infatti, verrebbe dato ingresso ad un mezzo volto non già ad un'emenda del testo della sentenza, ma ad una inammissibile modifica della decisione, in violazione del principio di definitività delle sentenze della Corte di cassazione nonché dei canoni imposti dall'art. 130 c.p.p. Deve infatti escludersi – aveva aggiunto la Corte – l'ammissibilità della correzione dell'errore di fatto basata su una sorta di equiparazione – mutuata dal codice di rito civile - tra la disciplina della correzione degli errori materiali e quella della revocazione, trattandosi di due istituti non ragionevolmente accomunabili, come già ritenuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 119 del 18 aprile 1996, con la quale è stata dichiarata la parziale illegittimità dell'art. 391-bis c.p.c., che tale equiparazione effettuava prevedendo un identico termine per la presentazione delle istanze di correzione degli errori materiali e di revocazione per errore di fatto delle sentenze della Corte di cassazione.

Con ordinanza del 5 maggio 1999, la Corte di cassazione sollevò questione di legittimità costituzionale degli artt. 629 e 630 e ss. c.p.p., per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono e non disciplinano la revisione delle decisioni della Corte di cassazione per errore di fatto (materiale e meramente percettivo) nella lettura di atti interni al giudizio. Era accaduto, in particolare, che con ordinanza del 21 dicembre 1998, la Corte di cassazione aveva dichiarato l'inammissibilità, per mancanza di specifico mandato, del ricorso proposto dal difensore dell'imputato contumace avverso la sentenza di appello. Con successivo ricorso, il condannato contumace aveva chiesto alla medesima Corte la revoca dell'ordinanza, segnalando l'erroneità dell'assunto relativo alla mancanza, in capo al difensore, del mandato specifico, al contrario esistente e risultante agli atti del procedimento. Dopo aver richiamato l'insegnamento di Sez unite, n. 8/1994, Armati, cit., circa l'impercorribilità dello strumento della correzione dell'errore materiale, e i principi affermati dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza, da ultimo, n. 294 del 1995, e con quella n. 17 del 1986 relativa all'art. 395 c.p.c., la Corte di cassazione aveva individuato nell'istituto della revisione lo strumento processuale più adeguato per ovviare ad errori di fatto meramente materiali e percettivi nel controllo degli atti. In tal modo veniva fornita alla Corte costituzionale quella concreta e ben individuata soluzione normativa la cui mancanza era stata censurata nelle sentenze che avevano rigettato analoghe questioni di legittimità costituzionale.

Con sentenza n. 395 del 13luglio 2000, la Corte costituzionale ha dichiarato l'inammissibilità della questione. Dopo aver affermato che «l'errore di tipo "percettivo" in cui sia incorso il giudice di legittimità, e dal quale sia derivata l'indebita declaratoria di inammissibilità del ricorso (con l'ovvia conseguenza di determinare l'irrevocabilità della pronuncia oggetto di impugnativa) rappresenta eventualità tutt'altro che priva di conseguenze per il rispetto dei principi costituzionali coinvolti», il giudice delle leggi ha riconosciuto che una simile evenienza «si porrebbe in automatico e palese contrasto non soltanto con l'art. 3, ma anche con l'art. 24 della Costituzione, per di più sotto uno specifico e significativo aspetto, quale è quello di assicurare la effettività del giudizio di cassazione. Questa garanzia, infatti, si qualifica ulteriormente in funzione dell'art. 111 della Costituzione, il quale non a caso prevede che contro tutte le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale «è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per violazione di legge». «Ciò sta dunque a significare –prosegue la Corte – non soltanto che il giudizio di cassazione è previsto come rimedio costituzionalmente imposto avverso tale tipo di pronunzie; ma, soprattutto, che il presidio costituzionale – il quale è testualmente rivolto ad assicurare il controllo sulla legalità del giudizio (a ciò riferendosi, infatti, l'espresso richiamo al paradigmatico vizio di violazione di legge) - contrassegna il diritto a fruire del controllo di legittimità riservato alla Corte Suprema, cioè il diritto al processo in cassazione […] L'errore di tipo "percettivo" in cui sia incorso il giudice di legittimità e dal quale sia derivata l'indebita compromissione di quel diritto, deve avere un necessario rimedio». Tale rimedio, conclude la Corte costituzionale, deve essere individuato dalla Corte di cassazione cui spetta «svolgere appieno la propria funzione di interpretazione adeguatrice del sistema, individuando, all'interno di esso, lo strumento riparatorio più idoneo. Che tale strumento possa essere poi rinvenuto proprio all'interno dello speciale istituto previsto dall'art. 130 c.p.p., non a caso oggetto del procedimento a quo, è aspetto che - tenuto conto delle ineludibili esigenze di adeguamento secundum constitutionem che la peculiare e delicata tematica, come si è detto, impone – dovrà essere scandagliato dalla stessa Corte rimettente, in linea, d'altra parte, con la funzione nomofilattica ad essa istituzionalmente riservata».

Secondo la Corte costituzionale, dunque, il ricorso alla procedura della correzione dell'errore materiale per emendare l'errore di tipo percettivo nel quale possa essere incorsa la Corte di cassazione sarebbe stato possibile.

In questo contesto che si inserisce la legge 26 marzo 2001, n. 128 che ha aggiunto al codice di procedura penale l'art. 625-bis.

Il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto. Analisi (breve) dell'istituto

Il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto è ammesso esclusivamente a favore del condannato per correggere l'errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti della Corte di cassazione.

Sin da subito, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno delineato l'ambito applicativo dell'istituto definendo l'errore di fattonei seguenti termini:

«errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e connotato dall'influenza esercitata sul processo formativo della volontà, viziato dall'inesatta percezione delle risultanze processuali che abbia condotto a una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso»(Sez. unite, 27 marzo 2002, n. 16103, Basile). Ne consegue che:

  1. qualora la causa dell'errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio;
  2. sono estranei all'ambito di applicazione dell'istituto gli errori di interpretazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, ovvero la supposta esistenza delle norme stesse o l'attribuzione ad esse di una inesatta portata, anche se dovuti ad ignoranza di indirizzi giurisprudenziali consolidati, nonché gli errori percettivi in cui sia incorso il giudice di merito, dovendosi questi ultimi far valere – anche se risoltisi in travisamento del fatto – soltanto nelle forme e nei limiti delle impugnazioni ordinarie;
  3. l'operatività del ricorso straordinario non può essere limitata alle decisioni relative all'accertamento dei fatti processuali, non risultando giustificata una simile restrizione dall'effettiva portata della norma in quanto l'errore percettivo può cadere su qualsiasi dato fattuale;
  4. trattandosi di istituto di carattere eccezionale, possono costituire oggetto dell'impugnazione straordinaria esclusivamente quei provvedimenti della Corte di cassazione che rendono definitiva una sentenza di condanna e non anche le altre decisioni che intervengono in procedimenti incidentali (nel senso che qualora la causa dell'errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, come tale escluso dall'orizzonte del rimedio previsto dall'art. 625-bis c.p.p., cfr., più recentemente, Sez. unite, 26 marzo 2015, n. 18651, Moroni).

La stessa sentenza ha precisato che l'omesso esame di un motivo di ricorso non dà luogo a errore di fatto rilevante a norma dell'art. 625-bis c.p.p., nè determina incompletezza della motivazione della sentenza a condizione che:

  1. pur in mancanza di espressa disamina, il motivo proposto debba considerarsi implicitamente disatteso perché incompatibile con la struttura e con l'impianto della motivazione, nonché con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ‘ratio decidendi' della sentenza medesima; ovvero
  2. quando l'omissione sia soltanto apparente, risultando le censure formulate con il relativo motivo assorbite dall'esame di altro motivo preso in considerazione, giacché, in tal caso, esse sono state comunque valutate, pur essendosene ritenuta superflua la trattazione per effetto della disamina del motivo ritenuto assorbente. L'omesso esame del motivo di ricorso deve essere ricondotto alla figura dell'errore di fatto quando sia dipeso da una vera e propria svista materiale, cioè da una disattenzione di ordine meramente percettivo che abbia causato l'erronea supposizione dell'inesistenza della censura, la cui presenza sia immediatamente e oggettivamente rilevabile in base al semplice controllo del contenuto del ricorso.

L'errore materiale è, invece, quello già definito dall'art. 130 c.p.p. Si tratta di errore che comprende sia degli errori in senso stretto, sia le omissioni, e consiste, nella sostanza, nel frutto di una svista, di un lapsus espressivo, da cui derivano il divario tra volontà del giudice e materiale rappresentazione grafica della stessa e la difformità tra il pensiero del decidente e l'estrinsecazione formale dello stesso, senza alcuna incidenza sul processo cognitivo e valutativo da cui scaturisce la decisione: questa, cioè, corrisponde perfettamente a quanto rappresenta il contenuto della deliberazione, dato che il vizio si risolve nella inadeguatezza della forma espressiva rispetto alla volontà effettiva. La correzione dell'errore materiale ha una funzione meramente riparatoria, consistendo in una rettifica volta ad «armonizzare l'estrinsecazione formale della decisione con il suo reale contenuto» (Cass. pen., Sez. unite, 18 maggio 1994, Armati, cit.). La correzione dell'errore materiale riguarda, quindi, la sola documentazione grafica quale mezzo di manifestazione della volontà giudiziale, regolarmente formatasi senza l'influenza perturbatrice di quell'errore, tant'è che l'applicazione dell'art. 130 c.p.p. è stata considerata del tutto compatibile col principio dell'inoppugnabilità delle decisioni della Corte di cassazione, proprio perché rigorosamente circoscritta alla categoria degli errori materiali che non determinano nullità e sono eliminabili senza una modificazione essenziale del provvedimento.

Da tali considerazioni, la Corte di cassazione ha tratto l'ulteriore conseguenza che soltanto il ricorso straordinario per errore di fatto ha natura di vero e proprio mezzo di impugnazione, mentre il ricorso relativo all'errore materiale rappresenta null'altro che uno strumento di correzione, speciale rispetto a quella prevista dall'art. 130 c.p.p., senza alcuna incidenza sul contenuto della decisione e con funzione di mera rettifica della forma espressiva della volontà del giudice (così Sez. unite, n. 16103/2002; nello stesso senso Sez. unite, n. 16102/2002, Chiatellino, secondo cui non è consentito il ricorso alla procedura di correzione dell'errore materiale, prevista dall'art.130 c.p.p., per porre rimedio ad errori di fatto contenuti in provvedimenti della Corte di cassazione, emendabili soltanto a norma dell'art. 625-bis dello stesso codice che disciplina l'unico rimedio esperibile per l'eliminazione di quest'ultimo tipo di errori, con la conseguenza che la persona offesa, in quanto non condannata, non può chiedere la correzione dell'errore materiale dei provvedimenti della Corte di cassazione).

Anche l'omessa rilevazione della prescrizione può costituire oggetto di errore di fatto, purché la statuizione sul punto sia effettivamente l'esclusiva conseguenza di un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco, e non anche quando il preteso errore derivi da una qualsiasi valutazione giuridica o di apprezzamento di fatto (Sez. unite, n. 37505/2011).

Non sfuggono allo speciale rimedio, nemmeno le statuizioni civili di condanna, per l'ontologica identità di diritti processuali tra l'azione penale e l'azione civile (Sez. unite, n. 28719/2012, Marani).

La sentenza in commento

Per maggiore facilità di comprensione, è opportuno riassumere, nuovamente, il caso.

La Corte di cassazione aveva rigettato il ricorso di Tizio avverso la condanna per il reato di estorsione aggravata. Con il ricorso straordinario Tizio ha eccepito l'errore di fatto nel quale sarebbe incorsa la Suprema Corte nel rigettare l'originario ricorso. L'errore sarebbe consistito nel fatto che: 1) non v'era prova alcuna che egli avesse mai rivendicato l'attentato, rivendicazione attribuita a lui da Caio; 2) Sempronio non aveva accusato lui, come affermato nella sentenza che aveva respinto il ricorso, bensì Mevio.

Con la sentenza in commento, la Corte di cassazione, richiamati preliminarmente i principi affermati dalle Sezioni unite in materia di errore di fatto richiamati nel paragrafo che precede, ha ulteriormente precisato che: «il perimetro della cognizione affidata al giudice di legittimità con il ricorso ex art. 625-bis cod. proc. pen. esclude […] dal suo ambito ogni attività di rivalutazione del percorso logico argomentativo fatto proprio dalla Corte di legittimità ed ogni processo valutativo, essendo limitato esclusivamente alla correzione di patologie della decisione riconducibili, con immediatezza, alla erronea percezione di un elemento rilevante per l'accertamento di responsabilità. Da ciò discende che il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto avverso i provvedimenti della Corte di cassazione può avere ad oggetto l'omessa considerazione di una prova esistente, ma non il travisamento della stessa […] sebbene il travisamento della prova implichi una errata valutazione di un dato di fatto emergente da un atto processuale, la sua deducibilità è sottoposta ad una rigorosa valutazione dei presupposti di ammissibilità (dovere di allegazione della prova che sia assume travisata, novità o persistenza del travisamento in caso di doppia conforme) che, all'evidenza, implicano una attività valutativa non sindacabile con il ricorso straordinario. Se si estendesse la sua ammissibilità alla rivalutazione della legittimità della progressione processuale, che comprende in sé la attività squisitamente valutativa che sottende alla valutazione delle prove, si trasformerebbe il ricorso straordinario previsto dall'art. 625-bis c.p.p. in un ulteriore grado di giudizio, con conseguenze non legittime in tema di stabilità dei giudicati, ad oggi, incidibili solo con la revisione o, in punto pena, con il riallineamento della sanzione ai parametri di legalità costituzionale e convenzionale sopravvenuti».

In base a tali premesse, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso osservando che: a) il primo errore di fatto eccepito integra un'ipotesi di travisamento della prova che, oltre a non essere deducibile per le ragioni appena indicate, non considera che la rivendicazione da parte di Tizio dell'attentato era stata riferita da Caio e che tale circostanza è ritenuta non decisiva dalla sentenza oggetto di ricorso straordinario; b) ancorché Mevio fosse il materiale percettore della somma, essa era comunque destinata a Tizio, all'epoca detenuto.

Occorre sottolineare, per avere un quadro più completo della vicenda, che dalla lettura della sentenza impugnata con ricorso straordinario, non risulta che Tizio abbia mai eccepito in modo espresso il travisamento delle prove dichiarative a suo carico, emergendo, al contrario, che avesse contestato la logicità della valutazione di attendibilità di dette prove fatta dai giudici di merito. Nel respingere tali censure, la Corte di cassazione aveva preso in considerazione esclusivamente quanto risultava dal testo della sentenza della Corte di appello, senza estendere la propria valutazione al contenuto delle prove stesse.

Ne consegue che correttamente la sentenza in commento ha dichiarato inammissibile il ricorso, non potendosi imputare alla Corte di cassazione di aver travisato una prova che non è mai stata oggetto di materiale percezione da parte del giudice di legittimità, perché non oggetto di specifico motivo ricorso. La Corte di cassazione, sul punto, ha affermato il principio secondo il quale il vizio di travisamento della prova della sentenza di appello, che non sia stato dedotto in sede di legittimità, non può costituire motivo di successivo ricorso straordinario per errore di fatto, ex art. 625-bis c.p.p., non configurandosi nella decisione della Corte di Cassazione alcuna errata rappresentazione percettiva degli atti (Sez. III, n. 14509/2017, Romeo; Sez. II, n. 24169/2013, Papalia).

Il travisamento della prova quale possibile causa dell'errore di fatto

È opportuna, a questo punto, una breve digressione sul c.d. travisamento della prova e sui suoi rapporti con l'errore di fatto di cui all'art. 625-bis c.p.p.

È necessario partire da una premessa: in termini generali, il fatto oggetto di cognizione in sede di legittimità è solo ed esclusivamente quello descritto nella sentenza o nel provvedimento impugnati. Ne consegue che oggetto di percezione materiale, in sede di legittimità, è solo il provvedimento impugnato.

Il tenore letterale dell'art. 606, lett. e), c.p.p., nel far riferimento al vizio che risulta dal testo, non dava adito a dubbi sul punto. Il Legislatore – ha affermato la S.C. – ha attribuito rilievo esclusivamente al testo del provvedimento impugnato, che si presenta quale elaborato dell'intelletto costituente un sistema logico in sé compiuto ed autonomo (Sez. unite, n. 12/2000, Jakani).

La S.C. ha reiteratamente e autorevolmente ribadito il principio che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del Legislatore – a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. L'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. unite, n. 16/1996, Di Francesco; Sez. unite, n. 6402/1997, Dessimone; Sez. unite, n. 24/1999, Spina; Sez. unite, n. 12/2000, Jakani, cit.; Sez. unite, n. 47289/2003, Petrella4). Dunque, la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicché dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Sez. unite, n. 16, Di Francesco, cit.), sicché una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano a una diversa lettura o interpretazione, munite di eguale crisma di logicità (Sez. U, n. 30/1995, Mannino).

L'art. 8, comma 1, lett. a), legge 20 febbraio 2006, n. 46, ha modificato l'art. 606, lett. e), c.p.p., estendendo la cognizione della Corte di cassazione anche ad altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame.

Si tratta del c.d. travisamento della prova (da tenere ben distinto dal travisamento dei fatti, fonte di responsabilità disciplinare del magistrato ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. h), d.lgs. 109/2006, e dal travisamento del fatto o delle prove, fonte di responsabilità civile del magistrato ai sensi dell'art. 2, comma 3, legge n. 117 del 1988 come modificata dalla legge 27 febbraio 2015, n. 18) che «è configurabile solo quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia; il relativo vizio ha natura decisiva solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio» (ex plurimis, Sez. VI, n. 5146/2014, Del Gaudio; Sez. II, n. 47035/2013, Giugliano). Il travisamento della prova consiste in un errore percettivo (e non valutativo) della prova stessa tale da minare alle fondamenta il ragionamento del giudice ed il sillogismo che ad esso presiede. In particolare, consiste nell'affermare come esistenti fatti certamente non esistenti ovvero come inesistenti fatti certamente esistenti. Il travisamento della prova rende la motivazione insanabilmente contraddittoria con le premesse fattuali del ragionamento così come illustrate nel provvedimento impugnato, una diversità tale da non reggere all'urto del contro-giudizio logico sulla tenuta del sillogismo. Il travisamento è perciò decisivo quando la frattura logica tra la premessa fattuale del ragionamento e la conclusione che ne viene tratta è irreparabile. Come autorevolmente ribadito da Sez. unite, n. 18620/2017, Patalano, n.m. sul punto, il travisamento delle prova sussiste quando emerge che la sua lettura sia affetta da errore "revocatorio", per omissione, invenzione o falsificazione. In questo caso, difatti, la difformità cade sul significante (sul documento) e non sul significato (sul documentato).

Poiché il vizio riguarda la ricostruzione del fatto effettuata utilizzando la prova travisata, se l'errore è imputabile al giudice di primo grado la relativa questione deve essere devoluta al giudice dell'appello, pena la sua preclusione nel giudizio di legittimità, non potendo essere dedotto con ricorso per cassazione, in caso di c.d doppia conforme, il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il giudice di secondo grado se il travisamento non gli era stato rappresentato (Sez. V, n. 48703/2014, Biondetti; Sez. VI, n. 5146/2014, cit.), a meno che, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, il giudice di secondo grado abbia utilizzato dati probatori non esaminati dal primo giudice (nel qual caso il vizio può essere eccepito in sede di legittimità, Sez. IV, n. 4060/2013, Capuzzi).

Il travisamento, in conclusione, non costituisce il mezzo per rivalutare nel merito la prova, bensì lo strumento per saggiare la tenuta della motivazione alla luce della sua coerenza logica con i fatti sulla base dei quali si fonda il ragionamento. Questo è il motivo per il quale il travisamento della prova non può costituisce lo strumento per la rivisitazione del fatto mediante il nuovo esame della prova. Come ben affermato da Sez. unite, Patalano, cit., il travisamento della prova è assimilabile all'errore revocatorio per omissione, invenzione o falsificazione, lo stesso errore, cioè, descritto dall'art. 395, n. 4, c.p.c., richiamato dall'art. 391-bis c.p.c.

Si comprende, allora, che tra l'errore di fatto di cui all'art. 625-bis c.p.p. e il travisamento della prova esistono numerosi punti di contatto, per non dire che sono in tutto e per tutto sovrapponibili.

In conclusione

Quid iuris, allora, nel caso in cui, ritualmente eccepito il travisamento della prova, la Corte di cassazione travisi, a sua volta, la prova oggetto di eccezione? Potrebbe il travisamento della prova “travisata” costituire valido motivo di ricorso straordinario per errore di fatto? In termini astratti la risposta non può che essere positiva. Un esempio aiuterà a comprendere meglio. Torniamo al caso scrutinato dalla norma in commento e ipotizziamo che Caio non abbia mai effettivamente detto che Tizio aveva rivendicato l'attentato e che entrambe le sentenze di merito, travisando il contenuto delle dichiarazioni di Caio, abbiano affermato l'esatto contrario, che, cioè, Caio aveva detto quel che non aveva mai detto. Dando per scontata la ammissibilità e la natura decisiva dell'eccezione di travisamento della prova proposta in cassazione, ipotizziamo che la Corte reiteri lo stesso errore, attribuendo a Caio affermazioni da questi mai riferite. Non v'è dubbio che l'errore possa e debba essere qualificato alla stregua di un errore di fatto rilevante ai sensi dell'art. 625-bis c.p.p.. Che Caio aveva riferito che Tizio aveva a sua volta rivendicato l'attentato è un fatto, che questo fatto, nell'esempio non sia vero è altrettanto incontrovertibile. Lo schema logico dell'errore revocatorio c'è tutto.

Occorre allora evitare possibili fraintendimenti.

La sentenza in commento, richiamando precedenti specifici sul punto, afferma che il ricorso straordinario per cassazione può avere ad oggetto l'omessa considerazione di una prova esistente ma non il travisamento della stessa. Il travisamento della prova, afferma la Corte, implica una errata valutazione di un dato emergente da un atto processuale e la sua deducibilità deve essere sottoposta ad un rigoroso vaglio dei presupposti di ammissibilità che implica un'attività valutativa estranea all'ambito di applicazione del ricorso straordinario.

Sul fatto che l'eccezione di travisamento della prova comporti la valutazione della sua ammissibilità non v'è dubbio; occorre però tenere ben distinti i due piani, quello della valutazione dell'ammissibilità dell'eccezione e quello dell'esame della prova stesso, perché l'errore di fatto/revocatorio può riguardare solo quest'ultimo, non di certo il primo. Sembra dunque che la sentenza intenda riferirsi al piano della valutazione di ammissibilità dell'eccezione di travisamento; ma non v'è dubbio, a parere di chi scrive, che l'errore revocatorio nel quale può incorrere la Corte nella lettura della prova travisata nella fase di merito può costituire errore di fatto che legittima il ricorso straordinario di cui all'art. 625-bis c.p.p.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.