Responsabilità aggravata: c’è abuso del diritto di impugnazione solo in caso di vacuità e pretestuosità delle argomentazioni difensive

14 Agosto 2019

Nella sentenza n. 18745 del 2019 la Terza Sezione della Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso e decidendo nel merito, elimina la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata ex art. 96, comma 3, c.p.c. a carico della parte soccombente nel giudizio di appello.

Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 18745/2019; depositata il 12 luglio.


Il Collegio esclude che la mera conoscenza della esistenza di contrastanti orientamenti di merito, alcuni espressione di una posizione contraria a quella fatta propria dell'impugnante, sia di per sé sufficiente a qualificare la proposizione dell'appello come abuso del mezzo di impugnazione, perché “solo la vacuità e la vuota pretestuosità delle argomentazioni utilizzate potrebbero portare a tanto qualora si spingessero ai confini della mala fede: diversamente opinando, lo strumento dell'art. 96, comma 3, c.p.c., nato per contenere l'abuso degli strumenti processuali di per sé leciti, verrebbe adattato all'uso distorto di dissuadere ogni tentativo di sovvertire, a mezzo della impugnazione, un precedente orientamento giurisprudenziale”.
Nella sentenza impugnata la condanna del soccombente per responsabilità aggravata è stata fondata sulla mancata presa in considerazione di uno specifico orientamento seguito dal singolo estensore della sentenza: secondo il Giudice di legittimità, tale criterio è errato “perché in caso di unico giudicante implicherebbe una inammissibile colpevolizzazione, sotto il profilo della condanna pecuniaria, di ogni tentativo di modificare un precedente orientamento giurisprudenziale”, mentre, “in caso di ripartizione (non contestata) della materia tra diverse sezioni di un medesimo ufficio giudiziario, l'orientamento contrario di un singolo magistrato dell'ufficio sarebbe di per sé irrilevante, anche in ragione dell'automaticità dell'assegnazione delle cause”.

La decisione. La Corte di Cassazione ricorda che l'abuso del diritto di impugnazione consiste “nello sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali ed in un ingiustificato aumento del contenzioso che ostacoli la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione”, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte.
Per argomentare le proprie statuizioni il Collegio richiama alcuni precedenti in materia.
La responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell'ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l'infondatezza o l'inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate. Sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell'azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (Cass. civ., Sez. Un., 20 aprile 2018, n. 9912, in CED Cass., Rv. 648130).
Tale condanna è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all'esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall'art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della potestas agendi con un'utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne consegue che la condanna, al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede né la domanda di parte né la prova del danno, essendo tuttavia necessario l'accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede (consapevolezza dell'infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell'ordinaria diligenza volta all'acquisizione di detta consapevolezza), venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell'iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (Cass., sez. unite civ., 13 settembre 2018, n. 22405, in CED Cass., Rv. 650452).

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