Corruzione dei revisori

Andrea A. Salemme
09 Novembre 2015

L'art. 28 d.lgs. n. 39/2010, sotto la rubrica: “Corruzione dei revisori”, tipizza ai primi due commi quattro delitti, raggruppabili a due a due, sostanzialmente riproponendo al comma 1 l'“infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità”, che il previgente art. 2635, comma 1, c.c. estendeva anche ai “responsabili della revisione”, e al comma 2 quella “corruzione dei revisori”, che l'allora art. 174-ter d.lgs. n. 58/1998 codificava a proposito dell'attività di revisione delle società aperte. La tipizzazione fa il paio con i delitti che l'art. 2635 c.c. enuncia al comma 1 e di riflesso ai commi 2 e 3 sotto la rubrica: “Corruzione tra privati”. La funzione dell'art. 28 d.lgs. n. 39/2010 è almeno in parte quella di completare il sistema di punizione delineato dall'art. 2635 c.c. Il risultato pratico è fallimentare, attesa la totale ineffettività della disposizione, resa evidente dall'assenza di precedenti. Un discorso parzialmente diverso va fatto dal punto di vista teorico, in funzione delle due anime che caratterizzano l'art. 28 in commento.
Premessa

La funzione dell'art. 28 d.lgs. n. 39/2010 è almeno in parte quella di completare il sistema di punizione delineato dall'art. 2635 c.c. Il risultato pratico è fallimentare, attesa la totale ineffettività della disposizione, resa evidente dall'assenza di precedenti. Un discorso parzialmente diverso va fatto dal punto di vista teorico, in funzione delle due anime che caratterizzano l'art. 28 in commento.

La fattispecie di cui al comma 1 è assai riduttivamente incentrata su una vacua infedeltà patrimoniale dei revisori, replicante il modello, già di per sé criticabile, dell'art. 2635 c.c. in tema di c.d. corruzione tra privati.

Difetti di coordinamento nel gioco delle definizioni dei soggetti attivi espongono una non perspicua formulazione letterale a dubbi di tenuta di fronte al principio di determinatezza. Ulteriormente la circostanza che l'infedeltà patrimoniale dei revisori sia colpita, pur in mancanza di una chiara indicazione della legge (la qual cosa già rende evidente la scarsissima qualità della redazione del testo), in rapporto non già all'entità sottoposta a revisione bensì alla società di appartenenza dei revisori medesimi, ossia la società di revisione, apre una ferita insanabile nella logica della fattispecie: ciò è tanto più vero alla luce della procedibilità di ufficio prevista pur per un delitto che, salvi difficili correttivi esegetici, deduce a bene giuridico il solo patrimonio della società – ripetesi – di revisione, viepiù con conseguente discrasia, ed impossibile giustificabilità costituzionale, rispetto alla disciplina gemella di cui al già menzionato art. 2635 c.c.

La fattispecie di cui al comma 2, al contrario, merita di essere ricordata perché, nonostante i limiti linguistici che condivide con quella di cui al comma 1, è l'unica nell'intero ordinamento a palesare tratti di riconducibilità – in relazione ad un segmento specialissimo di un settore limitatissimo – a quella figura di autentica corruzione tra privati che le spinte internazionali da troppo tempo indicano come strumento di contrasto alla criminalità economica, senza che il diritto interno, svettante per la truffa delle etichette nel rapporto tra rubrica e contenuto dell'art. 2635 c.c., le degni di risposta.

La fattispecie di cui al comma 2, si caratterizza per un deciso inasprimento sanzionatorio in funzione della natura di enti di interesse pubblico e società dai medesimi controllate delle strutture oggetto di revisione legale. L'interesse pubblico non rimanda semplicemente all'intervento della mano pubblica nell'economia, nel qual caso il fuoco del bene giuridico non potrebbe prescindere dal filtro della prospettiva nazionalistica, pur ove si trattasse della protezione degli interessi finanziari dell'Unione europea; ma, essendo individuati come enti di interesse pubblico operatori economici che direttamente o indirettamente influiscono sul mercato monetario, finanziario e creditizio, la tutela penale si sposta sul fronte del governo macroeconomico, a livello segnatamente monetario, in guisa da attingere il board decisionale europeo e potenzialmente mondiale.

La punibilità dei revisori come costola della corruzione tra privati

L'art. 28 d.lgs. n. 39/2010, sotto la rubrica: “Corruzione dei revisori”, tipizza ai primi due commi quattro delitti, raggruppabili a due a due, sostanzialmente riproponendo al comma 1 l'“infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità”, che il previgente art. 2635, comma 1, c.c. estendeva anche ai “responsabili della revisione”, e al comma 2 quella “corruzione dei revisori”, che l'allora art. 174-ter d.lgs. n. 58/1998 codificava a proposito dell'attività di revisione delle società aperte. La tipizzazione fa il paio con i delitti che l'art. 2635 c.c. enuncia al comma 1 e di riflesso ai commi 2 e 3 sotto la rubrica: “Corruzione tra privati”.

In realtà la corruzione tra privati è altro, come risulta dall'art. 29 della l. n. 34/2008 che (inutilmente) delegava il governo a dare attuazione alla Decisione-quadro 2003/568/GAI adottata il 22 luglio 2003 dal Consiglio dell'Unione europea. Il governo avrebbe dovuto introdurre due fattispecie – una che punisse “la condotta di chi, nell'ambito di attività professionali, intenzionalmente sollecita o riceve, per sé o per un terzo, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura, oppure accetta la promessa di tale vantaggio, nello svolgimento di funzioni direttive o lavorative non meramente esecutive per conto di una entità del settore privato, per compiere o omettere un atto, in violazione di un dovere, sempreché tale condotta comporti o possa comportare distorsioni di concorrenza riguardo all'acquisizione di beni o servizi commerciali” [lettera a)]; un'altra che punisse anche chi “intenzionalmente, nell'ambito di attività professionali, direttamente o tramite intermediario, dà, offre o promette il vantaggio di cui alla lettera” [lettera b)] – da inserire nel catalogo dei reati-presupposto della responsabilità penal-amministrativa degli enti ex d.lgs. n. 231 del 2001 [lettera c)].

L'art. 2635 c.c. altro non è che una corruzione di amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori (comma 1) e loro sottoposti (comma 2) riguardata anche dal lato attivo (comma 3). Il comma 1 dell'art. 28, d.lgs. n. 39/2010, che da essa estrapola i revisori per considerarli autonomamente, ne replica i difetti (a differenza del comma successivo, che, in parte, coglie la rilevanza obiettiva dei doveri di ufficio).

L'ambito soggettivo del delitto di cui al comma 1

Il delitto di cui al comma 1 punisce con la reclusione sino a tre anni i “responsabili della revisione legale”, che “compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio” non in ogni circostanza ma “a seguito della dazione o della promessa di utilità”, oltretutto “cagionando nocumento alla società”. Trattasi di un reato proprio.

La definizione di responsabili della revisione legale si tare dalla lettera i) dell'art. 1 d.lgs. n. 39/2010, secondo cui tali sono “il revisore legale cui è stato conferito l'incarico” [numero 1)] ed “il soggetto […] responsabile dello svolgimento dell'incarico, se l'incarico è stato conferito ad una società di revisione legale” [numero 2)]. Poiché, dunque, l'incarico può essere conferito anche ad una società di revisione legale, a venire in rilievo non è il revisore legale in quanto tale, ma il responsabile della revisione legale che, nel caso di società, coincide con il responsabile dello svolgimento dell'incarico.

A tal riguardo, la qualifica soggettiva che il reato esige apre all'indeterminatezza: invero la società di revisione è un ente privato che non avvia per ciascun incarico un procedimento e men che meno nomina un responsabile dello svolgimento dell'incarico alla stessa stregua di un responsabile del(lo svolgimento del) procedimento nelle PP.AA. (ex lege n. 241/1990). Peraltro, a differenza di quanto previsto nel comma 2 dell'art. 2635 c.c., la punibilità investe soltanto il responsabile della revisione legale ma non anche i sottoposti.

La condotta quale violazione degli obblighi inerenti all'ufficio

Il disvalore della condotta – attiva od omissiva – si condensa attorno alla violazione degli obblighi inerenti all'ufficio. Il compimento di atti diversi da quelli che, secondo le circostanze, sarebbero stati esigibili realizza una commissione frammista ad omissione suscettiva di essere inquadrata semplicemente come commissione per la valenza violativa dei doveri d'ufficio che la condotta posta in essere dell'agente realizza.

La violazione si commisura a quelli che la disposizione definisce obblighi inerenti all'ufficio in quanto trattasi di doveri sì ma individualizzati in funzione dell'incarico. I responsabili della revisione legale, nel momento in cui sono investiti dell'incarico, assumono oneri e responsabilità, non già semplicemente di un'obbligazione professionale, ma di un vero e proprio ufficio.

Più precisamente, i revisori legali, in quanto iscritti in apposito albo, esercitano una professione riservata, al pari di avvocati, commercialisti e medici, e come costoro sono tenuti all'osservanza della deontologia, della riservatezza e del segreto professionale (art. 9, d.lgs. n. 39/2010). Ma il tasso di'“indipendenza ed obiettività, sia loro sia della società di revisione (ex art. 10, comma 1, d.lgs. n. 39/2010) è spiccato, come si desume dalla circostanza che il corrispettivo “non può essere subordinato ad alcuna condizione, non può essere stabilito in funzione dei risultati della revisione, né può dipendere in alcun modo dalla prestazione di servizi diversi dalla revisione alla società che conferisce l'incarico, alle sue controllate e controllanti, da parte del revisore legale o della società di revisione legale o della loro rete” (comma 9 dell'art. 10 cit.). Inoltre l'attività di revisione è improntata, oltreché ai dettami deontologici (transitoriamente assunti a parametro ex comma 3 dell'art. 11 d.lgs. n. 39/2010, a fianco, comunque, della regolamentazione della Consob), ad una fonte di diritto obiettivo, atteso che essa deve essere “svolta in conformità ai principi di revisione adottati dalla Commissione europea ai sensi dell'articolo 26, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/43/CE” (comma 1 dell'art. 11 cit.).

In evidenza: violazione degli obblighi inerenti all'ufficio e rispetto del principio di tassatività

La tassativizzazione delle violazioni è garantita sia in termini generali, al cospetto di un comprensivo dovere di indipendenza ed obiettività, sia in termini specifici, al cospetto del nugolo dei principi di revisione che tecnicamente informano l'attività su un piano obiettivo e che reclamano osservanza come regolamentazione di settore. Il principio di legalità, pertanto, è rispettato.

La condotta nella dinamica del fatto

La condotta si colloca tra antecedente dazione o promessa di utilità e susseguente causazione di nocumento alla società. La fattispecie ricalca quella dell'art. 2635, comma 1, c.c., condividendone le incertezze esegetiche.

Ad una prospettazione intesa a privilegiare la condotta, leggendo la causazione del nocumento in termini di semplice svolgimento della condotta sino alla realizzazione in danno, se ne affianca un'altra, che ingloba il nocumento nel fatto tipico. Secondo questa seconda prospettazione, ricorre un “delitto di evento di danno” perché “è necessario un duplice nesso causale: un primo nesso di carattere psicologico per cui la dazione o la promessa di denaro o di altra utilità devono avere indotto il revisore a compiere l'azione o l'omissione contraria ai doveri d'ufficio; un secondo nesso naturalistico, giacché la predetta azione od omissione deve avere causato il nocumento alla società” (TROYER-INGRASSIA, Prime riflessioni sullo statuto penale della revisione legale a seguito del D.Lgs. n. 39/2010, in Riv. dott. comm., 2010, 609).

Ne consegue la coincidenza del bene giuridico con il patrimonio della società, che

  • appare coerente con l'individuazione della società di revisione come fulcro della tutela in una prospettiva che “accentua l'infedeltà del revisore verso il proprio ente di appartenenza” (CENTONZE, La nuova disciplina penale della revisione legale dei conti, in Dir. pen. e proc., 2010, 668);
  • ma appare incoerente con lo statuto dei responsabili della revisione, atteso che, com'è stato scritto in relazione all'art. 10, lettera a), numero 13), dello schema di disegno di legge-delega per la riforma del diritto societario, “rispetto ai responsabili della revisione […], è evidente che la funzione da essi adempiuta non è riducibile alla tutela degli interessi societari e pertanto appare profondamente errata la formulazione della norma, dalla quale conseguirebbe l'impunità del fatto ogni volta che esso non comporti un ‘pericolo di nocumento per la società'” (SEMINARA, I reati dei revisori dei conti nel D.Lgs. n. 58 del 1998 e nel “Progetto Mirone”, in Banca borsa tit. cred., 2000, pag. 436).
Il regime di procedibilità

L'incongruenza sistemica dell'art. 28 d.lgs. n. 39/2010 si manifesta soprattutto nel comma 3, che, ribaltando la regola dell'art. 2635 c.c., sancisce il regime della procedibilità di ufficio così per il comma 2, cui, per quel che si dirà, essa si attaglia perfettamente, come però anche per il comma 1, cui, per quel che si è detto, essa non si attaglia affatto.

Rispetto al comma 1 dell'art. 28 d.lgs. n. 39/2010, la procedibilità di ufficio è posta a presidio di una tutela inidonea a superare il particulare della società di revisione. In senso contrario però può osservarsi che quest'ultima è un centro nevralgico nei mercati, sicché il nocumento relazional-reputazionale arrecatole si ripercuote sulla attendibilità dei risultati dell'attività dalla stessa condotta in relazione ad una platea indistinta di operatori.

Oltretutto la violazione dei doveri d'ufficio è comunque suscettibile di cagionare un danno alla società in una dimensione esterna alla luce dei primi due commi dell'art. 15 d.lgs. n. 39/2010, i quali prevedono che “i revisori legali e le società di revisione legale rispondono in solido tra loro e con gli amministratori nei confronti della società che ha conferito l'incarico di revisione legale, dei suoi soci e dei terzi per i danni derivanti dall'inadempimento ai loro doveri […]” e che “il responsabile della revisione ed i dipendenti che hanno collaborato all'attività di revisione contabile sono responsabili, in solido tra loro, e con la società di revisione legale, per i danni conseguenti da propri inadempimenti o da fatti illeciti nei confronti della società che ha conferito l'incarico e nei confronti dei terzi danneggiati […]” (anche se occorre fare i conti con quanto detta violazione ha eventualmente consentito di non spendere, “essendo il più delle volte impossibile stabilire se la condotta tenuta dal soggetto corrotto sia produttiva di un reale nocumento patrimoniale per la società alla luce dei risparmi di spesa altrimenti realizzabili”: SEMINARA, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, 990).

Consumazione e tentativo

La violazione causativa di nocumento alla società è punibile se realizzata “a seguito della dazione o della promessa di utilità”.

L'utilità, concetto ampio inglobante il denaro, oltreché regalie, servizi e vantaggi di ogni genere, può essere propria o altrui, sicché, a fronte di un silenzio normativo che evidenzia l'assenza di vincoli, l'ampia operatività della dazione o della promessa equipara la situazione a quella dell''art. 2635, comma 1, c.c., il quale nondimeno specifica che “denaro o altra utilità” possono essere “per sé o per altri”.

Proprio come nell'art. 2635, commi 1 e 2, c.c., la dazione o la promessa si collocano a monte della violazione del responsabile della revisione: quindi detta violazione presuppone la dazione o la promessa. Poiché però è proprio essa ad essere punita, a dispetto della rubrica, incentrata sulla “corruzione dei revisori”, la repressione si sposta oltre, quando, sottoforma di controprestazione, il responsabile della revisione realizza il nocumento alla società attraverso la violazione.

Rebus sic stantibus, emerge un disallineamento strutturale tra costui quale soggetto di quella che, secondo le categorie del diritto penale comune, potrebbe essere definita una corruzione passiva antecedente e il corruttore, ossia “chi – a termini dell'ultimo periodo del comma 1 dell'art. 28 d.lgs. n. 39/2010 – dà o promette l'utilità”. Solo il secondo, infatti, è punito per la condotta anticipata di dare o promettere l'utilità, non condividendo con il primo né la realizzazione della violazione né la causazione del nocumento.

Inoltre, se la dazione o promessa, da una parte, e la violazione, dall'altra, costituiscono prestazione e controprestazione di un accordo avente ad oggetto la corruzione, l'accordo è sottinteso alla stessa dazione o promessa, a seguito delle quali si realizza la violazione che cagiona il nocumento, ma non entra nel fatto tipico.

Immediata la conseguenza in punto di tentativo, ammissibile sul presupposto della necessaria realizzazione del danno: l'accordo, in quanto mero incontro delle volontà dei partecipi, non integra il tentativo e perciò va esente da punibilità. A fortiori va esente da punibilità il tentativo unilaterale, che, invece, nel sistema dei reati contro la P.A., trova sanzione ex art. 322 c.p.

La fattispecie del comma 2 in rapporto a quella del comma 1

Abissali sono le differenze tra il comma 2 e il comma 1, tanto che solo il comma 2, “pur nella sua settorialità”, in quanto limitato alla revisione legale, “è riconducibile al paradigma sanzionatorio della corruzione nel settore privato” di cui alla già ricordata Decisione-quadro 2003/568/GAI (IZZO, Corruzione dei responsabili della revisione e decisione quadro sull'eurocorruzione, in Il fisco, 2006, 1432).

Lampante è l'inasprimento della pena – che passa dalla reclusione sino a tre anni alla reclusione da uno a cinque anni – in correlazione con la natura di enti di interesse pubblico e società dai medesimi controllate delle strutture oggetto di revisione legale.

Il concetto di interesse pubblico degli enti (atteso l'elenco di cui agli artt. 1, lettera c), e 16, comma 1, d.lgs. n. 39/2010) non esige la pubblicità del capitale e neppure l'esercizio di servizi pubblici. Trattasi di operatori economici che direttamente od indirettamente influiscono sul mercato monetario, finanziario e creditizio. L'interesse pubblico, pertanto, attiene alla solidità – che presuppone la trasparenza – della moneta (anche elettronica), della finanza e del credito, da preservare da fonti di inquinamento le quali, non solo ridonderebbero in danno per investitori e risparmiatori, ma frustrerebbero le manovre di politica monetaria, finanziaria e creditizia delle Autorità italiane ed europee.

L'ambito soggettivo della fattispecie di cui al comma 2

Anche il comma 2 descrive un reato proprio, sebbene i soggetti passivi si allarghino sino a comprendere “i componenti dell'organo di amministrazione, i soci e i dipendenti della società di revisione legale”. La latitudine della formula sminuisce l'utilità dell'indicazione di una serie di soggetti, la cui unica peculiarità è il vincolo corrente con la società di revisione.

Peraltro, l'incriminazione di soci e dipendenti, ma in fondo anche dei componenti dell'organo amministrativo, desta perplessità laddove accredita la congettura che costoro debbano avere, se non un interesse, comunque un coinvolgimento nell'attività e nella sua estrinsecazione in violazione di moduli preminentemente tecnici. Invero s'è ritenuto che l'interesse pubblico meritasse la prevenzione di comportamenti illeciti anche da parte di soggetti non direttamente impegnati, come il responsabile della revisione legale, nell'espletamento dell'incarico, dimenticando tuttavia che l'essere amministratori o soci e viepiù dipendenti non implica alcun controllo sull'attività né l'assunzione di una sorta di posizione di garanzia.

Infine spicca la mancata considerazione che spesso l'incarico è espletato con la collaborazione di soggetti formalmente esterni alla società di revisione, i quali pure dovrebbero essere chiamati a rispondere del loro operato (come conferma l'art. 2635, comma 2, c.c. nel costruire una fattispecie di minore gravità commessa da “chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza” di uno dei soggetti qualificati del comma 1).

La punibilità del responsabile della revisione legale, dei componenti dell'organo di amministrazione, dei soci e dei dipendenti della società di revisione

Il responsabile della revisione legale e i componenti dell'organo di amministrazione, i soci e i dipendenti della società di revisione sono puniti in quanto, “nell'esercizio della revisione legale dei conti degli enti di interesse pubblico o delle società da queste controllate”, realizzano la solita condotta di compiere od omettere “atti in violazione degli obblighi inerenti all'ufficio” e ciò fanno – al di fuori dell'ipotesi dell'art. 30 d.lgs. n. 39/2010, che colpisce la percezione in sé di compensi sotto banco da parte dei medesimi – “per denaro o altra utilità”.

A differenza che nel comma 1, è la condotta a rilevare come violazione dei doveri d'ufficio; ma, se è concepibile un fascio di obblighi inerenti all'ufficio di componente dell'organo di amministrazione, altrettanto non può dirsi a proposito di soci e dipendenti, che non rivestono alcuna carica e neppure occupano alcun ufficio. Occorre dunque riferirsi all'“esercizio della revisione legale dei conti”, sicché gli obblighi oggetto di possibile violazione attengono al modo di svolgimento dell'attività, rispetto al quale componenti dell'organo di amministrazione, soci e dipendenti sono responsabili quanto ad indirizzi, supporti, garanzia di inavvicinabilità, nonché predisposizione di piani di prevenzione dei rischi specifici anche ai sensi dell'art. 10, commi 5 e 6, d.lgs. n. 39/2010.

Più approfonditamente, rileva, ma non anche per i dipendenti, l'art. 10, comma 8, cit., secondo cui “i soci e i componenti dell'organo di amministrazione della società di revisione legale o di un'affiliata non possono intervenire nell'espletamento della revisione legale in un modo che può compromettere l'indipendenza e l'obiettività del responsabile della revisione”.

Anche i dipendenti sono invece chiamati in causa dall'art. 17 d.lgs. n. 39/2010, che, al comma 3, pone il divieto per revisori legali, società di revisione legale ed entità appartenenti alla loro rete, soci, amministratori, componenti degli organi di controllo e dipendenti di fornire una serie di servizi all'ente di interesse pubblico che ha conferito l'incarico di revisione e alle società controllate o controllanti o sottoposte a comune controllo. La circostanza che la violazione del divieto di cui si tratta – unitamente alla violazione di quelli dei commi 5 e 6 in punto di impossibilità nel biennio di assunzione di determinate cariche in società ed enti sottoposti a revisione da parte di chi la revisione ha condotto e di effettuazione della revisione dell'ente di interesse pubblico e delle società dal medesimo controllate da parte di chi ha in esso rivestito ruoli di responsabile contabile-finanziario – sia “punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da centomila a cinquecentomila euro irrogata dalla Consob” non osta alla valorizzazione della corrispondente previsione quale fonte altresì rilevante ex comma 2 dell'art. 28 in commento.

Bene giuridico e struttura della fattispecie di cui al comma 2

Nel comma 2 dell'art. 28 d.lgs. n. 39/2010 alla commissione od omissione di atti in violazione degli obblighi inerenti all'ufficio non si accompagna la specificazione, propria dell'art. 2635 c.c., che deve realizzarsi un nocumento alla società, ossia alla società di revisione. Pertanto la fattispecie in esame spicca perché elimina il danno dall'elemento materiale del reato, integrato dalla semplice condotta violativa dei doveri d'ufficio.

Il bene giuridico attinge la tutela di un interesse superindividuale e comunque extra-sociale, qual è la pubblica fede riposta nella veridicità, obiettività e trasparenza degli esiti della revisione.

La dottrina sulle differenze tra il comma 1 ed il comma 2 dell'art. 28 d.lgs. n. 39/2010

(CONSULICH, Revisione contabile e responsabilità penale tra riforme e controriforme, in Le società, 2010, suppl. spec. al n. 8, D.Lgs. n. 39/2010: la revisione legale, 49)

Nel comma 1, dalla premessa che “la dazione o promessa di utilità in cambio della violazione dei propri doveri che produce un danno alla società di appartenenza - benché l'art. 28 infatti non specifichi quale sia la società che debba patire il nocumento - colora la

corruzione

privata del

revisore

con i toni dell'infedeltà patrimoniale, avvicinandola al paradigma dell'art. 2635 c.c.” discende la conseguenza che “la presenza del danno, nella forma del nocumento, priva di tutela beni giuridici esogeni alla società del soggetto infedele, si pensi ad esempio ad interessi di carattere concorrenziale; richiedere il danno in capo all'organizzazione di appartenenza focalizza la tutela sugli interessi particolari della compagine sociale”.

Nel comma 2, la criminalizzazione dello scambio corrotto nel contesto di una revisione di interesse pubblico, prescindendo dal verificarsi di una qualsiasi conseguenza dannosa, è coerente con la ricostruzione della sottofattispecie in termini di

corruzione

privata ad ampio spettro di tutela, cioè comprensivo di interessi pubblici e privati: in seno al medesimo articolo convivono quindi due strumenti repressivi alquanto diversi per spettro di tutela e sostrato empirico-criminologico di riferimento”.

Iscritto in tale cornice, il comma 2 è sussumibile ad un tempo nella categoria dei reati di mera condotta ed in quella di pericolo astratto: nella prima in quanto è la condotta quella che conta; nella seconda in quanto, consistendo essa nella violazione di doveri d'ufficio che presidiano il corretto esercizio dell'attività, l'incriminazione tende ad eliminare il pericolo che la loro inosservanza intacchi il bene giuridico.

Se ne trae la duplice conseguenza

  • dell'anticipazione della tutela, “dovuta alla valenza macroeconomica del bene tutelato, ovvero la trasparenza e la veridicità dell'informazione societaria” (TROYER-INGRASSIA, op. cit., 610);
  • dell'irrilevanza della causazione del nocumento alla società e, oltre, al mercato, in termini sia di consumazione della fattispecie sia di un non previsto, ma forse opportuno, aggravamento sanzionatorio (tanto più alla luce del salto logico rispetto alla previsione della circostanza aggravante dell'art. 32, comma 1, d.lgs. n. 39/2010).

Il sinallagma corruttivo

La violazione dei doveri d'ufficio deve essere compiuta “per denaro o altra utilità data o promessa”.

L'abbandono del riferimento temporale nel comma 1 e nell'art. 2635 c.c. introdotto dall'espressione: “[…] a seguito della dazione o della promessa di utilità” evidenzia il sinallagma tra la dazione o la promessa e la violazione, ma contemporaneamente apre alla possibilità che esse siano successive alla violazione.

Questa deve essere commessa “per” e quindi in cambio di “denaro o altra utilità”; il sinallagma presuppone l'accordo, il quale assume valenza corruttiva nei termini dichiarati dalla rubrica dell'art. 28 in commento; tuttavia nulla esige che l'accordo sia antecedente, ben potendo il responsabile della revisione e gli altri intranei compiere la violazione sulla ragionevole sicurezza che un accordo sarà poi raggiunto. Pare dunque scorgersi uno spazio per un accordo susseguente.

L'incriminazione è estesa “a chi dà o promette l'utilità”, punito per il sol fatto di dare o promettere l'utilità, non concorrendo materialmente nella condotta dei soggetti qualificati: sicché, ancora una volta, si realizza un'asimmetria rispetto a questi ultimi.

Nondimeno resta fermo che l'accordo, su cui si concentra la corruzione, non entrando nel fuoco del fatto, è di per sé solo inidoneo ad assurgere a rilevanza penale anche come tentativo.

Profili relativi alla successione di leggi penali nel tempo

Si sono analizzate le due anime dell'art. 28 d.lgs. n. 39/2010.

Il comma 1 duplica l'art. 2635, comma 1, c.c., estendendo la punizione di una semplice infedeltà patrimoniale anche ai responsabili della revisione, espunti dall'art. 2635, comma 1, c.c. dall'art. 36, comma 37, d.lgs. n. 39/2010. Confrontando l'art. 2635, comma 1, c.c. con il comma 1 dell'art. 28 d.lgs. n. 39/2010, si apprezza una perfetta coincidenza. Ne consegue un'altrettanto perfetta continuità normativa.

Quanto al comma 2 dell'art. 28 d.lgs. n. 39/2010, esso tiene luogo dell'art. 174-ter d.lgs. n. 58/1998, abrogato dall'art. 40, comma 21, d.lgs. n. 39/2010, che, al comma 1, così recitava: “Gli amministratori, i soci, i responsabili della revisione contabile e i dipendenti della società di revisione, i quali, nell'esercizio della revisione contabile delle società con azioni quotate, delle società da queste controllate e delle società che emettono strumenti finanziari diffusi fra il pubblico in misura rilevante […], per denaro o altra utilità data o promessa, compiono od omettono atti in violazione degli obblighi inerenti all'ufficio, sono puniti con la reclusione da uno a cinque anni” e, al comma 2, soggiungeva: “La stessa pena […] si applica a chi dà o promette l'utilità”.

Alla stregua delle osservazioni compiute, tenuta presente la novità dell'introduzione degli enti di interesse pubblico ad opera dell'art. 16 d.lgs. n. 39/2010, continuità normativa si dà in relazione esclusivamente alle società quotate, alle società da esse controllate ed alle società emittenti strumenti finanziari diffusi. Pertanto, laddove la revisione cada su operatori differenti, ancorché poi qualificabili come enti di interesse pubblico, l'incriminazione è inapplicabile ai fatti commessi prima della novella.

La mancata previsione della corruzione dei revisori nel catalogo dei reati fondanti la responsabilità penale-amministrativa degli enti

La corruzione dei revisori continua a non rientrare tra i reati fondanti la responsabilità penal-amministrativa degli enti ex d.lgs. n. 231 del 2001.

La dottrina osserva che “sembra difficile pensare ad una svista del legislatore”, dovendosi pensare ad una “scelta di deresponsabilizzazione delle società di revisione” (TROYER-INGRASSIA, op. cit., 601). Invero, a fronte di un numero esiguo di società di revisione attive sui mercati europei, “un regime sanzionatorio … che [colpisse] direttamente la persona giuridica, in aggiunta alla responsabilità civile per il risarcimento del danno (in regime di solidarietà con la società assoggettata a revisione), [avrebbe potuto] comportare un'ulteriore restrizione delle accounting firms, senza determinare un significativo aumento della deterrenza rispetto a pratiche fraudolente e corruttive” (CONSULICH, Corruzioni private e pubblico risparmio. Riflessioni teoriche sul nuovo statuto penale del revisore contabile, in Giur. comm., 2009, 4 795).

Ad ogni buon conto, il comma 1 dell'art. 28 d.lgs. n. 39/2010 pare, nella declinazione tipica, strutturalmente incompatibile con una responsabilità dell'ente, atteso che l'infedeltà patrimoniale deve cagionare un nocumento alla società, mentre, ai sensi dell'art. 5, comma 1, d.lgs. n. 231/2001, l'ente risponde solo se il fatto di reato è commesso nel suo interesse o a suo vantaggio.

Riferimenti

Riferimenti normativi:

  • art. 1 D.Lgs. n. 39/2010;
  • art. 9 D.Lgs. n. 39/2010;
  • art. 10 D.Lgs. n. 39/2010;
  • art. 11 D.Lgs. n. 39/2010;
  • art. 15 D.Lgs. n. 39/2010;
  • art. 16 D.Lgs. n. 39/2010;
  • art. 17 D.Lgs. n. 39/2010;
  • art. 28 D.Lgs. n. 39/2010;
  • art. 30 D.Lgs. n. 39/2010;
  • art. 32 D.Lgs. n. 39/2010;
  • art. 36 D.Lgs. n. 39/2010;
  • art. 174-ter D.Lgs. n. 58/1998 (abrogato);
  • art. 29 L. n. 34/2008;
  • art. 2635 c.c.;
  • art. 322 c.p.;
  • Decisione-quadro 2003/568/GAI;
  • D.Lgs. n. 231/2001.

Bibliografia:

  • Troyer-Ingrassia, Prime riflessioni sullo statuto penale della revisione legale a seguito del D.Lgs. n. 39/2010, in Riv. dott. comm., 2010, 609;
  • Centonze, La nuova disciplina penale della revisione legale dei conti, in Dir. pen. e proc., 2010, 668;
  • Seminara, I reati dei revisori dei conti nel D.Lgs. n. 58 del 1998 e nel “Progetto Mirone”, in Banca borsa tit. cred., 2000, 436;
  • Izzo, Corruzione dei responsabili della revisione e decisione quadro sull'eurocorruzione, in Il fisco, 2006, 1432.
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