La valutazione delle prove nel procedimento di prevenzione
24 Ottobre 2018
Abstract
Nonostante il procedimento di prevenzione sia finalizzato all'applicazione in via giurisdizionale di misure tese a delimitare la fruibilità di diritti della persona costituzionalmente garantiti, o ad incidere pesantemente e in via definitiva sul diritto di proprietà (v. Corte cost. n. 93 del 2010), il c.d. codice antimafia risulta assai “parco” nel dettare la disciplina dell'assunzione delle prove. L'art. 7 d.lgs. 159/2011, in tema di misure personali, si limita a prevedere, al comma 4-bis, introdotto dalla l. 161/2017, che il tribunale, dopo l'accertamento della regolare costituzione delle parti, ammette le prove rilevanti, escludendo quelle vietate dalla legge o superflue. L'art. 23 d.lgs. 159/2011, in tema di misure patrimoniali, rinvia alle disposizioni dettate dal Titolo I, Capo II, Sezione I, che si applicano in quanto compatibili. Nulla è, dunque, previsto in tema di valutazione delle prove. Il persistente silenzio del Legislatore ha consentito alla giurisprudenza di espandere la propria forza “creativa” del diritto e gli approdi di tale vis espansiva hanno condotto, in sede di prevenzione, alla disapplicazione dei principi sanciti nel codice di procedura penale. Scopo di questo contributo è di verificare se, e in quale misura, tale opzione ermeneutica sia compatibile con la Carta costituzionale. Nel codice di procedura penale la norma “cardine” in tema di valutazione della prova è l'art. 192, il quale, sinteticamente, dispone che:
Secondo la giurisprudenza di legittimità l'art. 192 c.p.p., nonostante la giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione per affinità alla materia penale, è inconciliabile con il procedimento di prevenzione. Cass. pen., Sez. I, 13 luglio 2018, n. 32261, afferma che l'articolo 192 c.p.p. disciplina la valutazione di prova del fatto costitutivo di reato e, come tale, è inconciliabile con il fine del procedimento di prevenzione che ha a oggetto la finalità “amministrativa” di prevenire un pericolo per se stesso, cioè presunto per “elementi di fatto”. Il controllo di motivazione del provvedimento, perciò qualificato “decreto”, consiste solo nella verifica di rispondenza degli elementi esaminati ai parametri legali che, imposti da ciascuna norma per l'applicazione della singola misura, sono vincolanti, a differenza dei liberi criteri valutativi, autorizzati dall'articolo 192 c.p.p. per la prova del fatto costitutivo di reato. Pertanto, o il decreto offre elementi e ne trae inferenza secondo parametri prestabiliti, o la sua motivazione è solo apparente. Dunque, secondo tale pronuncia, i costituti probatori nel procedimento di prevenzione devono ancora più stringenti che nel processo penale, dove l'art. 192 c.p.p. autorizza “liberi criteri valutativi”. In Cass. pen., Sez. V, 17 luglio 2018, n. 33149 si legge, invece, che gli indizi su cui si fonda il giudizio di pericolosità non devono possedere i caratteri di gravità precisione e concordanza fissati dall'art. 192 c.p.p. La lettura congiunta di tali sentenze crea disorientamento. Chiunque abbia esperienza di aule giudiziarie sa bene, che, al di là della disputa sulla natura, penale o amministrativa, delle misure di prevenzione, queste sono applicate, e “vissute”, come sanzioni penali. Infatti, nel procedimento di prevenzione sono riversati in gran copia gli atti di procedimenti penali, già definiti o in via di definizione. Allora ci si deve domandare se non sia infondato parlare di “truffa delle etichette”: si parla di sanzioni latu sensu amministrative, mentre si applicano sanzioni in toto riconducibili a quelle penali. Sul punto Cass. pen. Sez. VI, 8 giugno 2017, n. 48610 precisa che, nell'approccio ermeneutico agli istituti delle diverse legislazioni, la giurisprudenza comunitaria reputa decisiva, ai fini dell'accertamento della reale essenza giuridica, l'individuazione dei tratti sostanziali, enucleabili dalla disciplina positiva, applicando i menzionati parametri identificativi, al fine di scongiurare quella che, efficacemente, è stata definita la "truffa delle etichette", ovverosia la suggestione di ingannevoli qualificazioni nominalistiche degli stessi istituti da parte degli ordinamenti interni. La valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia
Una delle più significative ricadute dell'inapplicabilità dell'art. 192 c.p.p. al procedimento di prevenzione riguarda la valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Secondo Cass. pen., Sez. II, 15 marzo 2018, n. 20462, le chiamate in correità o in reità non devono essere necessariamente qualificate dai riscontri individualizzanti. Ancora, nel procedimento di prevenzione è sufficiente che le chiamate di correità non risultino palesemente inattendibili o smentite da elementi contrari (Cass. pen., Sez. II, 2 marzo 2018, n. 13524). Quindi, mentre nel processo penale occorre andare alla ricerca dei c.d. riscontri individualizzanti, secondo i rigorosi percorsi ermeneutici tipizzati dai giudici di legittimità, nel procedimento di prevenzione regna una situazione “di estrema vaghezza”. Ben diversa è la consistenza che deve possedere il riscontro individualizzante in sede penale: è riscontro esterno di carattere individualizzante quell'elemento che deve aggiungersi a una chiamata di reità o correità, già valutata intrinsecamente attendibile, per potere raggiungere il rango di prova idonea a dimostrare la colpevolezza dell'imputato in ordine ad un determinato fatto di reato (Cass. pen., Sez. II, 18 aprile 2018, n. 33079). Tale “divaricazione” tra procedimento penale e procedimento di prevenzione merita di essere approfondita in quanto, mentre la responsabilità penale è “presidiata” dalla Costituzione, le misure di prevenzione non vi hanno mai trovato cittadinanza. Ciò, a sommesso avviso di chi scrive, dovrebbe indurre i giudici a una maggiore prudenza. Infatti le massime sopra riportate in tema di valutazione della chiamata di correità nel procedimento di prevenzione si pongono in palese contrasto con l'art. 111 Cost. che viene a rappresentare il giusto processo nel ruolo di condizione di legittimità della funzione giurisdizionale: il Legislatore ha realizzato una sorta di incorporation rafforzativa di garanzie già codificate nel 1989 e poi ripudiate dalla svolta involutiva dei primi anni novanta, per accrescerne il grado di resistenza e renderle insensibili alle tentazioni di future revisioni legislative o giurisprudenziali. Il procedimento di prevenzione, come noto, è invece prevalentemente “cartolare”: i giudici di merito sono alquanto restii nel disporre l'audizione di testi, in particolare dei collaboratori di giustizia e degli imputati di procedimenti connessi. Ciò viene ammesso da Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2016, n. 49180: nella prassi giudiziaria, l'istruttoria ha natura prevalentemente cartolare con assegnazione di principale rilievo alle informative di polizia, ai documenti acquisiti in base a indagini patrimoniali, alle sentenze emesse in altri procedimenti ed ai verbali di prove in questi formati. La concreta esperienza giudiziaria dimostra come sia prevalente, nel procedimento di prevenzione, la “cartolarità”. Così i verbali delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia vi trovano ingresso mediante produzione documentale, anche solo delle ordinanze o delle sentenze che le contengono: ciò stride con i principi costituzionali del “giusto processo” che rinvia alla legge la disciplina dei casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita. Ciò rende alquanto “debole” l'enfasi posta sulla giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione dal momento che il proposto viene privato delle più elementari regole del giusto processo: viene infatti ritenuto pericoloso sulla scorta di indizi che neppure devono essere gravi, precisi e concordanti, nonché sulla scorta di dichiarazioni di collaboratori di giustizia che non devono essere assistite da riscontri individualizzanti, e, nella maggior parte dei casi, non sono assunte nel contraddittorio delle parti. Autonomia e indipendenza del procedimento di prevenzione
Tale discrasia tra procedimento penale e procedimento di prevenzione sembra trovare giustificazione nell'"autonomia" di quest'ultimo rispetto a quello penale, autonomia che parrebbe quasi illimitata. Si legge in Cass. pen., Sez. II, 21 febbraio 2018, n. 9914, che l'unico limite all'autonomia del giudizio di prevenzione è quello della negazione in sede penale, con pronunce irrevocabili di determinati fatti: ciò in quanto la negazione penale irrevocabile di un determinato fatto impedisce di ritenerlo esistente e quindi di assumerlo come elemento iniziale del giudizio di pericolosità sociale. Per il resto è consentito al giudice della prevenzione valutare autonomamente i fatti accertati in sede penale che non abbiano dato luogo a sentenza di condanna, in presenza di sentenze di proscioglimento per intervenuta prescrizione (limite esterno alla punibilità del fatto) lì dove il fatto risulti delineato con sufficiente chiarezza o sia comunque ricavabile in via autonoma dagli atti. Secondo Cass. pen. Sez. VI, 21 settembre 2017, n. 28825, quanto al caso della sentenza di assoluzione, è possibile un'autonoma valutazione di quegli stessi elementi indizianti ritenuti non sufficienti per un affermazione di penale responsabilità, a condizione che non ne sia stata esclusa la veridicità. In tal caso, il giudice della prevenzione dovrà dare atto in motivazione delle ragioni per cui i medesimi elementi probatori o indiziari siano sintomatici dell'attuale pericolosità del proposto. Quindi, a voler sintetizzare, il giudice di prevenzione può sovvertire l'esito assolutorio di un procedimento penale: l'importante è che motivi secondo i canoni indicati nel primo comma dell'art. 192 c.p.p. In applicazione di tali principi, Cass. pen., Sez. II, 10 agosto 2018, n. 38488 ha condiviso la decisione del giudice di merito, che aveva fondato il giudizio di pericolosità sulla base di una mera iscrizione di un procedimento penale per partecipazione qualificata ad associazione mafiosa risalente al 2002, e di un arresto, sempre intervenuto nel 2002, seguito da ordinanza di custodia domiciliare e successiva condanna per violazione della legge armi. Se può condividersi che una sentenza di condanna sia espressiva di pericolosità sociale, non altrettanto può dirsi per una mera iscrizione non sfociata in alcun riconoscimento giurisdizionale. Cass. pen., Sez. VI, 16 maggio 2018, n. 40913 ha ricondotto tale autonomia all'indipendenza dell'azione di prevenzione rispetto all'esercizio dell'azione penale (art. 29 d.lgs. 159/2011). Ne è derivata l'affermazione secondo cui il previo accertamento di fatti delittuosi in sede penale non può di per sé costituire requisito indefettibile in sede di prevenzione, ben potendosi tuttavia attribuire rilievo a siffatto accertamento, ove già effettuato, ferma restando la necessità per il giudice della prevenzione di inverare l'accertamento ai fini dell'inquadramento del soggetto in taluna delle categorie soggettive previste e nel contempo l'impossibilità di sovvertire in sede di prevenzione quell'accertamento ove di tipo assolutorio e riferito al medesimo tipo di delitto posto a base della misura di prevenzione. Il tema è particolarmente delicato, dal momento che nel procedimento di prevenzione, per formulare il giudizio di pericolosità, possono rilevare anche una mera iscrizione di notizia di reato o anche un'assoluzione intervenuta nel procedimento penale. Proprio il ribaltamento di un esito assolutorio che può intervenire nel procedimento di prevenzione pone ulteriori interrogativi. Sembra quasi che il procedimento di prevenzione sia stato trasformato in una sorta di giudizio di revisione di giudizi penali o, più efficacemente, in una “via di fuga” dal processo penale. Si pensi al caso dell'imputato assolto in un procedimento penale perché l'unica fonte di accusa nei suoi confronti era costituita da propalazioni di un collaboratore di giustizia non suffragate da riscontri individualizzanti. In questo caso, la formula assolutoria non può che fare riferimento all'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p. L'asserita autonomia del procedimento penale, però, può consentire al giudice di prevenzione di ribaltare tale giudizio assolutorio. E così il proposto, già assolto in sede penale, può diventare “pericoloso” per il giudice di prevenzione sulla base di quelle stesse dichiarazioni che il giudice penale ha ritenute insufficienti per giungere ad una pronuncia di condanna. Cfr. in tal senso Cass. pen., Sez. V, 15 marzo 2018, n. 17946: nel giudizio di prevenzione, considerata l'autonomia del procedimento rispetto al giudizio di merito, la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri prescritti dall'art. 192 c.p.p., né le chiamate in correità o in reità devono essere necessariamente sorrette da riscontri individualizzanti. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che non fosse di ostacolo all'emissione della misura di prevenzione la circostanza che il ricorrente fosse stato assolto nel processo di merito inerente all'intestazione fittizia di beni, per carenza di prova, in applicazione dei principi di cui all'art. 192 c.p.p.). Ci si può, e deve, domandare se tali principi di diritto rispondano all'esigenza di coerenza dell'ordinamento giuridico, espressione del basilare principio della certezza del diritto, tanto più che da quella dichiarazione di pericolosità affermata in sede di prevenzione ne potranno discendere gravi conseguenze patrimoniali, insperabili in sede penale. Ad avviso di chi scrive, una simile opzione non può essere aprioristicamente esclusa, purchè sia il Legislatore ad assumersene la responsabilità, sancendo in un'apposita disposizione di legge il principio dell'inapplicabilità dell'art. 192 c.p.p. al procedimento di prevenzione, in modo da consentire al giudice delle leggi il necessario, ed opportuno, vaglio di costituzionalità della norma. Va, in ogni caso, dato atto al giudice di legittimità di aver posto rimedio ad alcune “torsioni” che si possono rinvenire nella giurisprudenza di merito. Una recente vicenda giudiziaria consente di “toccare con mano” cosa significhi l'eccessiva dilatazione della nozione di autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale. Il proposto veniva sottoposto alla misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e a quella patrimoniale della confisca in quanto ritenuto evasore fiscale abituale con rilevanza della condotta ai fini previsti dall'art. 1 del d.lgs. 159/2011. Ciò sulla base dei precedenti di polizia (denunzie per reati tributari, bancarotta, truffa, intervenute tra il 2010 e il 2012), di condanne per reati depenalizzati (emissione assegni senza provvista) e per il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali, del certificato dei carichi pendenti da cui si desumeva, in particolare, l'esistenza di un'iscrizione per dichiarazione infedele dei redditi. Veniva in tal senso valorizzato un verbale ispettivo redatto dalla Guardia di finanza, da cui emergeva la condotta di evasione relativa a due compagini societarie riconducibili al proposto. La decisione dei primi giudici è stata ribaltata da Cass. pen., Sez. I, 31 luglio 2018, n. 37044. I giudici di legittimità hanno ricordato che, dovendosi previamente individuare i delitti di natura tributaria, il giudice della prevenzione era tenuto a realizzare una ricognizione precisa, dato che l'ordinamento tributario prevede diverse figure di illecito fiscale che vanno dalla sanzione amministrativa, alla contravvenzione, al delitto e solo in quest'ultimo caso può dirsi legittima l'iscrizione del soggetto nella categoria criminologica della pericolosità generica. Ciò ha comportato la rilevazione di un primo vizio della decisione di merito, dal momento che, ferma restando la possibile “iscrizione” del soggetto dedito ad attività di evasione fiscale con carattere di abitualità e destinazione, anche mediata, al soddisfacimento dei bisogni nella «stringa normativa» di cui all'art. 1, comma 1, lett. b) cod. antimafia, ciò può avvenire nella misura in cui le attività in questione siano riconoscibili e dimostrate quali “delitti”. Invece nella decisione impugnata, si affermava la possibile rilevanza, a tal fine, di illeciti amministrativi. Altro vizio è stato riscontrato nelle modalità realizzative di un accertamento che deve possedere il carattere ineliminabile della giurisdizionalità. In particolare è stato indicato quale possa essere il confine della “autonomia” dell'azione di prevenzione (sulla base dei contenuti dell'art. 29 cod. antimafia norma che ribadisce l'assenza di pregiudizialità necessaria), azione di certo possibile anche in assenza di una decisione (o di un giudicato) penale, ma accogliibile lì dove il giudice della prevenzione, con effettivo percorso di apprezzamento critico dei dati disponibili, realizzi una qualificazione di “illiceità penale” dei comportamenti del soggetto proposto e ne apprezzi la continuità. Nel caso in esame, il giudice della prevenzione ha recepito, senza alcuna previa elaborazione ed analisi critica dei criteri utilizzati dalla polizia amministrativa, degli atti redatti dalla Guardia di Finanza che hanno dato luogo, per quanto espresso nel provvedimento, a delle iscrizioni a ruolo. Tale metodologia, secondo il Supremo Collegio, rifluisce nel vizio di motivazione “apparente”, posto che è risultata del tutto mancante l'analisi autonoma del corretto metodo seguito in sede di accertamento amministrativo, così come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità lì dove si tratti di valutare la sussistenza dell'illecito di natura tributaria. E così è stato affermato che, proprio in ragione della possibile “autonomia” dell'azione di prevenzione, lì dove vi sia una semplice notizia di reato (o un esercizio dell'azione penale) il principio di autonomia va coniugato con quello della responsabilità argomentativa, nel senso che il giudice della prevenzione è tenuto ad elaborare il dato dimostrativo nella direzione della “valutazione incidentale” di sussistenza del reato e non può certo richiamare per relationem gli atti della polizia tributaria. Tale dovere, in effetti, è attributo connaturale all'esercizio della giurisdizione, inteso come momento di apprezzamento cognitivo autonomo dei dati fattuali rilevanti, e rappresenta la proiezione del principio fondamentale di soggezione di ogni giudice alla sola legge (art. 101, comma 2, Cost.). Si deve ringraziare il Supremo Collegio per aver eretto un tale argine contro le “torsioni” poste in essere dai giudici di merito. Questo approdo ermeneutico ha trovato il suo più significativo, e recente, approdo in Cass. pen., Sez. I, 3 ottobre 2018, n. 43826. La sentenza ha annullato, su conforme richiesta della procura generale, un decreto di confisca che aveva ricostruito in via incidentale la pericolosità sociale dei proposti, con motivazione ritenuta “apparente” dai giudici di legittimità. Già i giudici di secondo grado avevano ridimensionato in modo alquanto significativo l'originaria, ingente, confisca disposta in primo grado, ma anche tale decisione non ha resistito ai giudici di legittimità, che, per addivenire all'annullamento, hanno fissato i seguenti principi di diritto: a) nel giudizio cognitivo di prevenzione, l'applicazione delle previsioni di legge di cui all'art. 1 comma 1 lett. a), b) cod. antimafia richiede adeguata motivazione circa la esistenza pregressa delle condotte delittuose commesse dal proposto, aderenti ai contenuti della previsione astratta, declinata, quest'ultima, in termini tassativi, trattandosi della base logica e normativa del giudizio di pericolosità soggettiva; b) il giudice della misura di prevenzione può fare riferimento, in tale parte della motivazione, a provvedimenti emessi in sede penale che abbiano affermato (anche in via provvisoria) la ricorrenza dei delitti in questione, esprimendo argomentata condivisione e confrontandosi con gli argomenti contrari introdotti dalla difesa; c) il giudice della misura di prevenzione può ricostruire in via totalmente autonoma gli episodi storici in questione, anche in assenza di procedimento penale correlato, in virtù della assenza di pregiudizialità e della possibilità di azione autonoma di prevenzione (art. 29 cod. antimafia); d) il giudice della misura di prevenzione è tuttavia vincolato a recepire l'eventuale esito assolutorio non dipendente dall'applicazione di cause estintive, sul fatto posto a base del giudizio di pericolosità, prodottosi nel correlato giudizio penale (art. 28 cod. antimafia) con le sole eccezioni che seguono:
Ma la sentenza è andata ancora oltre. In primo luogo ha ribadito che le misure di prevenzione rientrano in una accezione lata di provvedimenti di portata afflittiva il che impone di ritenere applicabile, in tale materia, il generale principio di tassatività e determinatezza dei contenuti della fattispecie astratta. Ha poi rammentato che il processo di prevenzione è un procedimento teso ad accertare, in via principale o incidentale, l'esistenza o meno delle manifestazioni di pericolosità di un soggetto, non essendosi trasformato (come avvenuto in altri settori dell'ordinamento, con l'emanazione del d.lgs. 231/2001 in tema di responsabilità “da reato”) in un processo teso ad accertare la responsabilità di persone giuridiche o di gruppi associativi in quanto tali. I beni, anche rappresentati da quote di partecipazione al capitale sociale, vengono in rilievo solo in quanto correlati alle manifestazioni di pericolosità delle persone fisiche e sono oggetto di sequestro e confisca esclusivamente in relazione alla loro componente di “valore presente” nel patrimonio, o nella disponibilità di fatto, di dette persone fisiche, ritenute pericolose. In ipotesi di investimento collettivo va dunque realizzata non già un'affermazione indistinta di riferibilità dei beni ad un “gruppo di fatto”, quanto una scissione delle quote riferibili a ciascuno dei soggetti pericolosi. In conclusione
Se il giudice di legittimità è costretto ad assumersi tali responsabilità, ciò avviene per la colpevole inerzia del Legislatore, che, pur essendo rimasto silente circa la valutazione della prova nel procedimento di prevenzione, ha introdotto l'art. 29 cod. antimafia secondo cui l'azione di prevenzione può essere esercitata anche indipendentemente dall'esercizio dell'azione penale. Si tratta di una norma che si presta ad un eccessiva dilatazione interpretativa, per quanto sopra esposto, con evidenti profili di incostituzionalità. In primo luogo, l'azione di prevenzione, come già rilevato, non trova “copertura” costituzionale. E soprattutto l'art. 112 Cost. prevede per il pubblico ministero l'obbligo di esercitare l'azione penale. Se il pubblico ministero deve esercitare l'azione penale in presenza di fatti costitutivi di reato, allora non si comprende entro quali limiti possa esercitarsi l'azione di prevenzione indipendentemente da quella penale: l'azione di prevenzione non può, infatti, tradursi in un modo surrettizio di esercizio dell'azione penale. Non pare allora accettabile che in sede di prevenzione possa essere ricostruita alternativamente la responsabilità penale. Pare indispensabile che il Legislatore intervenga a delineare in termini netti i rapporti tra azione di prevenzione e azione penale: l'interpretazione attualmente prevalente in sede di legittimità, per essere rispettosa della separazione dei poteri (suggerita da Montesquieu, Spirito delle leggi, 1748), dovrebbe ricevere avallo e riconoscimento in una norma suscettibile del vaglio di costituzionalità. Diversamente non può che ribadirsi il rimprovero formulato dalla Grande Camera della Corte Edu nel caso De Tommaso contro Italia, che ha espressamente censurato l'eccesso di discrezionalità del Giudice italiano in materia di prevenzione, tale da non garantire una effettiva protezione contro quelle ingerenze arbitrarie che gli stessi giudici di legittimità hanno sanzionato. |