Interpretazione delle clausole del contratto di assicurazione: riflessioni critiche sulla concreta applicazione delle regole ermeneutiche

Giuseppe Sileci
30 Settembre 2020

L'assicurazione contro i danni alle merci di una cantina, anche derivante da atti vandalici, si estende al danno da “dispersione dei liquidi” se le parti, delimitando il rischio, hanno previsto che sono esclusi i danni conseguenti a guasti o rotture di condutture e valvole?
Massima

Le clausole del contratto di assicurazione devono essere interpretate alla luce delle disposizioni di cui agli artt. 1366, 1367, 1369 e 1370 c.c. tenendo dunque conto della buona fede delle parti e della necessità di fornire alla polizza un'interpretazione che non la privi di senso effettivo, in coerenza con la natura e l'oggetto del contratto.

Il caso

La Cantina X aveva assicurato le proprie merci aziendali contro i danni; in particolare, prevedeva la polizza la copertura di eventuali danni alle merci aziendali, ivi incluse le merci in vasche interrate, in contenitori e/o damigiane o botti, anche derivanti da sabotaggio, terrorismo e atti vandalici, con la precisazione – in relazione alla “dispersione di liquidi” – che l'assicurazione sarebbe stata operativa unicamente per guasto o rottura accidentale dei contenitori mentre era esclusa la copertura assicurativa nel caso di stillicidio dovuto ad imperfetta tenuta, corrosione o usura dei contenitori, nonché per i danni conseguenti a guasti o rotture di condutture o valvole e quelli per dispersione di liquido in contenitori inferiori ai trecento litri. Verificatasi la perdita di un certo quantitativo di vino ad opera di ignoti che avevano aperto le saracinesche di alcuni serbatoi in acciaio inox aerei, la Cantina X aveva adito il Tribunale di Taranto per sentire condannare la società Y al pagamento dell'indennizzo. Il Giudice di prime cure accoglieva la domanda ma la Corte d'appello riformava integralmente la sentenza negando il diritto della Cantina X ad avere liquidato l'indennizzo perché la dispersione del vino non costituiva un danno alla merce assicurata ma solo all'imprenditore. La Cantina X ha impugnato la decisione lamentando la violazione delle norme che regolano la interpretazione dei contratti perché la Corte d'appello aveva omesso di ricercare la comune intenzione delle parti pur in presenza di clausole, sia singolarmente che sinergicamente esaminate, equivoche ed inoltre aveva interpretato la polizza negando qualsiasi efficacia alla copertura del rischio afferente la merce.

La questione

L'assicurazione contro i danni alle merci di una cantina, anche derivante da atti vandalici, si estende al danno da “dispersione dei liquidi” se le parti, delimitando il rischio, hanno previsto che sono esclusi i danni conseguenti a guasti o rotture di condutture e valvole?

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione accoglie il ricorso stigmatizzando innanzitutto la erroneità – in punto di diritto – della affermazione della Corte territoriale secondo cui “la dispersione del vino non costituisce un danno alla merce assicurata, ma solo all'imprenditore”.

Invero, in presenza di una polizza con la quale era stata assicurata la merce aziendale di una cantina, la cui attività è costituita dalla commercializzazione del vino, è fin troppo evidente che le parti abbiano voluto assicurare proprio il vino, e cioè l'unica o principale merce aziendale, e depone a favore di questa volontà dei contraenti il fatto che la polizza prevedeva espressamente l'assicurazione delle merci contenute in vasche, contenitori, botti e damigiane. Diversamente opinando, e cioè escludendo che il vino costituisse la merce assicurata, si avrebbe una affermazione del tutto contraria non solo alla sostanza ma alla stessa lettera del contratto di assicurazione, oltre che insanabilmente illogica.

Inoltre, prosegue la Corte, la limitazione della copertura assicurativa, nell'ipotesi di dispersione dei liquidi, ai casi di guasto o rottura accidentale dei contenitori, con esclusione dello stillicidio e dei guasti a condutture e valvole, non autorizza a ritenere che la parti abbiano inteso escludere il danno da dispersione provocato da atti vandalici: in senso contrario depone sia il fatto che la polizza prevedeva espressamente i danni causati da atti vandalici sia il fatto che comunque la polizza assicurava i danni da guasto o rottura accidentale e che non poteva non considerarsi accidentale la rottura provocata da un atto vandalico.

Tanto meno, poi, potrebbe pensarsi che la mera apertura delle saracinesche da parte di ignoti non configuri un guasto o rottura accidentale dei contenitori: afferma al riguardo la Suprema Corte che “il concetto di guasto o rottura accidentale comprende infatti certamente anche l'atto vandalico di manomissione delle saracinesche dei serbatoi (che è pur sempre un guasto o una rottura e ha certamente carattere accidentale, in quanto non collegato a usura o difetto di manutenzione, ma ad una causa esterna imprevedibile).

Secondo il Supremo Collegio “le due clausole prese in esame dai giudici di merito hanno portata e area applicativa diversa: in base alla prima, è previsto che la copertura assicurativa operi anche in caso di atti vandalici che hanno danneggiato la merce assicurata; in base alla seconda, per quanto attiene ai liquidi, è escluso che la copertura operi in caso di stillicidio per usura dei contenitori e di rottura di valvole o condutture, ma detta copertura non è affatto esclusa per i guasti e/o la rottura accidentale dei contenitori, ivi compresa l'ipotesi in cui queste ultime siano causate da atti vandalici, come avvenuto nel caso di specie”.

Quindi, la Corte territoriale, interpretando le clausole contrattuali nel senso di escludere l'evento dall'ambito di operatività della copertura assicurativa, ha innanzitutto violato l'art. 1362 c.c. per almeno due ordini di ragioni: intanto perché ritenere che tra la merce assicurata non vi fosse il vino è una interpretazione contra litteram; in secondo luogo perché non ha valorizzato la condotta delle parti successiva alla conclusone del contratto, ed in particolare la decisione della impresa di assicurazione di accertare il danno e di contestarne solo la entità senza nulla eccepire – in tale fase – in merito alla operatività della copertura.

Ma la Corte d'appello ha violato anche le disposizioni di cui agli artt. 1366, 1367, 1369 e 1370 c.c. : ed invero, sia applicando l'art. 1366 c.c. (ai sensi del quale il contratto deve essere sempre interpretato secondo buona fede) sia applicando l'art. 1367 c.c. (secondo il quale nel dubbio le singole clausole del contratto debbono interpretarsi nel senso in cui abbiano un qualche effetto e non in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno) sia ai sensi dell'art. 1369 c.c. (secondo il quale le espressioni polisenso devono intendersi, nel dubbio, nel senso più conveniente alla natura ed all'oggetto del contratto) “sarebbe stato necessario ammettere, in primo luogo, che la copertura riguardasse il vino quale merce aziendale (unica o quanto meno prevalente) assicurata e, in secondo luogo, che la copertura per i guasti o la rottura accidentale dei contenitori in cui lo stesso vino era conservato comprendesse anche gli atti vandalici di manomissione dei contenitori stessi”.

Infine, la interpretazione preferita dalla Corte d'appello si risolve in una manifesta violazione dell'art. 1370 c.c., “dal momento che, se anche alla clausola relativa alla dispersione dei liquidi potesse riconoscersi un significato dubbio o incerto, essa avrebbe dovuto essere interpretata a favore dell'assicurata, essendo stata predisposta dalla Compagnia”.

Osservazioni

La giurisprudenza della Cassazione in materia di interpretazione delle clausole contrattuali è abbastanza consolidata.

In generale, si ritiene pacificamente che l'interprete debba ricercare la comune volontà delle parti ma non possa però limitarsi al senso letterale della parole e debba ricercare la detta volontà tenendo conto del comportamento complessivo della parti, anche successivo alla conclusione del contratto ed avvalendosi innanzitutto dei criteri soggettivi stabiliti dagli artt. 1363, 1364 e 1365 c.c. e, solo quando attraverso questa operazione ermeneutica persistano dubbi sulla reale intenzione delle parti, ricorrendo ai criteri oggettivi – integrativi stabiliti dagli artt. 1366 c.c. e seguenti (Cass. civ., Sez. trib., 26 settembre 2008 n. 24209).

Più esattamente, “il carattere prioritario dell'elemento letterale non va inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell'art. 1362 c.c. alla comune intenzione delle parti impone di estendere l'indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici anche laddove il testo dell'accordo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti” (Cass. civ., Sez. III, 26 luglio 2019 n. 20294).

In altri termini, il processo interpretativo “non può arrestarsi alla ricognizione letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare e non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un'espressione prima facie chiara può non apparire più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti” (Cass. civ., Sez. lav., 1 dicembre 2016 n. 24560)

Ovviamente, il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto e rilevante ai fini della ricostruzione della loro volontà e dello scopo concreto perseguito è solo quello posto in essere in esecuzione e in riferimento a quel contratto e non anche il comportamento che si estrinsechi in ulteriori accordi modificativi dei precedenti (Cass. civ. Sez. II, 11 marzo 2016 n. 4832).

E' stato anche chiarito che il giudice deve individuare la comune intenzione delle parti procedendo innanzitutto all'interpretazione letterale delle singole clausole, anche delle une per mezzo delle altre, dando contezza del risultato dell'indagine; e solo qualora, con decisione adeguatamente argomentata, dimostri la impossibilità (e non la mera difficoltà) di conoscere la reale intenzione delle parti, potrà fare ricorso ai criteri sussidiari (Cass. civ, Sez. II, 21 marzo 2011 n. 6405).

Detto altrimenti, l'attività ermeneutica del giudice deve ritenersi utilmente compiuta, anche senza necessità di indagare il comportamento complessivo delle parti successivo alla stipulazione del contratto, quando il senso letterale delle espressioni usate sia di tale chiarezza da permettere di stabilire quale sia stata la loro comune volontà senza che residuino ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l'intento effettivo dei contraenti (Cass. civ., Sez. II, 26 novembre 2012 n. 20893; Cass. civ., Sez. I, 15 maggio 2013 n. 11694).

Merita di essere richiamata, però, una recente sentenza con la quale la Cassazione ha chiarito in cosa consista il principio “in claris non fit interpretatio”: esso presuppone una formulazione testuale talmente chiara ed univoca da precludere la possibilità di una diversa volontà e richiede al giudice di accertare se questa volontà risulti in modo certo ed immediato dalla lettera delle clausole attraverso una valutazione che consideri il grado di chiarezza mediante l'impiego articolato dei vari canoni ermeneutici, “in quanto la lettera (il senso letterale), la connessione (il senso coordinato) e l'integrazione (il senso complessivo) costituiscono strumenti interpretativi legati da un rapporto di implicazione necessario al relativo procedimento ermeneutico” (Cass. civ., Sez. lav., 3 giugno 2014 n. 12360).

Orbene, è certamente condivisibile la decisione in esame laddove afferma la violazione dell'art. 1362 c.c. nella parte in cui la Corte territoriale ha accolto una interpretazione contra litteram del concetto di merce assicurata, giacché è fin troppo evidente che lo scopo di una impresa dedita alla produzione e commercializzazione del vino – se decide di proteggersi contro il rischio di danni alla merce - sia quello di assicurare proprio il vino.

Meno persuasiva, invece, appare la decisione laddove afferma la violazione dell'art. 1362 c.c. nella parte in cui la Corte territoriale non avrebbe tenuto in debita considerazione la condotta delle parti successiva alla stipulazione del contratto: in particolare, ad avviso del Giudice di legittimità sarebbe stato sintomatico della comune volontà delle parti il fatto che l'impresa di assicurazione avesse posto in essere una attività di accertamento del danno senza contestare l'operatività della copertura assicurativa ma solo l'entità del danno.

Se è rilevante solo il comportamento successivo alla conclusione del contratto che sia comune ad entrambe le parti mentre è irrilevante il comportamento di uno solo dei contraenti (Cass. Civ., Sez. II, 28 febbraio 2013 n. 5045), sembra piuttosto debole inferire la reale estensione della garanzia assicurativa dal compimento di una attività (stima del danno) cui l'assicuratore era comunque obbligato.

Peraltro, il contegno dell'assicuratore – cui ascrive decisiva rilevanza la Cassazione al fine di ricostruire in via interpretativa la comune intenzione delle parti – è valutato più alla stregua di una implicita rinuncia ad avvalersi del diritto ad eccepire la inoperatività della polizza, piuttosto che come elemento sintomatico della comune volontà delle parti, e sembra mancare della necessaria concludenza, ossia non sembra incompatibile con l'intenzione di avvalersi del diritto e dunque non appare neppure idoneo a manifestare la volontà di rinunciarvi (Cass. Civ., Sez. II, 14 giugno 2019 n. 16061; Cass. Civ., Sez. VI, 5 febbraio 2018 n. 2739).

La sentenza in esame, inoltre, non sembra neppure coerente con quel principio, più volte affermato dalla Suprema Corte, secondo il quale i canoni legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia, applicando il quale il Giudice può fare ricorso ai criteri interpretativi – integrativi solo quando quelli strettamente interpretativi non bastano a rendere palese la comune intenzione delle parti (Cass. Civ., Sez. III, 13 agosto 2015 n. 16795).

Ed allora delle due l'una: o il testo letterale della polizza, ed in subordine il comportamento successivo delle parti, erano da soli sufficienti ovvero la Suprema Corte, prima di esaminare se la Corte territoriale aveva errato ad interpretare la polizza alla luce degli altri canoni ermeneutici (quelli interpretativi – integrativi), avrebbe dovuto dare atto della impossibilità – attraverso i criteri strettamente interpretativi – di stabilire quale fosse la comune intenzione delle parti.

Questo passaggio sembra essere del tutto assente nella sentenza in esame.

La Corte, infatti, passa a trattare la lamentata violazione degli artt. 1366, 1367, 1369 e 1370 c.c. senza spendere neppure una parola sulla necessità di fare ricorso ai criteri interpretativi stabiliti dalle norme in esame (Cass. Civ., Sez. I, 19 gennaio 2015 n. 746 secondo la quale l'utilizzazione degli altri criteri ermeneutici è subordinata “alla dimostrazione – con argomenti convincenti – della impossibilità e non già della mera difficoltà – di conoscere la predetta interpretazione attraverso la interpretazione letterale”.

In ogni caso, e dando per implicita la inadeguatezza sia del criterio letterale che del comportamento successivo delle parti, non sembra del tutto convincente la decisione in esame laddove la Cassazione afferma che la Corte territoriale – se avesse interpretato la polizza secondo buona fede (art. 1366 c.c.) e comunque se avesse ricercato una interpretazione che, ai sensi dell'art. 1367 c.c., non privasse completamente la polizza di alcun senso effettivo ovvero che fosse coerente con la natura e l'oggetto del contratto (art. 1369 c.c.) – avrebbe dovuto “ammettere, in primo luogo, che la copertura riguardasse il vino quale merce aziendale (unica o quanto meno prevalente) assicurata e, in secondo luogo, che la copertura per i guasti o la rottura accidentale dei contenitori in cui lo stesso vino era conservato comprendesse anche gli atti vandalici di manomissione dei contenitori stessi”.

In sostanza, escludere che la copertura assicurativa per i guasti o la rottura accidentale dei contenitori in cui lo stesso vino era conservato comprendesse anche gli atti vandalici di manomissione dei contenitori, secondo la Suprema Corte sarebbe contrario a buona fede ed inoltre non sarebbe coerente con la natura e l'oggetto del contratto ed altresì priverebbe la polizza di qualunque senso effettivo.

Francamente questa conclusione non è del tutto convincente.

Vero è che la polizza assicurava anche i danni al vino, non potendo altrimenti interpretarsi la volontà della parti che avevano voluto assicurare le “merci” di una cantina; vero è, altresì, che per merci dovessero intendersi incluse quelle in vasche interrate, in contenitori e/o damigiane o botti e che per eventi dannosi dovessero intendersi anche quelli derivanti da sabotaggio terrorismo o atti vandalici; ma è altrettanto vero che questa ampia previsione ben poteva essere delimitata – come in effetti è accaduto – stabilendo che, nel caso dispersione di liquidi, il danno assicurato sarebbe stato il danno derivante unicamente da guasto o rottura accidentale dei contenitori, con esclusione dello stillicidio dovuto a imperfetta tenuta, corrosione o usura dei contenitori nonché i danni conseguenti a guasti o rotture di condutture o valvole e quello per dispersione di liquido in contenitori inferiori ai 300 litri.

E non pare proprio che questa delimitazione del rischio, nel caso di dispersione del vino, fosse contraria a buona fede, fosse non coerente con la natura e l'oggetto del contratto ovvero privasse di senso effettivo la polizza, se solo si considera che comunque l'assicuratore avrebbe dovuto indennizzare il danno in tutti i casi – per nulla infrequenti – in cui l'atto di sabotaggio e/o vandalismo (quale è quello di cui è stata vittima la Cantina X) fosse consistito – ad esempio – nella contaminazione del contenuto dei recipienti con conseguente perdita del vino ovvero nella rottura, con qualunque mezzo, dei recipienti che lo contenevano.

Ciò che le parti non avevano voluto assicurare era un particolare tipo di danno, quello dovuto a dispersione del liquido, per il quale esse avevano previsto l'obbligo dell'assicuratore di pagare l'indennizzo solo se dovuto a rottura accidentale o guasto del contenitore e non anche nel caso di rottura o guasto di condutture o valvole.

E poiché l'atto di vandalismo e/o sabotaggio (e cioè apertura, ad opera di ignoti, delle saracinesche di alcuni serbatoi aerei) aveva riguardato non la integrità del contenitore bensì le condutture o le valvole, o si affermava che non fosse chiaro cosa avevano inteso le parti con condutture e valvole oppure, se con queste espressioni esse avevano voluto fare riferimento alle saracinesche, che fosse chiara la volontà dei contraenti di escludere questo evento, e cioè quel guasto o rottura accidentale di una valvola (nel quale poteva ben rientrare la apertura dolosa delle saracinesche) che avesse determinato la dispersione del liquido.

Né, infine, sembra cogliere nel segno la Suprema Corte quando ricorre – in extremis – al criterio di cui all'art. 1370 c.c. affermando che, “se anche alla clausola relativa alla dispersione dei liquidi potesse riconoscersi un significato dubbio o incerto, essa avrebbe dovuto essere interpretata a favore dell'assicurata, essendo stata predisposta dalla compagnia”.

Il dubbio, infatti, avrebbe dovuto riguardare il senso da dare a “condutture” e “valvole”, il cui guasto o rottura accidentale non avrebbe dato diritto ad alcun indennizzo.

Ebbene, nel dizionario della lingua italiana si definisce valvola quel “dispositivo, a comando diretto o automatico, che serve a regolare il passaggio di un fluido in una conduttura” mentre di definisce saracinesca, in idraulica, quel “dispositivo che serve a regolare il flusso di un liquido in una condotta in pressione”.

Dunque, se le parti convennero che la garanzia assicurativa non avrebbe operato, e cioè sarebbe stata esclusa, nel caso di dispersione di liquidi qualora questo evento fosse stato causato da guasto o rottura di condutture o valvole, non pare fosse incerto o dubbio il significato di cosa essi avevano inteso: l'assicurato avrebbe avuto diritto all'indennizzo in tutti i casi di danni alle merci (e dunque principalmente al vino) anche derivante da sabotaggio, terrorismo o atti vandalici e, qualora il danno non fosse consistito in una alterazione del liquido bensì nella sua dispersione, l'assicurato avrebbe avuto ugualmente diritto al detto indennizzo purché l'evento fosse stato causato unicamente da guasto o rottura accidentale dei contenitori e non anche nel caso di guasto o rottura (o manomissione) di una valvola, usata chiaramente come sinonimo di saracinesca.

In altri termini, avrebbe potuto reputarsi dubbio il testo della clausola che precisava il rischio nel caso di dispersione di liquidi se, ad esempio, le parti avessero un attimo prima previsto che “è assicurato il danno derivante unicamente da guasto o rottura accidentale dei contenitori” ed un attimo dopo, delimitando l'ambito di operatività della copertura assicurativa, avessero escluso non solo lo stillicidio dovuta a imperfetta tenuta, corrosione o usura del contenitori ma anche – genericamente – a dispersione per guasti o rotture senza altro specificare.

Poiché, invece, le parti vollero assicurare il danno da dispersione causato da rottura del contenitore e non anche quello causato da rotture di condutture o valvole, la manomissione delle saracinesche da parte di ignoti non poteva fare sorgere dubbio alcuno sulla concreta volontà delle parti e tanto meno avrebbe giustificato il ricorso ai canoni ermeneutici integrativi.

In conclusione, era certamente errata la sentenza impugnata, che aveva motivato il rigetto della domanda alla liquidazione dell'indennizzo ritenendo che la dispersione del vino non costituiva un danno alle merci assicurate ma solo all'imprenditore, ma la Corte di Cassazione avrebbe avuto elementi sufficienti, a mio avviso, per applicare l'ultimo comma dell'art. 384 c.p.c., a mente del quale la Corte deve limitarsi a correggere la motivazione della sentenza impugnata quando il dispositivo è conforme a diritto ma non lo è la motivazione.

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