Verso uno statuto unitario delle confische?

Ferdinando Brizzi
21 Giugno 2019

Districarsi tra la congerie di norme che disciplinano l'azione ablativa dello Stato attraverso la c.d. confisca allargata, da un lato, e quelle che disciplinano la confisca in sede di prevenzione, dall'altro, risulta essere sempre più difficoltoso: ciò non solo per il comune cittadino, ma anche per il più esperto giurista. Emblematica in tal senso è la vicenda dell'estensione delle misure ablative ai reati contro la Pubblica Amministrazione...
Intorduzione

Districarsi tra la congerie di norme che disciplinano l'azione ablativa dello Stato attraverso la c.d. confisca allargata, da un lato, e quelle che disciplinano la confisca in sede di prevenzione, dall'altro, risulta essere sempre più difficoltoso: ciò non solo per il comune cittadino, ma anche per il più esperto giurista.

Emblematica in tal senso è la vicenda dell'estensione delle misure ablative ai reati contro la Pubblica Amministrazione: fino al 2000 tali reati erano pressoché ignoti al giudice delle misure patrimoniali, ma da quella data in poi si è assistito a una escalation culminata nell'equiparazione degli indiziati della commissione dei reati contro la Pubblica Amministrazione, o quanto meno della maggior parte di essi, agli indiziati di appartenenza ad associazione mafiosa, avvenuto dapprima in sede penale nel 2006, e poi in sede di prevenzione nel 2017.

La proliferazione di forme diverse di azione ablativa è suscettibile di condurre a risultati in grado di disorientare l'interprete.

Può infatti accadere che, mentre in sede penale si addivenga a un rigetto della richiesta del provvedimento di confisca allargata, viceversa, in sede di prevenzione, venga disposta la confisca di quei medesimi beni per cui il giudice penale aveva ritenuto l'insussistenza dei presupposti.

Ma potrebbe anche darsi la situazione inversa.

La giustificazione che viene addotta in giurisprudenza rispetto a tale discrasia si fonda su un'asserita differenza dei presupposti applicativi delle due procedure.

Ciò è stato recentemente ribadito da Cass. pen. Sez. V, 26 ottobre 2018, n. 11242, secondo cui il rigetto della confisca prevista dal d.l. 306/1992, art. 12-sexies (convertito in legge, con modificazioni, dalla l. 356/1992; ora disciplinata dall'art. 240-bis c.p. a seguito del d.lgs. 21/2018) dei beni non assume alcuna rilevanza in ordine al procedimento di prevenzione, attesa la diversità sostanziale della procedura di prevenzione per ampiezza temporale ed analisi dei presupposti: se per entrambe è previsto che i beni da acquisire si trovino nella disponibilità diretta o indiretta dell'interessato e che presentino un valore sproporzionato rispetto al reddito da quest'ultimo dichiarato ovvero all'attività economica dal medesimo esercitata, tuttavia solo per la confisca di prevenzione è prevista la possibilità di sottrarre al proposto i beni che siano frutto di attività illecita ovvero ne costituiscano il reimpiego.

In tale sentenza si parla, dunque, di diversità sostanziale tra le due misure: obiettivo di questo contributo è di verificare se le conclusioni cui sono pervenuti i supremi giudici possano trovare riscontro nell'evoluzione legislativa.

Il dato normativo di riferimento

Il dato normativo di riferimento non deve essere colto in una prospettiva statica, ma dinamica, nel suo evolversi: solo così se ne può cogliere una dimensione “di sistema” e in tal guisa è possibile scorgere un lento, ma progressivo e costante, processo di avvicinamento delle due misure ablative.

Tale processo parte da lontano: occorre ripercorrerne le tappe.

L'art. 322-ter c.p. L'art. 3 della l. 29 settembre2000, n. 300, ha introdotto l'art. 322-tercodice penale, ovvero un'ipotesi speciale di confisca obbligatoria, che si distingue dalla misura di sicurezza generale ex art. 240 c.p. per l'obbligatorietà del profitto del reato.

In particolare, è stato previsto che nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320 del codice penale, anche se commessi dai soggetti indicati nell'articolo 322-bis, primo comma, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. Nel caso di condanna, o di applicazione della pena a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per il delitto previsto dall'articolo 321 c.p., anche se commesso ai sensi dell'articolo 322-bis, secondo comma c.p., è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e, comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio o agli altri soggetti indicati nell'articolo 322-bis, secondo comma c.p..

Dietro l'introduzione, con l. 29 settembre 2000, n. 300, dell'art. 322-ter c.p. emerge chiara l'idea, non ingiustificata, che certi delitti contro la P.A. costituiscano espressione di una criminalità incentrata sul profitto. In effetti, i reati richiamati nella disposizione (da 314 a 321 e 322-bis c.p.) ruotano tutti su condotte illecite nella cui tipicità è, in qualche modo, implicito l'ottenimento, o quantomeno il perseguimento, di un indebito profitto, o vantaggio, privato a scapito della P.A.

Ragionevole, pertanto, da un punto di vista politico-criminale, la scelta di rendere obbligatoria in questi casi la confisca del profitto o del prezzo del reato, o del loro equivalente, in modo tale che la minaccia della risposta penale a questi tipi di reato risulti “sintonizzata” (anche) sulle ragioni – di profitto privato – per cui li si commette.

Si tratta, peraltro, di una scelta indirizzata (ed entro certi termini imposta) da accordi internazionali alla cui stipulazione ha preso parte anche l'Italia: l'art. 3, 3° co., L. 29.9.2000, n. 300, Convenzione OCSE, infatti, obbligava le Parti all'adozione di «misure necessarie per assicurare che lo strumento e i prodotti della corruzione di un pubblico agente straniero o beni di valore equivalente a quello di tali prodotti possano essere oggetto di sequestro o di confisca» (e un'analoga indicazione era contenuta nell'art. 5, Prot.int. 19.6.1997, secondo Protocollo alla Convenzione PIF).

La legge 296/2006. La legge 296/2006 ha successivamente operato la trasposizione “in massa” dei reati contro la Pubblica amministrazione suscettibili di provocare l'ottenimento, o quantomeno il perseguimento, di un'indebita accumulazione patrimoniale, nel “catalogo” di quelli legittimanti la confisca allargata, in allora disciplinata dall'art. 12-sexies (convertito in legge, con modificazioni, dalla l.356 del 1992), fino a quel momento applicata ai soli reati di criminalità organizzata.

La legge 161/2017. Inevitabile, a questo punto, il passaggio successivo: l'inclusione dei reati contro la Pubblicazione tra quelli che giustificano l'applicazione di misure di prevenzione personali e patrimoniali ad opera della legge n. 161 del 2017, che ha riformato il cd. Codice antimafia.

Sono stati, infatti, aggiunti tra i soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali, art. 4:

  • i soggetti indiziati del delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art. 640-bis c.p. (cfr. nuova lett. i-bis dell'art. 4), reato di cui questa stessa riforma provvede a modificare il quadro edittale;
  • gli indiziati di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di numerosi reati contro la pubblica amministrazione, e in particolare di taluno dei delitti di cui agli articoli 314 comma 1, c.p. (peculato), art. 316, c.p. (peculato mediante profitto dell'errore altrui), art. 316-bis, c.p. (malversazione a danno dello Stato), 316-ter (indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato), art. 317, c.p. (concussione), art. 318, c.p. (corruzione per l'esercizio della funzione), art. 319, c.p. (corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio), art. 319-ter, c.p. (corruzione in atti giudiziari), art. 319-quater, c.p. (induzione indebita a dare o promettere utilità), art. 320, c.p. (corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio), art. 321, c.p. (pene per il corruttore), art. 322, c.p. (istigazione alla corruzione) e art. 322-bis c.p. (cfr. nuova lett. i-bis dell'art. 4).

L'indizio della commissione di tali reati riconduce dunque il proposto tra i portatori di cd. pericolosità qualificata, al pari degli indiziati di appartenenza ad associazione mafiosa, ad essi volutamente equiparati.

Ne discende, ex art. 16 d.lgs. 159/2011, la possibilità che costoro vengano assoggettati anche alle misure di prevenzione patrimoniali.

Secondo autorevoli commentatori, la portata pratica dell'innovazione introdotta in Italia dalla riforma del 2017 appare decisamente modesta. Infatti la condotta associativa contrassegnata dall'abituale commissione dei predetti reati contro la pubblica amministrazione, produttivi di reddito illecito, risultava già riconducibile alle “vecchie” ipotesi di pericolosità generica descritte dall'art. 1, lett. a) (ora attinta da declaratoria di illegittimità costituzionale a seguito di Corte costituzionale 24/2019) e b), “sopravvissuta” alla pronuncia del Giudice delle leggi da ultimo richiamata.

Ne consegue che la sola situazione nella quale sembra concretamente essersi verificato un effetto estensivo dell'applicabilità delle misure di prevenzione per effetto della nuova fattispecie è quella del soggetto che, pur essendo partecipe di una organizzazione avente nel proprio programma la commissione di una serie indeterminata di delitti contro la pubblica amministrazione non si sia impegnato in modo reiterato nella realizzazione di tali reati.

In sostanza, la fattispecie di pericolosità delineata dalla seconda parte della lett. l-bis), più che apparire come un aspetto di novità, risulta essere la positivizzazione normativa di un approdo cui dottrina e giurisprudenza erano già pervenute.

Un ampliamento dell'ambito di applicazione delle misure di prevenzione si è invece verificato in relazione in relazione all'ipotesi della truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche per la quale le misure di prevenzione sono ora applicabili a prescindere del requisito dell'abitualità, in virtù della prima parte della lett. l-bis).

Tuttavia, se tale “norma manifesto”, priva di effettive ricadute pratiche, viene collocata in una prospettiva sistematica, e di evoluzione del quadro normativo, allora se ne può osservare la piena continuità con la sopra ricordata riforma avviata dalla l. 29 settembre 2000, n. 300.

Tanto più che la legge 161 del 2017 è andata oltre, apportando significative modifiche anche alla disciplina della confisca c.d. allargata di cui all'art. 12-sexies del d.l. 306/1992 (conv. dalla l. 356/1992), ora disciplinata dall'art. 240-bis c.p. a seguito del d.lgs. 21 del 2018, istituto di cui da tempo dottrina e giurisprudenza riconoscono una sostanziale affinità di ratio rispetto alla confisca prevista quale misura di prevenzione.

Affinità che non può che dirsi ulteriormente confermata dal tenore della novella legislativa del 2017.

Il nuovo testo dell'art. 240-bis c.p. e dell'art. 24 d.lgs. 159/2011. Il d.lgs. 01 marzo 2018, n. 21 si è limitato a ricondurre nell'alveo del codice penaleil testo dell'art. 12-sexies d.l. 306/1992 (conv. dalla l. 356/1992) come modificato proprio dalla legge 161 del 2017.

È stato così introdotto l'art. 240-bis c.p. inserito dall'art. 6 del d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21 concernente Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell'articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103.

Il testo che discende dalla riforma, anche in questo caso, altro non è se non l'ennesima positivizzazione dell'elaborazione giurisprudenziale che trova la sua massima espressione nella nota sentenza Repaci, Cass. pen., Sez. unite, 29 maggio 2014, n. 33451.

Due le massime che rilevano in questa sede:

  • in tema di confisca di prevenzione di cui all'art. 2-ter legge 31 maggio 1965, n. 575 (attualmente art. 24 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159), la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del proposto non può essere giustificata adducendo proventi da evasione fiscale, atteso che le disposizioni sulla confisca mirano a sottrarre alla disponibilità dell'interessato tutti i beni che siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, senza distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso;
  • la confisca di prevenzione e la confisca cosiddetta “allargata”, di cui all'art. 12-sexiesd.l. 8 giugno 1992, n. 306 convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1992, n.356, presentano presupposti applicativi solo in parte coincidenti, atteso che per entrambe è previsto che i beni da acquisire si trovino nella disponibilità diretta o indiretta dell'interessato e che presentino un valore sproporzionato rispetto al reddito da quest'ultimo dichiarato ovvero all'attività economica dal medesimo esercitata, tuttavia solo per la confisca di prevenzione è prevista la possibilità di sottrarre al proposto i beni che siano frutto di attività illecita ovvero ne costituiscano il reimpiego.

La riforma del 2017 della confisca allargata, culminata nell'introduzione nel 2018 dell'art. 240 bis c.p., ha cristallizzato tale autorevole posizione giurisprudenziale statuendo che: in ogni caso il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell'evasione fiscale, salvo che l'obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge.

A questo punto risulta sempre più difficile cogliere sostanziali differenze tra le due forme di confisca.

Disorientamenti giurisprudenziali

Nella più recente giurisprudenza di legittimità tale avvicinamento pare essere stata colto, sia pure solo in parte, da Cass. pen. Sez. I, 28 febbraio 2018, n. 16122, in tema di applicazione della confisca “allargata” ai reati contro la Pubblica Amministrazione.

La lettura della sentenza, cui si rinvia, offre piena conferma all'assunto di partenza: la moltiplicazione di procedimenti e l'applicazione di forme diverse di misure ablative ingenerano confusione anche nel giurista più esperto, costretto ad assumere le vesti dello “slalomista” tra gli stretti “paletti” imposti dagli artt. 322-ter c.p., 12-sexies/240-bis, 24 d.lgs. 159/2011, per di più districandosi tra essi nelle diverse sedi di cognizione ed esecuzione.

Elementi a favore della sovrapponibilità. I giudici di legittimità colgono significativi elementi comuni alle due forme di ablazione.

Ricordano, invero, che la condanna (anche mediante sentenza di applicazione di pena pattuita) per la commissione dei delitti nominativamente elencati dalla norma costituisce solo il presupposto necessario, ma non sufficiente, per disporre la confisca speciale obbligatoria in discorso: la presunzione iuris tantum dell'origine illecita dei beni del condannato sorge non per effetto della mera condanna, ma anche dall'accertamento – con onere della relativa prova a carico del pubblico ministero – della sproporzione tra tali beni e il reddito dichiarato o le attività economiche del condannato stesso, senza che si debba ricercare alcun nesso di derivazione tra i beni confiscabili ed il reato per cui è stata pronunciata condanna, e neppure tra i medesimi beni e una più generica attività criminosa del condannato. Tale sproporzione, che non consiste in una qualsiasi discrepanza tra guadagni e possidenze, ma in uno squilibrio incongruo e significativo, deve essere verificata con riferimento al momento dell'acquisizione dei singoli beni.

Ma tale presunzione, si legge nella sentenza, opera con riferimento alla confisca allargata secondo le medesime regole operanti nella confisca di prevenzione, ed in particolare essa resta circoscritta in un ambito di cosiddetta “ragionevolezza temporale”: ciò significa che il momento di acquisizione del bene non deve risultare talmente lontano dall'epoca di commissione del “reato spia” da rendere ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da una attività illecita, sia pure diversa e complementare rispetto a quella per cui è intervenuta condanna.

I giudici di legittimità hanno cura di precisare espressamente che si tratta della stessa delimitazione temporale che Cass. pen., Sez. Unite, 26 giugno 2014, Spinelli, Rv. 262602, ha affermato operante in riferimento alla misura, affine a quella in esame, della confisca di prevenzione antimafia, già prevista dalla l. 575 del 1965, art. 2-ter e oggi disciplinata dal d.lgs. 159 del 2011, art. 24 (codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), anch'essa imperniata sull'elemento della sproporzione tra redditi e disponibilità del soggetto e trovante un limite temporale nella stessa pericolosità sociale del soggetto, presupposto necessario per la sua applicazione.

Per altro, la sentenza in commento richiama espressamente Corte Cost., sent. n. 33 del 2018, secondo cui la tesi della ragionevolezza temporale risponde «all'esigenza di evitare una abnorme dilatazione della sfera di operatività dell'istituto della confisca “allargata”, il quale legittimerebbe altrimenti – anche a fronte della condanna per un singolo reato compreso nella lista – un monitoraggio patrimoniale esteso all'intera vita del condannato”; tale risultato “rischierebbe di rendere particolarmente problematico l'assolvimento dell'onere dell'interessato di giustificare la provenienza dei beni (ancorchè inteso come di semplice allegazione), il quale tanto più si complica quanto più è retrodatato l'acquisto del bene da confiscare l-bis; in tale prospettiva, “la fascia di “ragionevolezza temporale”, entro la quale la presunzione è destinata ad operare, andrebbe determinata tenendo conto anche delle diverse caratteristiche della singola vicenda concreta e, dunque, del grado di pericolosità sociale che il fatto rivela agli effetti della misura ablatoria”.

Non può sfuggire all'interprete che la Corte costituzionale, evocando “il grado di pericolosità sociale” del fatto per valutare l'applicabilità o meno della confisca allargata, introduce un ulteriore elemento che fa propendere per la sovrapponibilità delle due misure.

Tale tesi acquisisce ancor maggior vigore dal momento che i giudici di legittimità svolgono un'importante precisazione circa la presunzione iuris tantum dell'origine illecita dei beni del condannato dal momento che affermano: si presume “che il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone”.

Tale puntualizzazione viene direttamente ricavata dalla motivazione di Corte Cost. sent. n. 33 del 2018.

In tal guisa, anche per quanto concerne la cd. confisca allargata, pare potersi affermare che il presupposto soggettivo vada riferito alla cd. “biografia criminale” del condannato, tale che ne sia derivata un'ingiustificata accumulazione economica: presunzione da accertarsi giudiziariamente in sede di prevenzione, in sede penale addirittura presunta, a voler seguire il ragionamento dei giudici.

Elementi di (presunta) difformità. Dopo che i giudici di legittimità hanno evidenziato questi elementi di certa sovrapponibilità, poi tornano a riaffermare che le due forme di ablazione presenterebbero elementi di presunta differenziazione.

Infatti nella sentenza si legge che la confisca c.d. “allargata” ha natura di misura di sicurezza patrimoniale “atipica” (premesso che la confisca in discorso è tipica in quanto prevista dalla legge che, però, non la qualifica espressamente come misura di sicurezza, l'aggettivo è dalla giurisprudenza di legittimità utilizzato per distinguere i presupposti di applicazione del provvedimento previsto dalla disposizione di legge speciale da quelli propri della tradizionale confisca delineata dall'art. 240 c.p.), in quanto prescinde da collegamento pertinenziale con il reato per la cui commissione è stata inflitta condanna dei beni che ne costituiscono l'oggetto e dall'epoca del relativo acquisto, anteriore ovvero successivo alla commissione del reato medesimo (cfr., sul punto: Cass. pen., Sez. Unite, n. 920/2003, Montella, cit.; Cass. pen., Sez. I, n. 10756/2009, Pelle, cit.; Cass. pen., Sez. VI, n. 22020/2011, Notarangelo; Cass. pen, Sez. V, n. 19358/2013, Rao, Rv. 255381); tenuto conto, in particolare, della sua applicabilità sulla base dei presupposti della condanna per le tipologie di reato più gravi ed allarmanti e della sproporzione dei beni rispetto al reddito dichiarato o ai proventi dell'attività economica svolta, dell'intento di contrastare forme di accumulazione di ricchezza illecita per impedire un loro futuro utilizzo nella commissione di ulteriori comportamenti criminosi, l'istituto esplica una funzione preventiva e mantiene le caratteristiche proprie della misura di sicurezza patrimoniale di diritto speciale.

Dopo questa affermazione che sembrerebbe vieppiù rafforzare la tesi della coincidenza dei presupposti applicativi delle due misure ablative, la Cassazione ribadisce che esse presentano tuttavia presupposti applicativi solo in parte coincidenti atteso che per entrambe è previsto che i beni da acquisire si trovino nella disponibilità diretta o indiretta dell'interessato e che presentino un valore sproporzionato rispetto al reddito da quest'ultimo dichiarato ovvero all'attività economica dal medesimo esercitata; tuttavia solo per la confisca di prevenzione è prevista la possibilità di sottrarre al proposto i beni che siano frutto di attività illecita ovvero ne costituiscano il reimpiego (così, Cass. pen., Sez.Unite, n. 33451/2014, Repaci, Rv. 260247, che ha precisato «che la finalità di impedire l'utilizzo per realizzare ulteriori vantaggi (non necessariamente reati) – coerente con i profili economici della sostanza della prevenzione – ben si distingue dalla finalità propria di una misura di sicurezza atipica che comunque, attraverso l'ablazione, mira principalmente ad impedire la commissione di nuovi reati l-bis).

Tale diversità di struttura delle due fattispecie giustificherebbe, ad avviso dei supremi giudici, una diversità di procedimenti per l'adozione, rispettivamente, della misura di prevenzione reale, disgiunta da quella personale, e della confisca c.d. "allargata" da parte del giudice dell'esecuzione penale quando sul punto non abbia provveduto quello di cognizione (v. Corte Cost., sent. n. 106 del 2015).

Vero è che la confisca allargata oggetto della pronuncia in commento, in ragione del tempo in cui venne emesso il decreto confermato in sede di opposizione, era sottoposta alla disciplina sostanziale e processuale contenuta nel d.l. 306 del 1992, art. 12-sexies, convertito, con modificazioni, nella l.356 del 1992, nel testo vigente prima delle modificazioni a tale articolo recate dalla l.161 del 2017, art. 31, e di ciò danno atto gli stessi giudici: tuttavia, a sommesso avviso di chi scrive, la sentenza in commento costituisce “un'occasione perduta” per prendere atto dell'intervenuta modifica e di tutte le implicazioni che essa comporta, fornendone autorevole interpretazione.

Ciò a fronte delle cospicue, e recenti, osservazioni di attenta dottrina che ha parlato di accostamento “sempre più pervasivo tra l'intervento in rem di tipo prevenzionale a quello di matrice penale”.

In conclusione

A ben vedere, una sostanziale differenza tra confisca di prevenzione e confisca allargata sussiste effettivamente: solo per le misure di prevenzione il legislatore ha previsto le forme attenuate di ablazione dell'amministrazione giudiziaria e del controllo giudiziario.

Tra le novità più significative introdotte dalla l.161 del 2017 vi è stata, infatti, la possibilità di adottare strumenti di “bonifica” aziendale in alternativa a quelli ablatori.

Anzitutto una riscrittura dell'art. 34 d.lgs. 159/2011 vigente con l'effetto di ridare slancio e profondità al vecchio istituto della “Sospensione temporanea dall'esercizio di attività imprenditoriali” introdotto nel 1992 e poi ribattezzato nel 2011 “Amministrazione giudiziaria” il cui presupposto è la ricorrenza di “sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di determinate attività economiche a) sia direttamente o indirettamente sottoposto alle condizioni di intimidazione e assoggettamento previste dall'art. 416-bis c.p. o b) possa agevolare l'attività di persone indiziate di reati riconducibili alla criminalità organizzata”.

Ma la vera novità è rappresentata soprattutto dall'introduzione del nuovo istituto del “controllo giudiziario” di cui all'art. 34-bis del novellato codice antimafia.

Esso trova la sua ratio nell'obiettivo di promuovere il recupero delle attività economiche e delle imprese infiltrate dalle organizzazioni criminali, nell'ottica di bilanciare in maniera più equilibrata gli interessi che si contrappongono in questa materia.

Secondo la relazione finale della Commissione Fiandaca che ne ha teorizzato la figura, costituisce una misura innovativa che non determina lo “spossessamento gestorio” dell'azienda bensì configura, per un periodo minimo di un anno e massimo di tre, una forma meno invasiva di intervento nella vita dell'impresa, intervento che consiste in una “vigilanza prescrittiva” condotta da un commissario giudiziario nominato dal tribunale, al quale viene affidato il compito di monitorare “dall'interno dell'azienda” l'adempimento di una serie di obblighi di compliance imposti dall'autorità giudiziaria.

Cass. pen. Sez. VI, 4 aprile 2019, n. 22889, ha ricordato che i provvedimenti di amministrazione e controllo giudiziario, ove ne ricorrono i presupposti, possono essere adottati dal tribunale, anche di ufficio, su proposta dei soggetti di cui all'art. 17 del decreto. Inoltre il tribunale può procedere di ufficio – ai sensi dell'art. 34, comma 6, d.lgs. cit. – all'applicazione della misura del controllo giudiziario dell'impresa nel caso in cui venga revocata quella dell'amministrazione giudiziaria, previsione, questa, che ha potenziato le possibilità applicative dell'istituto in analisi.

Ciò è espressione della minor invasività possibile nell'agire imprenditoriale, nei casi, appunto, ove le attività di “bonifica” possano essere completate senza alcuno spossessamento gestorio e risulti sufficiente un affiancamento da parte dell'autorità giudiziaria.

Le previsioni di cui agli artt. 34 e 34-bis d.lgs. 159 – contenute nel capo V – integrano dunque il catalogo delle misure di prevenzione adottabili dall'autorità giudiziaria e la loro disciplina risulta dalla combinazione delle disposizioni specializzanti, espresse dai richiamati d.lgs. 159 del 2011, artt. 34 e 34-bis, e da quelle previste, per il procedimento di applicazione, quanto ai presupposti sostanziali ed al sistema di impugnazione, dal Titolo II del predetto d.lgs. 159/2011

In tal modo, il legislatore della novella del 2017 ha inteso introdurre una sorta di progressività nell'applicazione delle misure ablative: ciò sembra comprovato dal fatto che il Tribunale, anche ove investito della richiesta di sequestro finalizzato alla confisca, può disporre, anche d'ufficio, le forme più attenuate di intervento patrimoniale.

Se così è, appare davvero incomprensibile che amministrazione giudiziaria e controllo giudiziario possano essere disposti solo in sede di prevenzione: anche il giudice penale dovrebbe disporre di forme meno invasive di intervento nella vita dell'impresa, volte a promuovere il recupero delle attività economiche e delle imprese infiltrate dalle organizzazioni criminali.

È forse giunto il momento di ricondurre ad unità le diverse forme ablative presenti nel nostro ordinamento, in modo da impedire inutili duplicazioni e, soprattutto, ricondurre la confisca a ultima ratio dell'intervento ablativo, da disporsi solo per i casi più gravi.

Non può che condividersi quanto sostenuto da un'autorevole commentatrice con riferimento a questi strumenti di “bonifica” aziendale: pensati come istituti flessibili, il controllo giudiziario e l'amministrazione giudiziaria realizzano il progressivo affinamento dello “strumentario” legislativo della prevenzione patrimoniale, consentono di graduare il contrasto alle infiltrazioni mafiose nell'economia lecita, offrono concreta applicazione del principio di proporzione, adeguatezza e minor invasività delle misure cautelari, principio consolidato in tema di misure cautelari personali penali, ora riconosciuto anche in materia di prevenzione patrimoniale, in funzione di salvaguardia del libero esercizio dell'impresa.

Guida all'approfondimento

A. BALSAMO, in Commentario Breve al codice antimafia e alle procedure di prevenzione, di G. Spangher e A. Marandola, Milano, 2019

F. BALATO, ibidem

F. BRIZZI, La prosecuzione dell'attività nelle imprese sequestrate e confiscate, Il Penalista, Focus del 17 luglio 2018

G. TONA, C. VISCONTI, Nuove pericolosità e nuove misure di prevenzione: percorsi contorti e prospettive aperte nella riforma del codice antimafia, La legislazione penale 14.2.2018

K. TASSONE, La costante riforma del codice antimafia: un cantiere aperto, 22.1.2019, in Dir. pen. cont.

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