COVID e scudo penale per le imprese: ragioni per escluderne la ragionevolezza

Ferdinando Brizzi
19 Giugno 2020

Sulla G.U. del 6 giugno 2020 è stato pubblicato il testo coordinato, con vigenza in pari data, con la l. di conversione n. 40/2020, del d.l. 8 aprile 2020, n. 23. Tra le modifiche più rilevanti apportate in sede di conversione figurano gli Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da Covid-19
Introduzione

Sulla G.U. del 6 giugno 2020 è stato pubblicato il testo coordinato, con vigenza in pari data, con la l. di conversione n. 40/2020, del d.l. 8 aprile 2020, n. 23 recante Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali. Tra le modifiche più rilevanti apportate in sede di conversione figurano gli Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, articolo 29-bis: ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'art. 2087 del codice civile mediante all'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'art. 1 c. 14 del d.l. 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Tale disposizione segna il punto di arrivo di un percorso avviato dal decretolegge n. 18/2020 (convertito in legge 24 aprile 2020, n. 27), che all'articolo 42 aveva introdotto l'espressa qualificazione del contagio da Covid-19 come infortunio avvenuto in occasione di lavoro, con conseguente erogazione delle prestazioni Inail. La norma aveva immediatamente scatenato una serie di polemiche, incentrate sulla incongruenza tra la natura di rischio generico del Covid-19 e la qualificazione come infortunio sul lavoro (il rischio generico non rientra nella tutela assicurativa Inail) e sulle potenziali conseguenze del riconoscimento dell'infortunio da parte dell'Inail ai fini della responsabilità penale e civile.

Il dibattito che ha preceduto l'approvazione della norma

Caratteristica comune, nel corso di tutta la crisi sanitaria, è stata il profluvio di atti normativi, emanati da una molteplicità di fonti (Parlamento, Governo, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministri, Regioni, Enti Locali), al fine di governare un contesto in rapida evoluzione e, senz'altro, di difficile gestione.

A fronte di una situazione siffatta, era inevitabile che il repentino susseguirsi di leggi, decreti, regolamenti, ordinanze e protocolli creasse un certo disorientamento nell'opinione pubblica: particolarmente emblematico, da questo punto di vista, è il caos che si è creato attorno all'art. 42, co. 2 d.l. 18/2020 (c.d. decreto Cura Italia) il quale, in estrema sintesi e per quanto qui di interesse, ha stabilito che l'infezione da Covid-19, contratta in occasione di lavoro, costituisce infortunio sul lavoro e dà quindi diritto all'indennizzo INAIL

Se, nelle intenzioni del legislatore, la norma in parola era volta unicamente a disciplinare, peraltro in senso favorevole ai lavoratori e agli imprenditori, i profili assicurativi correlati al contagio da coronavirus in ambito lavorativo, del tutto diversa è stata la lettura che ne è stata data da parte del mondo imprenditoriale e, si deve osservare, anche da alcuni dei primi commentatori.

In sintesi, questi hanno ritenuto che la predetta disposizione, nel qualificare come infortunio, anziché come malattia, l'infezione da Covid-19, costituisse la chiave di volta per attribuire al datore di lavoro la responsabilità penale per le morti (art. 589 c.p.) o le lesioni (art. 590 c.p.) patiti dai propri dipendenti a causa del virus. Da qui la pressante richiesta a Governo e Legislatore di porre rimedio a questa situazione, approntando uno scudo penale volto a tutelare da tali contestazioni gli imprenditori alle prese con la difficile sfida della prosecuzione – o della ripartenza – delle attività lavorative in un contesto sanitario ancora connotato dalla presenza del virus.

A ben vedere, l'art. 42, co. 2 d.l. n. 18/2020 non ha in alcun modo mutato la responsabilità correlata agli infortuni sul lavoro, né – da un punto di vista penalistico – ha alcuna rilevanza il fatto che la trasmissione del virus venga qualificata come infortunio o malattia, essendo entrambe le ipotesi pacificamente riconducibili agli artt. 589 e 590 c.p.

Ciò che desta maggior sconcerto, tuttavia, è che a tale istanza si sia dato seguito, con una proposta di emendamento volta a offrire una tutela giuridica contro queste incriminazioni.

All'origine della diatriba potrebbero rinvenirsi due distinti fenomeni, consistenti o in un sincero fraintendimento circa le concrete ricadute di tale disposizione o nel tentativo di sfruttare l'occasione per chiedere un generale salvacondotto circa le responsabilità penali correlate agli infortuni sul lavoro.

Partendo da quest'ultima ipotesi, si tratta evidentemente di una richiesta che non pare meritevole di accoglimento, non essendo certamente auspicabile – né consentita – l'introduzione di una disciplina di favore per i datori di lavoro che non rispettino la normativa prevenzionistica.

Questione diversa, e ben più seria, è invece quella relativa a una corretta applicazione della normativa nel settore in esame, scevra da forme occulte di responsabilità da posizione, di cui talvolta si continua a trovare traccia nella giurisprudenza.

Per quanto attiene invece ai timori di coloro che ritengono che l'art. 42 del decreto Cura Italia abbia di fatto aggravato la posizione degli imprenditori, consentendo di addebitare loro le eventuali morti o lesioni riportate dai rispettivi dipendenti a causa del virus, si tratta di preoccupazioni destituite di fondamento, poiché ciò non dipende minimamente dalla norma in parola.

Non è stata sufficiente neppure la Circolare INAIL n. 22 del 20 maggio 2020 per chiarire l'equivoco e si è così pensato di intervenire normativamente per introdurre l'invocato scudo penale.

In particolare, il testo dell'emendamento è stato così formulato:

«1. Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'articolo 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».

Tralasciando talune criticità redazionali – a mero titolo d'esempio, si citano gli obblighi di cui all'art. 2087 c.c., mentre nulla si dice in merito a quelli di cui al d.lgs. n. 81/2008 – ciò che si fa fatica a cogliere è il senso stesso della norma. Qualora infatti i datori di lavoro diano concreta applicazione ai protocolli o agli accordi citati – i quali necessitano comunque di essere integrati e adeguati allo specifico contesto applicativo – avranno già diligentemente ottemperato ai loro doveri, ragion per cui, anche in caso di infortunio, sarà ben difficile poter muovere loro un rimprovero. In altri termini, il corretto assolvimento degli obblighi prevenzionistici esclude già la colpa e, quindi, la responsabilità penale del datore di lavoro. Né si può sostenere che lo scudo sia volto a prevenire anche il semplice instaurarsi di un procedimento penale e dei correlati risvolti negativi sull'attività d'impresa, poiché l'avvio dell'azione penale – oltre che imposto dall'art. 112 Cost. – sarebbe pur sempre necessario per verificare l'assolvimento degli oneri comunque imposti al datore di lavoro.

La proposta di Confindustria

Confindustria aveva sollecitato immediatamente sia una precisazione da parte dell'INAIL sia l'emanazione di una norma che riferisse puntualmente l'eventuale responsabilità alla mancata osservanza del Protocollo richiamato dal DPCM 17 maggio 2020, in luogo del consueto rinvio alla generica norma contenuta nell'art. 2087 c.c.

La proposta di Confindustria faceva riferimento alla qualificazione del protocollo come misura costituente il massimo standard di sicurezza adottabile per la tutela della salute e sicurezza e alla esclusione della responsabilità derivante da qualsiasi forma di contagio, qualificando la diffusione dell'infezione da Covid-19 come ipotesi di forza maggiore, tale da attivare la norma contenuta nell'art. 5, comma 4, della direttiva 89/391/CE del 12 giugno 1989.

Il testo elaborato in sede parlamentare, pur meno preciso di quello proposto da Confindustria, ha fatto comunque espresso riferimento all'articolo 2087 c.c., assegnando al Protocollo la precisa funzione di prendere il posto dei contenuti indeterminati della norma civilistica, in linea con la portata che Confindustria intendeva assegnare al Protocollo.

Le imprese non hanno evidentemente responsabilità nella presenza del virus, dunque non occorre uno scudo penale quanto, piuttosto, l'indicazione puntuale di quali debbano essere gli obblighi dell'azienda nell'attuale situazione di emergenza, così assicurando il rispetto del principio di legalità e certezza del diritto, in adesione alla giurisprudenza di legittimità:

In tema di responsabilità per reato colposo di evento risulta indispensabile non solo individuare il soggetto al quale viene contestato di aver cagionato l'evento tipico; operazione che conduce a ricercare, sulla scorta del contesto normativo pertinente o della situazione di fatto, chi fosse nel caso concreto il gestore del rischio che si è concretizzato nell'evento. Ma è altresì necessario individuare anche la condotta doverosa che doveva essere concretamente posta in campo. Espressi tali concetti nei termini che la più recente giurisprudenza di legittimità mostra di adottare, può dirsi che oltre a cogliere la norma di dovere, donde deriva lo status di gestore del rischio, il giudice deve anche individuare la regola cautelare, di natura necessariamente modale, che specificando il concreto da farsi si integra con la prima e dà contenuto concreto, specifico ed attuale all'obbligo di sicurezza (cfr. Cass. pen., Sez. IV, n. 12478 del 19/11/2015 - dep. 24/03/2016, P.G. in proc. e altri in proc. Barberi e altri, Rv. 267813, per la quale, in tema di reati colposi, la regola cautelare alla stregua della quale deve essere valutato il comportamento del garante, non può rinvenirsi in norme che attribuiscono compiti senza individuare le modalità di assolvimento degli stessi, dovendosi, invece, aver riguardo esclusivamente a norme che indicano con precisione le modalità e i mezzi necessari per evitare il verificarsi dell'evento).

Dunque, le regole cautelari che indicano con precisione le modalità ed i mezzi necessari sono individuate nel Protocollo (in particolare, quello adottato ed attualizzato in azienda) e si sostituiscono a norme che attribuiscono compiti senza individuare le modalità di assolvimento degli stessi (art. 2087 c.c.).

La Relazione parlamentare evidenzia proprio il fatto che “l'articolo 29-bis, introdotto nel corso dell'esame presso la Camera dei deputati, definisce il contenuto dell'obbligo di tutela della integrità psico-fisica del lavoratore prevista dall'articolo 2087 del Codice civile a carico dei datori di lavoro pubblici e privati, con specifico riferimento al rischio di contagio da Covid-19”.

La centralità dell'art. 2087 c.c. anche in sede penale

Il testo di legge viene così a riassegnare in modo esplicito centralità a una norma, l'art. 2087 del codicecivile, sin qui tropo spesso trascurata proprio dagli imprenditori e, più in generale, di chi si occupa di sicurezza sul lavoro.

Dinanzi alle esigenze di una pandemia devastante per la salute collettiva e in continua ascesa, il Governo ha promosso l'emanazione di un apparato normativo destinato a contenere la diffusione del contagio, proteggere i lavoratori e, con essi, il resto della popolazione.

In particolare, per quanto di interesse in questa sede, ha proceduto d'urgenza con un primo decreto legge (n. 19 del 2020) alla sospensione di molte attività produttive; e per quelle non sospese ha stabilito che si potessero svolgere previa assunzione delle misure idonee a garantire il rispetto di adeguata distanza di sicurezza interpersonale, protocolli di sicurezza anti-contagio, strumenti di protezione individuale.

Successivamente (il 14 marzo e il 24 aprile 2020), le parti sociali, tra cui Confindustria, hanno tempestivamente sottoscritto, d'intesa con il Governo, due protocolli condivisi di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro.

Gli stessi protocolli sono stati quindi resi obbligatori, per tutta la durata della pandemia, rispettivamente, con i DPCM del 10 aprile e del 26 aprile 2020 (che ne ha previsto anche l'allegazione), per le imprese le cui attività non fossero sospese o fossero riprese dopo la sospensione.

Le misure previste dai protocolli vanno dagli obblighi di informazione alle distanze di sicurezza, dalla sanificazione degli ambienti all'accesso in azienda, dagli strumenti di protezione individuale alla gestione degli spazi comuni; dai trattamenti dei sintomatici in azienda alle regole sugli spostamenti interni e sullo svolgimento delle riunioni. Una serie di regole precauzionali che rispecchia la gerarchia dei valori costituzionali e il principio di solidarietà sociale (artt.2, 32 e 41 Cost.); si integra nel sistema di prevenzione in vigore (T.U. 81/2008 e art. 2087 c.c.) e si conforma alle raccomandazioni precauzionali fornite dall'OMS.

Lo scopo di tali regole è quello di fronteggiare una pandemia che si trasmette attraverso il contatto tra le persone e le goccioline veicolate con la respirazione; e che richiede pertanto di osservare misure di distanziamento, di adottare dispositivi di protezione personale, regole igieniche e quanto altro necessario per evitare la trasmissione.

Si tratta di regole universalmente valide in funzione del pericolo, e la cui adozione sarebbe stata comunque obbligatoria per il datore di lavoro già sulla scorta delle norme di carattere generale presenti nel nostro ordinamento come l'art. 2087 cc, l'art. 9 dello Statuto dei lavoratori, l'art. 15 del T.U. n. 81/2008.

In particolare l'art. 2087 del codice civile, risalente al 1942, prevede che “l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Secondo la giurisprudenza unanime la disposizione, ha funzione di adeguamento dell'ordinamento alla complessità della realtà socioeconomica, intervenendo, in via sussidiaria, anche laddove la specifica normativa di settore – inidonea a contemplare ogni fattore di rischio – presenti eventuali lacune. Conseguentemente, il datore di lavoro deve osservare, oltre a tutta la normativa di settore, anche le comuni regole di prudenza, diligenza e perizia, onde adottare tutte le misure imposte dalla particolarità del lavoro, dall'esperienza e dalla tecnica. Costituisce ius receptum il principio secondo cui, alla stregua delle norme in tema di sicurezza sul lavoro, la parte datoriata è tenuta a predisporre le migliori - anche "atipiche"- misure tecnicamente possibili, di tipo igienico, sanitario e antinfortunistico (cfr. da ultimo Cass. pen. Sez. IV, 29-01-2020, n. 10135)

La norma individua il contenuto del dovere di sicurezza attraverso criteri elastici che evitano la cristallizzazione di regole cautelari e impongono un continuo aggiornamento dei mezzi e delle misure da adottare, pur specificamente previste dalla normativa (d.lgs. n. 626/1994 o T.U: n. 81/2008) e rese eventualmente obsolete dallo sviluppo scientifico e tecnico.

Si dice pertanto che l'art. 2087 c.c. assicura, in questo modo, la chiusura dell'apparato normativo di tutela prevenzionale, anche dal punto di vista penalistico; integrando una previsione che consente di ampliare in continuo l'obbligazione di sicurezza posta dalla legge a carico dell'imprenditore.

Pertanto per configurare la responsabilità penale del datore di lavoro, in materia di infortuni e malattie professionali, non occorre che sia integrata la violazione di specifiche norme cogenti dettate per la prevenzione degli infortuni, essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa dell'omessa adozione di quelle misure e accorgimenti imposti all'imprenditore dalla scienza e dalla tecnica (e dal buon senso) ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore (Cass. pen. Sez. IV, 20-02-2019, n. 22550)

Dunque si può riassumere sul punto, che in materia di misure di prevenzione il Governo si è limitato a rendere obbligatoria l'osservanza di regole precauzionali individuate con l'intesa delle stesse parti sociali. Regole che in mancanza di qualsiasi disposizione prescrittiva sarebbero divenute ugualmente obbligatorie per ogni imprenditore sulla scorta dello svolgimento di una qualsiasi prestazione di lavoro, ancorché nulla o di fatto, ai sensi dell'art.2087 cc.

Il rapporto con il d.lgs. n. 81/2008

L'articolo 29-bis non richiama il d.lgs. n. 81/2008, nell'evidente presupposto che esso rimane pienamente in vigore e se ne dovranno continuare ad applicare le disposizioni. Il Protocollo, in effetti, non supera o modifica le norme ordinariamente vigenti ma individua le misure idonee per far fronte al virus, restando al di fuori del quadro normativo disegnato dal d.lgs. n. 81/2008.

Resta confermata – per quanto vi siano voci discordanti - l'esclusione dell'obbligo di valutazione dei rischi. Il rischio derivante dal Covid-19 non rientra tra quelli che possono costituire oggetto di valutazione, perché non è riconducibile all'attività del datore di lavoro. Piuttosto, esso si concretizza in una situazione esterna che si può riverberare sui lavoratori all'interno dell'ambiente di lavoro per effetto di dinamiche esterne, non controllabili dal datore di lavoro. Si tratta, dunque, di un rischio non riconducibile all'attività e ai cicli di lavorazione e, quindi, non rientra nella concreta possibilità di valutarne con piena consapevolezza tutti gli aspetti gestionali, in termini di eliminazione alla fonte o riduzione dello stesso, mediante l'attuazione delle più opportune e ragionevoli misure di prevenzione tecniche organizzative e procedurali tecnicamente attuabili.

In linea con queste motivazioni, espresse dall'Ispettorato nazionale del lavoro (Nota n. 89/2020) e dalla Regione Veneto ("Manuale per la ripresa delle attività produttive" approvato con DGR n. 601 del 12.05.2020), si rileva che il DPCM 17 maggio 2020, all'allegato 17 (relativo alle indicazioni della Conferenza delle Regioni) dispone, con riferimento ai Protocolli, che “tali procedure/istruzioni operative possono coincidere con procedure/istruzioni operative già adottate, purché opportunamente integrate, così come possono costituire un addendum connesso al contesto emergenziale del documento di valutazione dei rischi redatto ai sensi del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81”.

Dunque, si conferma ulteriormente l'esclusione di un obbligo di aggiornamento del DVR, ritenendo sufficiente che il Protocollo costituisca un addendum al DVR stesso.

Da questo punto di vista, sarà opportuno che il Protocollo rappresenti compiutamente il nuovo quadro organizzativo aziendale, aggiornato alle esigenze di sicurezza determinate dalla situazione di emergenza, quale supporto al personale ispettivo nella verifica della corretta ed efficace applicazione del Protocollo stesso.

Vista la finalità di prevenzione generale cui è ispirata la ratio della normativa in materia di sicurezza e igiene del lavoro, una delle Procure maggiormente interessate dalla diffusione del contagio, quella presso il Tribunale di Bergamo, Indicazioni operative per la verifica dell'applicazione dei protocolli condivisi di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento del virus Covid-19 ex art. 2 comma 6 DPCM 26.04.2020, nota del 13 maggio 2020, prot. n. 1104, ritiene consigliabile reperire, nelle misure di contenimento contenute nel Protocollo condiviso o negli altri due protocolli, i precetti che corrispondono alle norme del D.Lgs. 81/2008.

In questo senso “in caso di inadempimento alle misure contenute in uno dei protocolli e, contemporaneamente, di violazione ad una delle norme del D.Lgs. 81/2008, andrà applicata la procedura di cui all'art. 301 del D.Lgs. 81/2008 e conseguentemente le disposizioni di cui agli art. 20 e seguenti del D.Lgs. 758/1994, impartendo al trasgressore la prescrizione volta alla regolarizzazione della situazione antigiuridica”.

Riguardo al reperimento dei precetti che corrispondono alle norme del decreto legislativo n. 81 del 9 aprile 2008 e prendendo in analisi le misure previste dal Protocollo condiviso, a solo scopo esemplificativo il documento della Procura riporta i seguenti punti:

punto 1 "INFORMAZIONE" – “si propone di contestare al datore di lavoro/dirigente la violazione dell'art. 36 c. 2 lett. a): per non aver provveduto affinché ciascun lavoratore ricevesse una adeguata informazione sui rischi specifici cui è esposto in relazione all'attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia”;

punto 4 "PULIZIA E SANIFICAZIONE IN AZIENDA" – “si propone di contestare al datore di lavoro/dirigente la violazione dell'art. 63 c. 1, in combinato disposto con l'art. 64 c. 1 lett. d) e l'All. IV punto 1.1.6.: per non aver mantenuto puliti i locali di lavoro, facendo eseguire la pulizia”;

punto 5 "PRECAUZIONI IGIENICHE PERSONALI" – “si propone di contestare al datore di lavoro/dirigente la violazione dell'art. 18 c. 1 lett. f): per non aver richiesto l'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro”;

punto 6 "DISPOSITIVI DI PROTEZIONE INDIVIDUALE" – “si propone di contestare al datore di lavoro/dirigente, in caso di mancata fornitura dei DPI previsti dal Protocollo condiviso, la violazione dell'art. 18 c. I let. d): per non aver fornito ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente, ove presente”.

Il documento ricorda, infine, che con specifico riferimento alle mascherine chirurgiche, il Governo ha previsto un'apposita norma avente forza di legge, secondo cui: “per contenere il diffondersi del virus Covid-19, fino al termine dello stato di emergenza di cui alla delibera del Consiglio del ministri in data 31 gennaio 2020, sull'intero territorio nazionale, per i lavoratori che nello svolgimento della loro attività sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, sono considerati dispositivi di protezione individuate (DPI), di cui all'articolo 74, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n.81, le mascherine chirurgiche reperibili in commercio. il cui uso è disciplinato dall'articolo 34, comma 3, del decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9" (articolo 16, c. 1, d.l. n. 18 del 25.03.2020).

In particolare: l'art. 30 del d.lgs. n. 81/2008

Le puntuali indicazioni desumibili dalla nota della Procura di Bergamo consigliano dunque di rinvenire proprio nel d.lgs. n. 81/2008 le norme di riferimento per contenere la diffusione del virus: in tale prospettiva, pare opportuno, se non addirittura obbligatorio, intervenire sui Modelli 231 già adottati.

A ben vedere, si tratta di attività di gestione del rischio che dovrebbero essere già contemplate da Modelli 231 che siano stati adeguatamente congegnati, secondo la logica e la struttura fissate, in termini chiarissimi, dall'art. 30 d.lgs. n. 81/2008.

La previsione di cui all'art. 30 comma 1 lettera a), in particolare, già imponeva ai Modelli 231 di creare “un sistema aziendale per l'adempimento degli obblighi giuridici relativi al rispetto degli standard tecnico strutturali di legge relativi a attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici”: obbligo organizzativo che, se tradotto correttamente in “protocollo 231” (cioè formalizzato in apposite procedure operative), condurrebbe oggi le c.d. funzioni coinvolte – senza alcuna necessità di integrare il Modello o adottare nuovi protocolli – ad attuare quel monitoraggio costante dei provvedimenti adottati dalle Autorità e dagli Enti che oggi stanno svolgendo il compito, come si è visto, di enucleare le regole di prevenzione del rischio reato in azienda.

Sulla stessa linea si pone la prescrizione di cui al comma 4 dell'art. 30 (“Il modello organizzativo deve altresì prevedere un idoneo sistema di controllo sull'attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate”) che richiede che i Modelli prevedano uno specifico processo di adozione delle misure correttive e attuative imposte dalle novità normative emerse.

Allo stesso modo, il monitoraggio costante sulla corretta applicazione dei “Protocolli condivisi” non si differenzia in nulla dalla ordinaria applicazione dei presidi richiesti dalla lettera h) del comma 1 dell'art. 30 sul controllo sul rispetto delle procedure di cui al medesimo comma 1.

Infine, la scelta organizzativa che impone oggi (anche in seguito al DPCM. 17.5.20) di valutare e motivare la scelta di mantenere attive tutte le linee produttive o di non attuare il telelavoro per alcune mansioni per le quali sarebbe possibile, appare già oggi imposta da quel principio generale sotteso alla gestione della politica della sicurezza, ancorato agli artt. 5 e 6 d.lgs. n. 231/2001, secondo cui ogni decisione organizzativa che abbia un impatto sulla sicurezza deve fondarsi su valutazioni motivate e documentabili che non dipendano solo da ragioni economiche, soprattutto laddove esistano alternative percorribili economicamente sostenibili. Allo stesso modo, la necessità di formalizzare e motivare la succitata scelta di prosecuzione dell'attività produttiva (integrale o di singole linee), discende dall'ordinaria applicazione del principio generale della tracciabilità di ogni decisione aziendale che abbia un impatto sui processi sensibili.

Ciò significa che un buon Modello 231 potrebbe/dovrebbe già contenere gli strumenti organizzativi sopra individuati che costituiscono i presidi necessari a fronteggiare, sul piano della sicurezza del lavoro, l'emergenza Covid-19, senza alcun bisogno di modifiche o integrazioni ulteriori.

In alcuni Modelli 231, ad esempio, l'art. 30 comma 1 lett. a) risulta attuato mediante l'adozione di “procedure 231” che impongono e disciplinano – tra l'altro – l'adozione di un registro delle norme applicabili, costantemente aggiornato; la previsione di un meccanismo che traduca in azione la nuova prescrizione normativa; l'individuazione di Process Owner per l'attuazione di questi protocolli, etc. Tali protocolli, adeguatamente formalizzati ed attuati, appaiono pienamente idonei, anche innanzi all'emergenza in corso, a soddisfare l'esigenza organizzativa sopra descritta.

Parimenti, i Modelli 231 che oggi già impongono di tracciare e motivare gli investimenti sulla sicurezza e ogni scelta organizzativa sottostante (inserendoli in uno specifico flusso all'organismo di vigilanza) appaiono contenere un buon presidio volto a imporre all'ente un “momento di controllo” e di attenta riflessione (tracciata e motivata) sulla scelta organizzativa relativa alla prosecuzione parziale o integrale dell'attività di impresa. Allo stesso modo, si ritengono già “idonei” quei Modelli che regolano la c.d. comunicazione interna in materia di SSL mediante la creazione di un flusso immediato e tracciato, che veicola l'evidenza di violazioni o gap di procedure sulla sicurezza alle funzioni deputate ad intervenire per la loro risoluzione (e dotate dei poteri necessari).

Viceversa, quanto fin qui osservato non vale per quei Modelli 231 che si basano su una non corretta strutturazione dei protocolli in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Si pensi, ad esempio, ai non pochi casi in cui il Modello non è altro che la duplicazione del sistema di prevenzione strutturato secondo il d.lgs. n. 81/2008, al punto da richiamare – quali protocolli 231 – non le procedure di gestione tratteggiate dall'art. 30, ma le procedure operative antinfortunistiche. Analoghe considerazioni valgono per quei Modelli che fanno coincidere il rischio reato con il rischio infortunio, così ponendo alla base dell'identificazione delle attività a rischio null'altro che i rischi individuati dal DVR, che infatti viene richiamato quale parte integrante del Modello.

In questi contesti organizzativi, la gestione del rischio Covid-19 porterà a palesare la carenza – da colmare – di meccanismi elastici di adeguamento e reazione a situazioni di emergenza rinvenibili solo in quei Modelli 231, che, nella gestione della sicurezza sul lavoro, sono strutturati, secondo il dettato dell'art. 30 TUSSL, come sistemi “di secondo livello”.

In conclusione

Le considerazioni sin qui svolte evidenziano come l'emergenza sanitaria in corso, determinata da un rischio certamente imprevisto, pur rappresentando un momento in cui moltissimi processi aziendali vengono fortemente sollecitati, non richieda necessariamente di metter mano ai Modelli 231, né di scardinare l'impostazione ordinaria dell'attività di controllo degli organismi di vigilanza.

Per contro, emerge con chiarezza come la corretta strutturazione dei Modelli 231, nel solco degli artt. 5 e 6 d.lgs. 231/2001 e – per il settore della sicurezza sul lavoro – dell'art. 30 d.lgs. 81/2008, secondo la più aggiornata e sensibile prassi applicativa e gli standard di riferimento deducibili dalle pronunce giurisprudenziali e dalle linee guida, consenta di dotare gli enti di tutti gli strumenti per reagire e per proteggersi, ricorrendo a meccanismi elastici di attivazione già previsti nel Modello 231, anche innanzi a fattori di rischio totalmente nuovi e di altissima intensità, quale l'emergenza Covid-19. Così, per il rischio-reato infortunistico da contagio, un Modello 231, correttamente strutturato quale sistema organizzativo di secondo livello alla luce dell'impostazione fissata dall'art. 30 d.lgs. 81/2008, dovrebbe già prevedere i due presidi che possono essere individuati come fondamentali strumenti di organizzazione aziendale per fronteggiare il rischio-reato da contagio: un sistema di monitoraggio e controllo sui protocolli di prevenzione fissati dalle Autorità, un sistema di formalizzazione e controllo sulla scelta aziendale di mantenere aperta in tutto o in parte l'attività.

Allo stesso modo, i nuovi rischi-reato determinati dall'intensa attività legislativa di questo periodo, spesso di natura emergenziale e derogatoria, non solo in materia di promozione di misure anti contagio, ma anche di sostegno alle aziende, si inseriscono nell'ambito applicativo del Modello 231 quali nuove occasioni di possibile commissione di reati teoricamente già contemplati e già ben presidiati dai Modelli: al di fuori dei casi in cui siano connessi ad attività totalmente nuove per l'ente, per le quali il Modello andrà ovviamente integrato.

L'attuale periodo può venire a rappresentare, ed anzi potrebbe sfruttato dagli enti e dagli organismi di vigilanza quale fondamentale banco di prova al fine di verificare la tenuta e l'idoneità del proprio Modello 231: l'intensità della sollecitazione a cui sono sottoposti contemporaneamente moltissimi processi dell'ente, impone per altro agli organismi di vigilanza di innalzare il livello di sensibilità, frequenza e reattività della propria azione di vigilanza e controllo.

Secondo la migliore dottrina, un M.O.G. “scientificamente adeguato”, nel senso si qui prospettato, può così fugare la “colpa di organizzazione” in capo alla persona giuridica e spiegare, di tal guisa, la sua efficacia esimente a tutto campo: a livello collettivo, per quanto riguarda la responsabilità da reato dell'ente di cui al d.lgs. n. 231/2001, come a livello individuale nei confronti del datore di lavoro.

Non è chi non veda come il vero scudo penale era, ed è, dunque già ampiamente delineato dal legislatore e fonda le sue radici nei comportamenti “virtuosi” degli imprenditori, scevri dal mero adempimento formalistico: la norma di nuovo conio, art. 29-bis risulta ribadire l'ovvio, cioè quanto già desumibile dall'art. 30 TUSSL.

Le medesime considerazioni possono essere estese verso l'ulteriore tentativo di ridimensionamento dell'area di responsabilità, contenuta nel rapporto 'Iniziative per il rilancio Italia 2020-22' del Comitato di esperti in materia economica e sociale (la cosiddetta task force guidata da Vittorio Colao: al punto 1.i della sezione dedicata a "imprese e lavoro motore dell'economia", si suggerisce di "escludere il 'contagio Covid-19' dalla responsabilità penale del datore di lavoro per le imprese non sanitarie". Più nel dettaglio, si spiega che "il possibile riconoscimento quale infortunio sul lavoro del contagio da Covid-19, anche nei settori non sanitari, pone un problema di eventuale responsabilità penale del datore di lavoro che, in molti casi, si può trasformare in un freno per la ripresa delle attività", suggerendo, per ridurre il rischio di responsabilità penale, che "l'adozione, e di poi l'osservanza, dei protocolli di sicurezza, predisposti dalle parti sociali (da quello nazionale del 24 aprile 2020, a quelli specificativi settoriali, ed eventualmente integrativi territoriali), costituisca adempimento integrale dell'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 del codice civile", evidenziandosi che "essendo la materia della sicurezza sul lavoro, intesa come contenuto dell'obbligo di sicurezza, e quella relativa ai contratti, di competenza statale esclusiva, è la legislazione nazionale che deve prevedere questo meccanismo, a garanzia dell'uniformità su tutto il territorio nazionale di una disciplina prevenzionale". In questi termini, il datore che adempie all'obbligo di sicurezza, "non andrebbe incontro né a responsabilità civile né a responsabilità penale, pur in presenza di un eventuale riconoscimento da parte dell'Inail dell'infortunio su lavoro da contagio Covid-19".

A sommesso avviso di chi scrive, non è possibile teorizzare “zone franche” inaccessibili al potere giurisdizionale: una sorta di “no judge areas” che, in materia di sicurezza sul lavoro, si rivelerebbero socialmente inaccettabili quanto costituzionalmente insostenibili. Si tratta, piuttosto, di stabilire per i comunque imprescindibili poteri di accertamento giudiziale dei criteri di razionalità e di self restraint, che evitino inopportuni “protagonismi decisionali” ed indebite sovrapposizioni di ruoli e competenze.

Va chiarito, infatti, che la funzione giurisdizionale non può essere totalmente relegata ad un ruolo meramente notarile di verifica della corrispondenza del M.O.G. ad un modello astratto, poiché nessuna impostazione può essere definita eccellente in via preventiva e senza il confronto con i mutevoli imprevisti e le inevitabili difficoltà della fase attuativa. Margini di discrezionalità nella valutazione dei fatti sono dunque ineliminabili, in quanto le linee guida e i parametri internazionali citati dettano notoriamente solo degli indirizzi applicativi di supporto per l'implementazione di sistemi di gestione della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. La specificazione dei criteri contenuti nelle linee guida nonché il loro adattamento alla concreta realtà aziendale lasciano pertanto spazi di opinabilità che potrebbero ben essere oggetto di discussione nel procedimento penale aperto per la violazione dell'art. 25- septies.

Guida all'approfondimento

Roberto Riverso, Vero e falso sulla responsabilità datoriale da Covid-19. Aspetti civili, penali e previdenziali, in www.questionegiustizia.it, 19 maggio 2020

Davide Amato, Contagio da Covid-19 “in occasione di lavoro” e responsabilità datoriale: è davvero necessario uno scudo penale?, Giurisprudenza Penale Web, 2020, 6

Circolare Confindustria 8 giugno 2020, Responsabilità delle imprese per il covid-19

Matteo Pozzi e Giulia Mari, I “modelli 231” alla prova dell'emergenza Covid-19: nuovi rischi-reato e conseguenti strumenti di prevenzione e di protezione dell'ente collettivo dalla responsabilità ex crimine, Sistema Penale 6/2020

Giovanni Zampini, Sicurezza sul lavoro e modello organizzativo: quali responsabilità per il datore?, Il Lavoro nella Giurisprudenza, 2/2018

Vittorio Nizza, Silvia Gabbai, Epidemia da Covid-19: le linee guida nella responsabilità penale tra disastro, omissioni e contravvenzioni, Il Penalista, 11 giugno 2020

Cristiano Cupelli, Obblighi datoriali di tutela contro il rischio di contagio da Covid-19: un reale ridimensionamento della colpa penale?, www.sistemapenale.it, 15 giugno 2020

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