Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma... in un never ending black hole per l'indagato. Ora per allora?

Angela Caruso
25 Luglio 2019

Onestà intellettuale vuole che, first of all, si rilevi il seguente dato: basterebbe una interpretazione costituzionalmente orientata della norma sottesa agli artt. 405 e 407 c.p.p., in combinato disposto – soprattutto – con l'art. 112 Cost., per avvedersi di una esigenza impellente quanto giuridicamente imposta da un ordinamento democratico e garantista. Si tratta della necessità che la formale iscrizione nel registro delle notizie di reato avvenga contestualmente all'insorgere di profili di responsabilità penale a carico del soggetto (“solo”) sostanzialmente indagato.
Abstract

Onestà intellettuale vuole che, first of all, si rilevi il seguente dato: basterebbe una interpretazione costituzionalmente orientata della norma sottesa agli artt. 405 e 407 c.p.p., in combinato disposto – soprattutto – con l'art. 112 Cost., per avvedersi di una esigenza impellente quanto giuridicamente imposta da un ordinamento democratico e garantista.

Si tratta della necessità che la formale iscrizione nel registro delle notizie di reato avvenga contestualmente all'insorgere di profili di responsabilità penale a carico del soggetto (“solo”) sostanzialmente indagato.

A ben riflettere, infatti, la ratio che informa e ispira siffatto ragionamento è la medesima dell'art. 63, comma 2, c.p.p. che, non a caso, così recita: «Se la persona doveva essere sentita sin dall'inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate».

La disciplina delle dichiarazioni indizianti (art. 63 c.p.p.)

La matrice illuminata e illuminante sottesa al citato comma 2 dell'art. 63 c.p.p. è evidente; si vuole e deve evitare che il soggetto nei confronti del quale può attivarsi la richiesta statale della repressione penale – promossa dall'Ufficio perciò detto “Pubblico” della Procura – sia garantito dal diritto al silenzio e di difesa.

Non è un caso, d'altronde, che l'ultimo inciso del comma 1 stabilisca analogamente che «Le precedenti dichiarazioni non poss(a)no essere utilizzate contro la persona che le ha rese»e ciò allo scopo di tutelare ad ampio raggio – rectius: lungo tutto il diametro – la persona che, non indagata né imputata, fornisca dichiarazioni autoindizianti “in corso d'opera”; così come non è un caso che il legislatore abbia imposto la dirompenza insita nella interruzione dell'esame e il conseguente obbligo di fornire al soggetto l'avvertimento che, a seguito di tali dichiarazioni, potranno essere svolte indagini nei suoi confronti con annesso invito a nominare un difensore.

E infatti, l'A.G. o la P.G. operante si trova al cospetto di un individuo che, improvvisamente e inaspettatamente, vede mutare la sua veste giuridica nel procedimento penale che – ora, non già prima – lo vede protagonista passivo.

Viceversa, se ci si avvede che la sua solo attuale qualifica formale debba valere “ora per allora”, la sanzione della inutilizzabilità è la soluzione tecnicamente obbligata proprio perché imposta da una evidenza indiziante della quale ci si sarebbe dovuti accorgere.

In buona sostanza – e proprio di un dato sostanziale si discetta – il riconoscimento della qualifica di indagato/imputato ha valenza ricognitiva, non già costitutiva.

Ed è questa la ragione per la quale la Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 307/2006, ha statuito che «la qualità di persona sottoposta alle indagini non discende dalla iscrizione nel registro, la quale assume “una mera funzione ricognitiva di un dato procedimentale potenzialmente preesistente”».

L'ingranaggio dei tempi nella chiusura delle indagini preliminari

Tuttavia, la sanzione della inutilizzabilità è espressamente contemplata con riferimento al momento iniziale solo dall'art. 63 c.p.p., non già dall'art. 407 c.p.p.

Detto con maggiore impegno esplicativo, l'art. 407, laddove disciplina i termini di durata massima delle indagini preliminari, non prevede alcuna sanzione di inutilizzabilità nel caso in cui sia stato violato l'art. 335, comma 1, c.p.p.

Si ricordi il precetto dell'art. 407, comma 3, c.p.p.:

«Salvo quanto previsto dall'articolo 415-bis, qualora il pubblico ministero non abbia esercitato l'azione penale o richiesto l'archiviazione nel termine stabilito dalla legge o prorogato dal giudice, gli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine non possono essere utilizzati».

Tuttavia, è chiaro che, ove l'Ufficio di Procura abbia omesso la iscrizione ovvero l'abbia ritardata, benché gli elementi di accusa fossero già emersi – donde l'analogia concettuale con il prefato art. 63 c.p.p. – viene meno la primaria esigenza di certezza del diritto.

Ed infatti, se l'Ufficio di Procura indebitamente ed illegittimamente omette o ritarda la iscrizione – dies a quo – il termine di durata massima delle indagini preliminari – dies ad quem – risulta altrettanto indebitamente ed illegittimamente dilatato... sine die certo.

Il risultato non può che essere, allora, il seguente: la concessione, normativamente ingiustificata, di una “zona franca” temporale in cui poter continuare a svolgere indagini che, ove la Procura avesse avviato al momento giusto, risulterebbero invece inutilizzabili perché tardive.

È innegabile, allora che, consentendo all'A.G. requirente di scegliere a propria assoluta discrezione se e quando iscrivere la notizia di reato a carico di un soggetto noto, l'Ufficio di Procura fruisce di un ulteriore biennio – ove si tratti del “consueto” procedimento ex art. 407, comma 2, c.p.p.per svolgere indagini che, viceversa, dovrebbe risultare categoricamente vietate.

Va da sé, quindi, che la omissione o il ritardo della iscrizione – ove gli elementi investigativi fossero già noti e notoriamente involgenti la persona del soggetto interessato – viola tanto l'art. 335, comma 1, c.p.p., quanto il sacro e ancor più indicativo disposto dell'art. 405, comma 2, c.p.p.

Si consenta di richiamare il contenuto della prima disposizione or ora citata:

«Il pubblico ministero iscrive immediatamente, nell'apposito registro custodito presso l'ufficio, ogni notizia di reato che gli perviene o che ha acquisito di propria iniziativa nonché, contestualmente o dal momento in cui risulta, il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito».

Il che fa il paio con la norma contenuta nell'art. 112 Cost. che impone al pubblico ministero di esercitare l'azione penale.

Non solo.

Che la tempestività – insita nell'avverbio immediatamente – incarni anch'essa un inderogabile obbligo trasuda plasticamente dall'art. 405, comma 2, c.p.p. che recita:

«Salvo quanto previsto dall'articolo 415-bis, il pubblico ministero richiede il rinvio a giudizio entro sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale è attribuito il reato è iscritto nel registro delle notizie di reato (…)».

Ratio talmente nitida e logicamente quanto giuridicamente ineccepibile al punto da ispirare anche le previsioni successive e relative ai casi in cui il reato necessita di una condizione di procedibilità.

Il tutto si combina ed incastra alla perfezione, in un sapiente ingranaggio procedurale che la lettura sinottica (soprattutto) degli artt. 405, comma 2, e 407, comma 3, c.p.p. disvela: entrambi esordiscono in egual maniera ed entrambi risultano fortemente ancorati al dato temporale; l'art. 405, comma 2, per l'«inizio dell'azione penale», lo si ripeta, «dalla data in cui il nome della persona alla quale è attribuito il reato è iscritto nel registro delle notizie di reato»; il secondo per la «durata massima delle indagini preliminari, nel termine stabilito dalla legge o prorogato dal giudice».

Peraltro e, a ben riflettere, in questo armonioso mosaico, è incastonato un ulteriore tassello: l'art. 406 c.p.p.

Non è un caso che il suo incĭpit sia il seguente:

«Il pubblico ministero, prima della scadenza del termine, può richiedere al giudice per giusta causa, la proroga del termine previsto dall'articolo 405».

Inoltre, il comma 8 si palesa quale magnifica “quadratura del cerchio”, in questi esatti, precisi e delimitati… termini:

«Gli atti di indagine compiuti dopo la presentazione della richiesta di proroga e prima della comunicazione del provvedimento del giudice sono comunque utilizzabili, sempre che, nel caso di provvedimento negativo, non siano successivi alla data di scadenza del termine originariamente previsto per le indagini».

L'orientamento della giurisprudenze di legittimità…

E allora, in un vorticoso ma ritmicamente perfetto festīna lente, ecco il perché si è esordito, nella presente nota, in tal modo: basterebbe una lettura costituzionalmente orientata per rendere cogente e concretamente efficace l'obbligo per la Procura di iscrivere immediatamente la notizia di reato nei confronti di un soggetto noto; una lettura costituzionalmente orientata sarebbe davvero sufficiente per imporre la generale sanzione di inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti, ove tale obbligo fosse palesemente violato.

Tuttavia e, contro ogni “ragionevole aspettativa”, l'orientamento del Giudice di legittimità – Sezioni Unite Tammaro (Cass. pen., Sezioni Unite, 21 giugno 2000, n. 16) comprese – è in senso graniticamente distonico.

Si consideri, ad esempio, Cass. pen., Sez. V, 18 ottobre 1993, n. 3156, rv. 195590, che si è così espressa: «Il termine di durata massima delle indagini preliminari decorre dalla data in cui il P.M. iscrive nell'apposito registro la notizia di reato e non dalla data nella quale avrebbe dovuta iscriverla. La disposizione dell'art. 335 comma primo cod. proc. pen.– secondo cui l'iscrizione deve essere effettuata dal P.M. “immediatamente” – non prevede alcun termine entro il quale il P.M. deve procedere a detta iscrizione ed è inoltre sprovvista di sanzione; onde la mancata iscrizione immediata della notizia di reato non produce nullità – in ossequio al principio di tassatività fissato nell'art. 177 cod. proc. pen. – ma può determinare, allorquando ne ricorrano gli estremi, sanzioni (disciplinari o, al limite, penali) nei confronti di coloro i quali sono tenuti ad attuare le disposizioni in questione».

Analogamente, per Cass. pen., Sez. VI, 24 ottobre 1997, n. 11984, rv. 209492, «La tardiva iscrizione della notitia criminis nel registro “mod. 44” da parte del pubblico ministero, con la conseguente sottrazione delle indagini al disposto dell'art. 415 cod. proc. pen., non determina la nullità degli atti compiuti, ma può, all'occorrenza, avere rilievo solo sul piano disciplinare, ferma restando l'inutilizzabilità degli atti compiuti dopo la scadenza del termine, che però decorre non dal giorno in cui l'iscrizione sarebbe dovuta avvenire, ma da quello in cui è effettivamente avvenuta».

Per l'appunto.

E ancora, Cass. pen., Sez. I, 11 maggio 1994, n. 2193, rv. 198140, ha affermato: «L'obbligo del pubblico ministero di provvedere “immediatamente” alle iscrizioni previste dall'art. 335, comma primo, cod. proc. pen. può ritenersi ritualmente adempiuto, posto che il concetto di “immediatezza” non implica la rigidità di un termine correlato a ore o a giorni, pur quando l'iscrizione, anche per la presenza di giorni festivi, sia differita di un giorno rispetto alla data di effettiva conoscenza dei fatti da parte dello stesso pubblico ministero. Solo abnormi e ingiustificati ritardi nell'effettuazione delle iscrizioni in questione potrebbero (al di là di profili di responsabilità interna dell'ufficio), dar luogo ad illegittimità delle iscrizioni stesse, con riferimento alla loro data. (Principi affermati in relazione alla verifica dell'avvenuta scadenza o meno del termine per le indagini preliminari fissato dall'art. 405 cod. proc. pen.)».

Lo si consenta: niente di più sbagliato.

Intanto perché a questo scrivente non risulta che nella dimensione del diritto penale, sostanziale e procedurale, esista una gradazione di quel che – inteso come abnorme ed ingiustificato ritardo – evoca e incarna il concetto di colpa; è proprio dalle Sezioni Unite Tammaro che si ricava (quantomeno) il principio di obbligatorietà della iscrizione, allorquando sussistano specifici elementi indizianti.

… e le conseguenti incertezze

Ed infatti, diversamente opinando, si consentirebbe la disapplicazione dell'art. 109 disp. att., laddove così risulta formulato: «La segreteria della procura della Repubblica annota sugli atti che possono contenere notizia di reato la data e l'ora in cui sono pervenuti in ufficio e li sottopone immediatamente al procuratore della Repubblica per l'eventuale iscrizione nel registro delle notizie di reato».

Procedendo a ritroso, per la stessa ragione si spiega anche il disposto dell'art. 108-bis disp. att.: «Tiene luogo della comunicazione scritta la comunicazione della notizia di reato consegnata su supporto magnetico o trasmessa per via telematica. Nei casi di urgenza, le indicazioni e la documentazione previste dall'articolo 347, commi e 2, del codice sono trasmesse senza ritardo.

Quando la comunicazione è eseguita nelle forme previste dal comma 1, la polizia giudiziaria indica altresì la data di consegna e di trasmissione».

Pertanto, se la registrazione della data, perfino dell'ora in cui la notitia criminis perviene alla segreteria, ha un senso è perché tale emergenza investigativa sia sottoposta immediatamente alla pronta e prudente cognizione del Procuratore; e se la previsione della tempestività ha un senso è perché il Procuratore valuti, altrettanto immediatamente, se quanto giunto a sua conoscenza possieda o meno la parvenza dello stigma della illiceità penale.

Sicché, quantunque si citi la eventualità, è chiaro, ovvio, basico e, come tale, imposto dall'unica lettura possibile in chiave garantista e codicisticamente corretta, che essa non riguardi il quando ma l'an.

Detto altrimenti, se il Procuratore ravvisa gli estremi di una fattispecie penale allora sì che Costui avrà l'obbligo di iscrivere con il successivo – così inteso – eventuale obbligo di esercitare l'azione penale.

Diversamente opinando, infatti, si consentirebbe al “libero arbitrio” del rappresentante dell'Ufficio di Procura di scegliere se ma anche e soprattutto quando iscrivere.

Il che, a ben vedere, non è certo momento di poco conto, giacché a partire dal momento in cui il nome dell'indagato verrà vergato sul registro inizierà il count down dell'attività investigativa.

Implacabile. Non già, però, perché involgerà chiunque d in qualunque momento ne resti avviluppato per sconvolgerne l'esistenza; implacabile, dunque, non nei confronti dell'indagato, ma nei confronti della macchina della repressione penale.

Essa dovrà avere un inizio e un epilogo certi.

Si tratta del più bel retaggio che la cultura illuminista abbia lasciato in eredità ai Padri Costituenti ed al Ministro Vassalli.

Già.

Eppure, anche Cass. pen., Sez. V, 4 luglio 2017, n. 44909, rv. 271619, si è così espressa: «ribadito il principio per cui la data di decorrenza del termine per le indagini preliminari è quella del provvedimento con cui il Pubblico Ministero dispone l'iscrizione della notizia di reato e della persona sottoposta ad indagini ai sensi dell'art.335 c.p.p., è irrilevante, per quanto poi si dirà in merito alla inammissibilità del ricorso, stabilire se il provvedimento di iscrizione avesse data certa».

In senso analogo, si è espressa, altresì, Cass. pen., Sez. III, 1 marzo 2018, n. 19665, rv. 273215: «Il termine di novanta giorni previsto dall'art. 454, comma 1, cod. proc. pen. per la richiesta di giudizio immediato decorre dalla data in cui il pubblico ministero ha iscritto nel registro di cui all'art. 335 cod. proc. pen. il nome della persona cui il reato è attribuito, senza che alcun sindacato sulla sua decorrenza sia esperibile a fronte di tale decisione, pur potendo dar luogo l'eventuale tardiva iscrizione del nome della persona cui il reato è attribuito nel relativo registro a responsabilità disciplinare del pubblico ministero. (Dichiara inammissibile, App. Roma, 22/02/2017)».

E infine, pure per la recente Cass. pen., Sez. VI, 14 novembre 2018, n. 4844, rv. 275046-01, «Il termine di durata delle indagini preliminari decorre dalla data in cui il pubblico ministero ha iscritto, nel registro delle notizie di reato, il nome della persona cui il reato è attribuito, senza che al giudice per le indagini preliminari sia consentito stabilire una diversa decorrenza, sicché gli eventuali ritardi indebiti nella iscrizione, tanto della notizia di reato che del nome della persona cui il reato è attribuito, pur se abnormi, sono privi di conseguenze agli effetti di quanto previsto dall'art. 407, comma 3, cod. proc. pen., fermi restando gli eventuali profili di responsabilità disciplinare o penale del magistrato del pubblico ministero che abbia ritardato l'iscrizione».

Quali rimedi?

Dunque, preso atto del consolidato “diritto vivente” che nessuna sanzione individua e dispone nel caso di omessa e/o tardiva iscrizione della notizia di reato, la soluzione non può che essere una e una sola: sollevare formale questione di legittimità costituzionale dell'art. 407, comma 3, c.p.p., laddove non estende la sanzione di inutilizzabilità anche alla ipotesi di omessa o tardiva iscrizione della notizia di reato.

E infatti, così intendendo e sollevando la Q.L.C., si supera l'impasse integrata dalla declaratoria di inammissibilità della precedente questione così decisa dalla menzionata Corte cost. n. 307/2006.

Più esattamente, ecco come l'esito negativo è stato motivato:«se, peraltro, l'iscrizione nel registro ha una valenza meramente ricognitiva, e non già costitutiva dello status di persona sottoposta alle indagini, è di tutta evidenza come le garanzie difensive che la legge accorda a quest'ultima, in relazione ai singoli atti compiuti, debbano ritenersi pienamente operanti anche in assenza dell'iscrizione: con la conseguenza che il tardivo espletamento della formalità non può essere considerato fonte di pregiudizio al diritto di difesa sotto il profilo indicato dal giudice rimettente; che risulta quindi insussistente anche la ventilata disparità di trattamento tra “indagati” tempestivamente iscritti e “indagati” tardivamente iscritti;

che nell'ipotesi, infatti, in cui il pubblico ministero procrastini indebitamente l'iscrizione del registro, il problema che può porsi attiene unicamente all'artificiosa dilazione del termine di durata massima delle indagini preliminari: vale a dire alla possibile elusione della sanzione di inutilizzabilità che colpirebbe, ai sensi dell'art. 407, comma 3, cod. proc. pen., gli atti di indagine collocati temporalmente “a valle” della scadenza del predetto termine, computato a partire dal momento in cui l'iscrizione avrebbe dovuto essere effettuata;

che tale profilo resta peraltro estraneo al thema decidendum del giudizio a quo, nel quale si discute di atti compiuti ampiamente entro il termine di durata massima delle indagini, computato dal momento nel quale – secondo il rimettente – l'iscrizione doveva aver luogo».

Allo stesso modo, si supera l'ostacolo rappresentato dal dictum di Corte cost. n. 400/2006.

La Consulta dichiara: «il petitum conclusivamente formulato mira a sollecitare una pronuncia additiva idonea a sanzionare - con l'inutilizzabilità processuale - gli atti compiuti dall'organo di accusa oltre il termine effettivo delle indagini preliminari; ma tale richiesta appare in decisa contraddizione con l'argomentazione espressa nel corpo dell'ordinanza di rimessione in cui, invece, oggetto di censura risulta essere “l'omessa indicazione della sanzione di inutilizzabilità degli atti d'indagine raccolti anteriormente alla data di iscrizione avvenuta con ritardo non giustificabile”; le due prospettive - miranti, l'una, ad introdurre la sanzione di inutilizzabilità di atti compiuti oltre la scadenza del termine massimo di indagine, considerato il momento in cui la notizia di reato avrebbe dovuto essere effettivamente iscritta; l'altra, a richiedere la medesima sanzione processuale per gli atti compiuti prima della formale iscrizione nel registro ex art. 335 cod. proc. pen., se quest'ultima è avvenuta con ritardo “ingiustificabile” - si palesano, all'evidenza, completamente antitetiche, sì da far risaltare l'insolubile contraddittorietà del quesito».

Peraltro, sul fronte coevo della legittimità, si afferma che «La tardiva iscrizione del nome dell'indagato nel registro di cui all'art. 335 c.p.p. non determina alcuna invalidità delle indagini preliminari ma consente, tuttavia, al giudice di rideterminarne il termine iniziale, in riferimento al momento in cui si sarebbe dovuta iscrivere la notizia di reato; ne deriva che la tardiva iscrizione può incidere sulla utilizzabilità delle indagini finali ma non sulla utilizzabilità di quelle svolte prima della iscrizione (…)». (Così, Cass. pen., Sez. V, 21 settembre 2006, n. 1410, Boscarato, rv. 236029).

In realtà, le due richieste – l'una relativa alla inutilizzabilità degli atti compiuti prima, l'altra inerente agli atti compiuti dopo– non sono antitetiche, poiché la formale iscrizione della notizia nell'apposito registro segna il preciso momento solo a partire dal quale può azionarsi la macchina investigativa; prima di tale momento v'è il nulla, o almeno così dovrebbe, rectius: deve essere.

Va da sé che, individuato con esattezza il momento iniziale, anche quello finale sarà certo, la definizione e delimitazione dei termini perciò detti di durata massima delle indagini preliminari solo così avendo un senso.

La norma, dunque, a seguito dell'invocato intervento manipolativo di tipo additivo, dovrebbe risultare – di primo acchito – così formulata:

«Salvo quanto previsto dall'articolo 415-bis, qualora il pubblico ministeronon abbia esercitato l'azione penale o richiesto l'archiviazione nel termine stabilito dalla legge o prorogato dal giudice e non abbia provveduto tempestivamente ai sensi dell'art. 335, c. 1, c.p.p., gli atti di indagine compiuti prima della iscrizione della notizia nell'apposito registro edopo la scadenza del termine non possono essere utilizzati».

L'importanza di un formale inizio delle indagini

La Q.L.C. che si propone con la seguente nota ben può valere anche sul piano de libertate, poichéè chiaro e naturale che la tardività della iscrizione della notizia di reato ridondi sul profilo cautelare; e infatti, senza un formale e rituale inizio delle indagini, nessun elemento investigativo potrà essere acquisito sì da poter ritenere sussistente qualsivoglia indizio di colpevolezza.

Ciò trova conferma anche in Cass. pen., Sez. II, 27 marzo 1997, n. 24001, Zagaria.

Essa ha affermato che l'iscrizione della notizia di reato è uno degli elementi oggettivi necessari, indispensabili e fondamentali in sede di richiesta di applicazione di una misura cautelare.

Infatti, il principio di diritto, in riferimento a quanto sopra esposto, è stato il seguente: «in sede di richiesta di applicazione di una misura cautelare il pubblico ministero ha l'onere di allegare tutti gli atti che costituiscono il presupposto della legittimità dell'attività di indagine sui cui esiti si fonda l'istanza di coercizione. Tra tali atti rientrano i decreti autorizzativi e quelli di proroga delle intercettazioni telefoniche nonché la documentazione relativa alla data di iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all'art. 335 c.p.p. ovvero alla proroga delle indagini, in quanto necessaria a stabilire se le investigazioni, i cui risultati sono posti a fondamento della richiesta, siano state espletate nei termini di legge, e ciò sempre che vi siano elementi che possano far sorgere il dubbio della loro inutilizzabilità ai sensi dell'art. 407 comma 3 c.p.p.».

Esattamente.

Eppure, v'è altra e più recente giurisprudenza che, sempre in tema di misura cautelare, si esprime in senso sfavorevole.

Si citi, per tutte, Cass. pen., Sez. Unite, 24 settembre 2009, , n. 40538, Lattanzi, rv. 244377, la quale, preliminarmente, ha sintetizzato una delle due scuole di pensiero emerse nel corso del dibattito che animò anche i lavori preparatori della legge-delega sul nuovo codice: «Sull'opposto versante, si schierava, invece, chi riteneva che, proprio la dimensione temporale circoscritta, meglio di altre previsioni avrebbe in concreto garantito, da un lato, l'espletamento delle sole indagini necessarie e sufficienti per le scelte relative alla azione penale, e, dall'altro, la tempestiva celebrazione del giudizio: indispensabile epilogo, quest'ultimo, per consentire una acquisizione probatoria “effettiva”, proprio perché non stemperata dal diluirsi del tempo. Il tutto, non senza sottolineare come il rigoroso vincolo temporale impresso alle indagini fosse di per sé un segnale inequivoco circa la volontà di precludere “annose” inchieste, che avrebbero ineluttabilmente fatto correre al sistema il rischio di riprodurre antiche - e ormai superate - vocazioni “istruttorie”».

È quanto di più tecnicamente corretto e garantista si possa sostenere.

Aggiungono, peraltro, le Sezioni Unite: «Sul versante costituzionale, dunque, la problematica connessa alla mancata previsione di specifici rimedi processuali atti a “correggere” l'eventuale ritardo nella iscrizione del nominativo dell'indagato nel registro di cui all'art. 335 c.p.p., agli effetti della individuazione del dies a quo, dal quale far decorrere i termini di durata delle indagini preliminari, resta ancora questione “aperta”. Va solo rilevato, semmai, come, alla luce del numero delle ordinanze di rimessione e del lungo arco di tempo in cui le varie autorità giudiziarie hanno sollevato i riferiti dubbi di legittimità costituzionale, il problema dei possibili “arbitrii” del pubblico ministero sia stato e sia tuttora acutamente avvertito anche nella pratica quotidiana, evidentemente nella consapevolezza di quanto ardua risulti la possibilità di risolvere la quaestio attraverso una semplice operazione di tipo interpretativo».

Esattamente… again!

Ed ancora: «(…) deve ritenersi non pertinente il riferimento ad un potere “discrezionale” del pubblico ministero, pur presente in larga parte delle decisioni di questa Corte che hanno aderito alla impostazione di queste Sezioni Unite, espressa nella già ricordata sentenza Tammaro. Il compito del pubblico ministero, infatti, è quello - in teoria, del tutto “neutro” - di “riscontrare” l'esistenza dei presupposti normativi che impongono l'iscrizione: non di effettuare valutazioni realmente “discrezionali”, che ineluttabilmente finirebbero per coinvolgere l'esercizio di un potere difficilmente compatibile - anche sul versante dei valori costituzionali coinvolti - con la totale assenza di qualsiasi controllo giurisdizionale».

Tuttavia, conclude il Supremo Consesso, «La vaghezza, però, dei parametri identificativi del “momento” di insorgenza dell'obbligo di procedere agli adempimenti previsti dall'art. 335 c.p.p., è per certi aspetti ineludibile e scaturisce, a ben guardare, dalla stessa scelta del legislatore di configurare l'iscrizione come un atto a struttura “complessa”: nel senso che in esso simbioticamente convivono una componente “oggettiva”, quale è la configurazione di un determinato fatto (“notizia”) come sussumibile nell'ambito di una determinata fattispecie criminosa (“di reato”, con un suo nomen iuris ben definito come risulta evidenziato dalla circostanza che “se nel corso delle indagini preliminari muta la qualificazione giuridica del fatto ovvero questo risulta diversamente circostanziato, il pubblico ministero cura l'aggiornamento delle iscrizioni...”); nonché di una componente “soggettiva”, rappresentata dal nominativo dell'indagato. Componente, quest'ultima, essenziale, perché è solo dopo che viene individuato il soggetto cui attribuire il reato che i termini cominciano a decorrere».

Appunto!

Ed è questa la ragione per la quale le Sezioni Unite chiosano in maniera assolutamente opportuna: «L'unico “tassello normativo” per il tramite del quale è forse possibile configurare un potere di “apprezzamento” da parte del giudice, circa la “tempestività” delle iscrizioni, è offerto, a ben guardare, soltanto dalla disciplina che regola il regime delle proroghe del termine per le indagini preliminari (art. 406 c.p.p.), non apparendo estranea a quel sistema l'idea di un giudice che, in presenza di iscrizioni “tardive”, calibri la concessione o il diniego della proroga in funzione, anche, della durata delle indagini eventualmente espletate prima della tardiva iscrizione. Al di fuori di tale ipotesi, manca una struttura normativa di riferimento. Non esiste, infatti, nel sistema, né un principio generale di “sindacabilità” degli atti del pubblico ministero, né un altrettanto generalizzato compito di “garanzia” affidato al giudice per le indagini preliminari».

Ottimo, infine, l'assist fornito nel punto 7 del Considerato in diritto: «Per poter configurare un sindacato giurisdizionale sulla tempestività delle iscrizioni operate dal Pubblico Ministero, occorrerebbe, dunque, una espressa previsione normativa che disciplinasse non soltanto le attribuzioni processuali da conferire ad un determinato organo della giurisdizione, ma anche il “rito” secondo il quale inscenare un simile accertamento “incidentale”. Basti pensare, ad esempio, alla esigenza di rispettare il contraddittorio, non solo tra i soggetti necessari, ma anche in riferimento agli altri eventuali “partecipanti” della indagine o del processo. Se si introducesse, infatti, un controllo ex post sul merito della “tempestività” delle iscrizioni, con possibilità di “retrodatazione” tale da compromettere la utilizzazione di atti di indagine, il relativo ius ad loquendum non potrebbe non essere riconosciuto anche agli eventuali altri indagati o persone offese, che dalla “postuma” dichiarazione di inutilizzabilità di atti di indagine potrebbero soffrire una grave compromissione, ove quegli atti fossero favorevoli alla loro posizione».

L'auspicabile intervento del legislatore

L'esigenza di un innesto normativo per portare a soluzione i problemi, da tempo avvertiti, che scaturiscono dalla assenza di effettivi rimedi per le ipotesi di ritardi nella iscrizione nel registro delle notizie di reato, è, d'altra parte, chiaramente testimoniata dal disegno di legge n. 1440, presentato dal Ministro della giustizia al Senato della Repubblica il 10 marzo 2009 e recante, fra l'altro, varie disposizioni in tema di procedimento penale. In esso, infatti, si prevede una specifica disciplina che attribuisce al giudice, all'atto della richiesta di rinvio a giudizio, il compito di verificare l'iscrizione operata dal pubblico ministero nel registro di cui all'art. 335 c.p.p., e determinare, se del caso, la data nella quale essa doveva essere effettuata, anche agli effetti dell'art. 407, comma 3. «In modo tale», puntualizza la relazione che accompagna l'iniziativa legislativa, «da porre rimedio a un meccanismo che rischia di rimettere alle scelte discrezionali del pubblico ministero la concreta determinazione dei tempi processuali. Con le nuove norme», osserva ancora la relazione, «non potranno più riverberarsi sull'imputato gli effetti della iscrizione tardiva, a lui non imputabili, con la conseguenza di rendere più certi i termini delle indagini preliminari, a fini sia acceleratori che di garanzia».

Allo stato della normativa vigente, occorre quindi ribadire il principio per il quale il termine per le indagini preliminari decorre dalla data in cui il Pubblico Ministero ha provveduto ad iscrivere, nel registro delle notizie di reato, il nominativo della persona alla quale il reato è attribuito, senza che al giudice sia consentito di stabilire una diversa decorrenza. Gli eventuali ritardi nella iscrizione, tanto della notizia di reato che del nominativo cui il reato è attribuito, sono privi di conseguenze agli effetti di quanto previsto dall'art. 407 c.p.p., comma 3, anche se si tratta di ritardi colpevoli o abnormi, fermi restando gli eventuali profili di responsabilità disciplinare o penale».

Cass. pen., Sez. I, 27 settembre 1996, n. 4795, Maceri, aveva inoltre stabilito quanto segue: «L'iscrizione nel registro delle notizie di reato del nome della persona alla quale questo è attribuito, per gli effetti che ne derivano ai fini del computo del termine di durata delle indagini e della utilizzabilità degli atti compiuti, postula la completa identificazione della stessa, non essendo sufficiente al riguardo la semplice indicazione del nome e del cognome. Ciò si ricava, tra l'altro, dall'art. 417, comma 1, lett. a), c.p.p., che, tra i requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio, indica le “generalità dell'imputato o le altre indicazioni personali che valgano a identificarlo”».

Ed ancora, Cass. pen., Sez. VI, 19 marzo 2012, n. 25385, rv. 253100, ha affermato: «Ai fini della previsione di cui all'art. 405 c.p.p., la decorrenza del termine delle indagini preliminari va calcolata dal momento della formale ed effettiva iscrizione nell'apposito registro delle generalità della persona alla quale il reato stesso sia stato attribuito e non da quello in cui il P.M. ha disposto l'iscrizione medesima».

Sennonché, ove la sussistenza di un fumus di reato e la insorgenza di gravi indizi di colpevolezza a carico dell'indagato fossero già nitidamente emerse dalle indagini precedenti a quelle dalle quali è scaturita la misura restrittiva della sua libertà; se, infine, si riuscisse a dimostrare che l'Ufficio di Procura ha basato la propria richiesta cautelare su atti antecedenti rispetto alla formale iscrizione del nome del soggetto coinvolto nell'R.G.N.R., tali atti non potrebbero che meritare – al momento in cui si discuta della perduranza di una misura restrittiva e/o della legittima instaurazione della fase processuale – la sanzione di inutilizzabilità.

E ciò è possibile se e solo se l'art. 407, comma 3, c.p.p., viene ampliato nei termini sin qui evidenziati.

Anzi.

Proprio perché si apprezza e si condivide l'idea fornita dalle Sezioni Unite sul “rito”, si potrebbe ulteriormente articolare la Q.L.C. in questi termini:

«Salvo quanto previsto dall'articolo 415-bis, qualora il pubblico ministeronon abbia esercitato l'azione penale o richiesto l'archiviazione nel termine stabilito dalla legge o prorogato dal giudice e non abbia provveduto tempestivamente ai sensi dell'art. 335, c. 1, c.p.p., gli atti di indagine compiuti prima della iscrizione della notizia nell'apposito registro edopo la scadenza del termine non possono essere utilizzati. In ogni caso, il giudice fissa la data dell'udienza in camera di consiglio e ne fa dare avviso al pubblico ministero ed a tutte le parti private. Il procedimento si svolge nelle forme previste dall'art. 127. Fino al giorno dell'udienza, gli atti restano depositati in cancelleria con facoltà del difensore di estrarne copia».

In tal modo, dunque, si fornirebbe una copertura “ad ombrello” sì da consentire a tutte le parti processuali di interloquire sulla e al giudice di addivenire, a contraddittorio esaurito, alla determinazione del caso; e, nella ipotesi di atti investigativi compiuti ante iscrizione, e nel caso di atti ad essa successivi.

Ciò, a ben riflettere, non può che produrre effetti anche sulla piattaforma cautelare; non è un caso che l'art. 291 c.p.p.reciti:

«Le misure sono disposte su richiesta del pubblico ministero, che presenta al giudice competente gli elementi su cui la richiesta si fonda, nonché tutti gli elementi a favore dell'imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate».

Non è un caso – lo si dica per l'ennesima volta – che si citi l'imputato; ché, poi, è risaputo la misura cautelare poter essere chiesta in qualunque fase del procedimento e decisa, dunque, dal giudice procedente.

È noto, altresì, che il binario pre/cautelare costituisca l'esordio di un procedimento penale che, evidentemente e banalmente, deve essere già formalmente iniziato.

Ché, poi ed infine, l'art. 61 c.p.p. dispone la Estensione dei diritti e delle garanzie dell'imputato a favore dell'indagato e costui è tale se e solo se il suo nome è stato iscritto nell'apposito registro.

Basterebbe, allora, una lettura sinottica degli artt. 407, comma 3 – nella versione modificata nel senso invocato – 309-311 c.p.p., per giungere alla medesima soluzione in ambito cautelare; nessuna addizione normativa appare necessaria in tal senso, tenuto conto che esse impugnazioni sono intrinsecamente caratterizzate dal contraddittorio camerale.

Già.

In conclusione. La tutela del diritto alla conoscenza dell'accusa “nel più breve tempo possibile”

Altro ed ultimo profilo sul quale si ritiene di insistere pertiene al diritto di difesa nella sua accezione basica, id est: diritto alla conoscenza.

E infatti, la questione della omessa e/o tardiva iscrizione della notizia di reato involge certamente anche il diritto ad essere informati della natura e dei motivi dell'accusa elevata a proprio carico nel più breve tempo possibile; ciòè confermato dal combinato disposto degli artt. 335 c.p.p. e 110-bis c.p.p., il quale ultimo articolo è rubricato proprio Richiesta di comunicazione delle iscrizioni.

Ora, è chiaro che, ove la notitia criminis, pur sostanzialmente sussistente, non risulti formalmente iscritta nel registro, il soggetto che desidera esercitarlo vedrà negato il proprio diritto di ostensione; e ciò, si badi bene, non appare smentito dalla previsione del non licet nelle ipotesi di cui ai cc. 3 e 3-bis, perché anche in tali casi la mancata epifania potrà essere vietata per un periodo di tempo ben definito e contingentato.

Sicché, a seconda che il P.M. decida – a proprio piacimento, sanzionabile solo sotto il dichiarato, esclusivo ed… eventuale profilo disciplinare che, evidentemente, per nulla gioverà alla sfera giuridica e di vita già sol per questo violata del quisquis de populo, compreso colui che sia ma ancora non risulti “in odore di” – o meno e quando di iscrivere notizia e nome, l'individuo che presenti la relativa istanza potrà sapere o pensare di sapere, non sapere o pensare di non sapere.

La risposta che gli verrà fornita, infatti, sarà un potenziale ed eventuale fake.

Eppure tale diritto risulta non solo costituzionalmente – art. 111, commi 2 e 3, Cost. – ma anche convenzionalmente garantito – artt. 5, §§ 2 e 3,6, § 3, a) e b), CEDU – sicché lo stesso non può subire (illegittime) compressioni di sorta.

Calzante è l'arrêt di Corte europea diritti dell'uomo, 25 luglio 2000, Mattoccia c. Italia, in Legisl. Pen., 2000, p. 917: «I dettagli della fisionomia del reato giocano un ruolo cruciale nel procedimento penale, perché solo dal momento della loro comunicazione all'accusato questi viene formalmente reso edotto degli elementi di fatto e di diritto esistenti contro di lui; per tale ragione l'accusato ha diritto di ricevere tale informazione, non solo senza indugio ma anche in maniera che il fatto risulti “particolareggiatamente dettagliato” al fine di consentirgli l'esercizio del proprio diritto di difesa; nel caso la Corte ha ritenuto violato l'art. 6 § 3 CEDU, perché il ricorrente, condannato per il delitto di cui all'art. 519 c.p., non era stato tempestivamente notiziato della data e del luogo del commesso reato, portati alla sua cognizione solo a dibattimento inoltrato».

Ed ancora, per Corte europea diritti dell'uomo, 26 novembre 1997, Sakik e altri c. Turchia, in Massima redazionale, 2005: «Il controllo giudiziario da parte delle autorità interne è uno strumento essenziale affinché la tutela della libertà personale contro le intrusioni arbitrarie si traduca in una garanzia effettiva ed irrinunciabile in un tessuto sociale a base democratica. Alla luce di tale principio, le autorità interne non possono prolungare arbitrariamente lo stato di fermo, senza consentire agli interessati, anche se fortemente sospettati, il diritto di essere sentiti da un giudice nel più breve tempo possibile, per ottenere il riesame del provvedimento relativo».

In senso concettualmente analogo si è espressa anche Corte europea diritti dell'uomo, 6 dicembre 1988,Barberà, Messegué e Jabardo c. Spagna, in Massima redazionale, 2008: «Il par. 1 dell'art. 6 Cedu, combinato con il par. 3, obbliga gli Stati contraenti a misure positive. Esse consistono precisamente nell'informare l'accusato nel più breve tempo possibile dell'accusa contro di lui, ad accordargli tempo e facilitazioni necessarie per preparare la sua difesa, ad assumere direttamente la sua difesa o avvalersi di un difensore, ad interrogare o fare interrogare i testi a carico ed ottenere la convocazione dei testi a discarico nelle stesse condizioni di quelli a carico. Questo diritto implica non solamente l'esistenza, in materia, d'un equilibrio tra accusa e difesa, ma anche che, in generale, l'esame dei testimoni deve avvenire in contraddittorio».

E che tale assunto sia corretto appare dimostrato – paradossalmente – dall'excursus storico-normativo nazionale.

E infatti, la previsione che, all'epoca della Relazione ministeriale al codice di rito, poteva forse apparire comprensibile nell'ottica dell'assoluta inefficacia probatoria degli atti compiuti nella fase delle indagini preliminari – almeno anteriormente al compimento di un c.d. “atto garantito” – è divenuta ben presto inaccettabile in relazione al progressivo ampliamento del novero degli atti di indagine suscettibili di utilizzazione processuale.

In realtà, come è stato correttamente osservato, l'imposizione del segreto era comunque opinabile: il diritto di difesa della persona sottoposta ad indagini, infatti, subiva inaccettabili limitazioni soprattutto a causa dell'impossibilità di esperire tempestivamente indagini difensive e di richiedere l'assunzione di prove a discarico nelle forme dell'incidente probatorio.

Interessante ed opportuna, in tal senso, è anche la disposizione contenuta nell'art. 14, comma 3, lett. c), Patto internazionale relativo ai diritto civili e politici, in base alla quale l'individuo ha il diritto ad essere giudicato senza ingiustificato ritardo.

D'altronde, la tempestività della iscrizione implica la corrispondente chiusura delle indagini nei relativi e predefiniti tempi durante i quali il perciò detto indagato – dalla formale e sostanziale identità nota – ben dovrà avere contezza degli altrettanto noti elementi d'accusa già raccolti a suo carico, affinché ben possa esercitare il suo diritto di difesa.

E tale diritto potrà essere utilmente esercitato se e solo se nessuna diluizione temporale comporterà la dilatazione incontrollata dei tempi processuali.

Non è un caso che uno dei principi madre, di matrice convenzionale e giustamente precipitati nel riformato art. 111 Cost., sia proprio quello della ragionevole durata del processo.

La disciplina della procedura, infatti, disvela e soddisfa il bisogno di un ordinato e positivo effetto domino, lo step basico di un procedimentoprecedendo e implicando i successivi che al primo necessariamente si rifanno.

Ciò si spiega e giustifica ove si consideri il processo esattamente per quello che esso incarna: un ingranaggio che, sapientemente strutturato, funziona in modo ineccepibile se e solo i singoli momenti meccanici operano in modo tecnicamente perfetto.

Diversamente opinando, d'altronde, e le disposizioni – sì chiare e nitide come poc'anzi rilevato – risulterebbero tamquam non essent, e la ratio stessa che le informa ed ispira verrebbe apertamente violata, con conseguente tradimento del bisogno primario sotteso a qualsiasi codice di rito: la certezza della forma e, dunque, del diritto.

Infine, risulta oltremodo opportuno richiamare il contenuto della direttiva 2012/13 UE.

Più esattamente, ai sensi dell'articolo 6 della stessa, rubricato Diritto all'informazione sull'accusa:

«1. Gli Stati membri assicurano che alle persone indagate o imputate siano fornite informazioni sul reato che le stesse sono sospettate o accusate di aver commesso. Tali informazioni sono fornite tempestivamente e con tutti i dettagli necessari, al fine di garantire l'equità del procedimento e l'esercizio effettivo dei diritti della difesa.

2. Gli Stati membri assicurano che le persone indagate o imputate, che siano arrestate o detenute, siano informate dei motivi del loro arresto o della loro detenzione, e anche del reato per il quale sono indagate o imputate.

3. Gli Stati membri garantiscono che, al più tardi al momento in cui il merito dell'accusa è sottoposto all'esame di un'autorità giudiziaria, siano fornite informazioni dettagliate sull'accusa, inclusa la natura e la qualificazione giuridica del reato, nonché la natura della partecipazione allo stesso dell'accusato.

4. Gli Stati membri garantiscono che le persone indagate o imputate siano tempestivamente informate di ogni eventuale modifica alle informazioni fornite a norma del presente articolo, ove ciò sia necessario per salvaguardare l'equità del procedimento».

E che si tratti di considerazioni di diretta incidenza pratica lo si ricava da un arresto che, sebbene risalente nel tempo, è tutt'altro che vintage.

Si tratta di Tribunale Roma, 6 giugno 1990,GIP Viglietta, in Giur. it., 1990, 1138: «La mancanza di prova circa l'attualità di indagini preliminari rende irricevibile la richiesta di incidente probatorio da parte di chi non ha ancora assunto la qualifica di persona sottoposta alle indagini richiesta dall'art. 392 c.p.p.».

È stato inoltre acutamente osservato che l'abrogazione del divieto di comunicazione di cui al previgente comma 3, di fatto, ha eliminato tout court il segreto sull'esistenza del procedimento penale, vanificando le finalità perseguite con la riforma dell'art. 369 c.p.p.

In particolare, «in base alla nuova normativa nulla impedisce alla persona offesa, che è solitamente anche il denunciante, di chiedere ed ottenere conto dell'avvenuta iscrizione della notitia criminis e di divulgarne il contenuto o, che è lo stesso, di confidarlo ad altri perché lo divulghi: infatti, il divieto di pubblicazione concerne soltanto gli atti coperti dal segreto (art. 114) e la comunicazione ricevuta dalla persona offesa ai sensi dei commi 3 e 3-bis dell'art. 335 è atto per definizione non segreto» (Così G. Giostra, I novellati artt. 335 e 369 c.p.p.: due rimedi inaccettabili, in Cass. pen., 1995, p. 3601).

E se tale possibilità di accesso è prevista per la persona offesa, a maggior ragione deve essere concessa, rectius: riconosciuta a colui che, per definizione, ha una voracità conoscitiva e, dunque, difensiva elevata ad n e, cioè, l'indagato.

Libero o… tardivamente ristretto che sia.

Et de hoc, satis.

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