Seconda “ondata epidemica” e c.d. decreto ristori: nuove norme sul procedimento penale e dubbi interpretativi

Riccardo Nerucci
03 Dicembre 2020

ll c.d. decreto Ristori, d.l. n. 137/2020, interviene sul procedimento penale per fronteggiare la seconda ondata di contagi da virus Covid-19, ricorrendo, ancora una volta, allo strumento del processo telematico...
Abstract

ll c.d. decreto Ristori, d.l. n. 137/2020, interviene (nuovamente) sul procedimento penale per fronteggiare la seconda ondata di contagi da virus Covid-19, ricorrendo, ancora una volta, come già fatto durante la prima emergenza, allo strumento del processo telematico. Tuttavia, nel tentativo di forgiare una disciplina compromissoria, che consenta all'attività giurisdizionale di proseguire riducendo, al contempo, i rischi di contagio dovuti all'inevitabile assembramento di persone nelle aule giudiziarie, il legislatore ha dettato una disciplina disorganica, generica, a tratti incomprensibile e, perfino, involontariamente comica.

Il commento si propone di fornire una sintesi della disciplina dello svolgimento da remoto delle indagini preliminari e delle udienze, mettendo in evidenza i più rilevanti dubbi interpretativi, immediatamente emersi all'attenzione degli operatori pratici, e tentando di fornire una possibile soluzione esegetica.

Uno sguardo di insieme

A seguito dell'aumento dei casi di contagio da virus Covid-19 registrato dopo la rassicurante contrazione estiva, il Governo, con il d.l. n. 137/2020, noto come decreto Ristori, è tornato ad adottare misure urgenti (anche) in materia di giustizia penale.

La norma di riferimento è l'art. 23, che detta peculiari modalità di svolgimento a distanza delle indagini preliminari e delle udienze.

Per quanto riguarda le indagini preliminari, il capoverso della norma consente al Pubblico Ministero e alla Polizia giudiziaria di utilizzare collegamenti da remoto per compiere atti investigativi che richiedono la partecipazione dell'indagato (salvo che si opponga il suo difensore, se è prevista la sua partecipazione all'atto), della persona offesa, del difensore, di consulenti, di esperti o di altre persone.

Tali soggetti per partecipare all'atto da remoto devono presentarsi nell'ufficio di Polizia giudiziaria più vicino alla loro residenza, che abbia in dotazione strumenti idonei ad assicurare il collegamento. Presso tale ufficio le persone partecipano al compimento dell'atto con la presenza di un ufficiale o agente di Polizia giudiziaria che procede alla loro identificazione.

Il difensore ha la possibilità di scegliere se partecipare all'atto collegandosi dal proprio studio oppure recandosi nell'ufficio di Polizia giudiziaria ove si trova il suo assistito.

L'indagato a qualsiasi titolo detenuto partecipa, ove possibile, dal luogo di custodia mediante videoconferenze o con collegamenti da remoto, rispettando, in quanto compatibili, le garanzie dettate dai commi 3, 4 e 5 dell'art. 146-bis disp. att. c.p.p., in materia di partecipazione al dibattimento a distanza.

Le modalità di collegamento devono salvaguardare, ove necessario, la segretezza dell'atto e devono assicurare la possibilità per l'indagato di consultarsi riservatamente con il proprio difensore.

Il pubblico ufficiale che redige il verbale deve dare atto nello stesso delle modalità di collegamento da remoto utilizzate, delle modalità con cui è stata accertata l'identità dei soggetti partecipanti e di tutte le ulteriori operazioni, nonché dell'impossibilità dei soggetti non presenti fisicamente di sottoscrivere il verbale, ai sensi dell'art. 137, comma 2, c.p.p.

Con le medesime modalità descritte sopra il giudice può procedere all'interrogatorio di garanzia di cui all'art. 294 c.p.p.

Per quanto riguarda le udienze, quelle pubbliche possono celebrarsi a porte chiuse ai sensi dell'art. 472, comma 3, c.p.p.

Quelle che non richiedono la partecipazione di soggetti diversi dal pubblico ministero, dalle parti private, dai rispettivi difensori e dagli ausiliari del giudice, ad esclusione di quelle di cui si dirà oltre, possono essere tenute mediante collegamenti da remoto.

Il collegamento da remoto non è mai possibile per le udienze di discussione nei giudizi abbreviati e nel dibattimento.

Il collegamento da remoto non è possibile, salvo che le parti vi consentano, per le udienze preliminari e dibattimentali.

Lo svolgimento dell'udienza deve avvenire con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione delle parti.

Prima dell'udienza il giudice deve far comunicare il giorno, l'ora e le modalità del collegamento ai difensori delle parti, al pubblico ministero e agli altri soggetti di cui è prevista la partecipazione.

Gli imputati liberi o sottoposti a misure cautelari diverse dalla custodia in carcere devono partecipare dalla medesima postazione da cui si collega il difensore, il quale deve attestare l'identità del proprio assistito.

Per quanto riguarda le udienze di convalida dell'arresto o del fermo, occorre distinguere a seconda che l'interessato sia libero, custodito in uno dei luoghi di cui all'art. 284, comma 1, c.p.p. (abitazione o altro luogo di privata dimora, luogo pubblico di cura o di assistenza o casa famiglia protetta) oppure in carcere.

Nel primo caso, trattandosi di udienza camerale, la convalida può svolgersi mediante collegamento da remoto e la persona arrestata o fermata partecipa dalla medesima postazione da cui si collega il difensore.

Nel secondo caso, la persona arrestata o fermata e il difensore possono partecipare all'udienza di convalida da remoto anche dal più vicino ufficio della polizia giudiziaria attrezzato per la videoconferenza, quando disponibile. In tal caso, l'identità della persona arrestata o formata è accertata dall'ufficiale di polizia giudiziaria presente.

Nel caso di persona detenuta in carcere, la partecipazione all'udienza avviene mediante videoconferenze o con collegamenti da remoto dall'istituto penitenziario, ove possibile.

Quando si procede da remoto, l'ausiliario del giudice deve dare atto nel verbale d'udienza delle modalità di collegamento da remoto utilizzate, delle modalità con cui ha accertato l'identità dei soggetti partecipanti e di tutte le ulteriori operazioni, nonché dell'impossibilità dei soggetti non presenti fisicamente di sottoscrivere il verbale, ai sensi dell'art. 137, comma 2, c.p.p., o di vistarlo, ai sensi dell'art. 483, comma 1, c.p.p.

Per quanto riguarda le deliberazioni collegiali in camera di consiglio, è prevista la possibilità di assumerle mediante collegamenti da remoto, purché non si tratti di deliberazioni conseguenti alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio, svolte senza il ricorso a collegamento da remoto.

Se si procede da remoto, il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge. Dopo la deliberazione, il presidente del collegio, o il componente del collegio da lui delegato sottoscrive il dispositivo della sentenza o l'ordinanza e il provvedimento è depositato in cancelleria ai fini dell'inserimento nel fascicolo il prima possibile.

Disposizioni peculiari sono dettate anche per la decisione sui ricorsi proposti per la trattazione a norma degli artt. 127 e 614 c.p.p., purché relativi a procedimenti nei quali l'udienza non ricada entro il termine di quindici giorni dall'entrata in vigore del decreto.

In tali casi la Corte di Cassazione procede in camera di consiglio senza l'intervento del procuratore generale e dei difensori delle altre parti.

Tuttavia, è data la possibilità al difensore e al procuratore generale di fare richiesta di discussione orale, tramite una istanza scritta da presentare, a mezzo di posta elettronica certificata, alla cancelleria della Corte entro il termine perentorio di venticinque giorni liberi prima dell'udienza (solo per i procedimenti per i quali l'udienza di trattazione ricade tra il sedicesimo e il trentesimo giorno dall'entrata in vigore del decreto la richiesta deve essere formulata entro dieci giorni dall'entrata in vigore del decreto).

In assenza di richiesta di discussione orale, il contraddittorio fra le parti si svolge in forma cartolare: il procuratore generale, entro il quindicesimo giorno precedente l'udienza, formula le sue richieste con atto spedito a mezzo di posta elettronica certificata alla cancelleria della Corte, che a sua volta, con lo stesso mezzo, lo invia immediatamente ai difensori delle altre parti, che a loro volta possono presentare le loro conclusioni con atto scritto da inviare, sempre a mezzo di posta elettronica certificata, alla cancelleria della Corte entro il quinto giorno antecedente l'udienza.

Alla deliberazione si procede mediante collegamenti da remoto e dopo la deliberazione il presidente del collegio, o il componente del collegio da lui delegato, sottoscrive il dispositivo della sentenza o l'ordinanza e il provvedimento è depositato in cancelleria ai fini dell'inserimento nel fascicolo. In deroga all'art. 615, comma 3, c.p.p., il dispositivo non viene letto in udienza, ma comunicato alle parti.

L'efficacia temporale delle nuove norme

Cominciamo la nostra analisi dal primo comma dell'art. 23, che delimita l'ambito temporale delle disposizioni dettate nei successivi commi da 2 a 9; o meglio, tenta di delimitare, perché il legislatore d'urgenza ha richiamato un termine (quello previsto dall'art. 1 d.l. n. 19/2020, convertito nella l.n. 35/2020) che è spirato il 31 luglio scorso. Escludiamo che il Governo, in un sussulto di creatività, abbia voluto derogare all'art. 11 delle “preleggi” del codice civile (“la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo”); si può solo concludere allora che si tratta di una grossolana svista a causa della quale le disposizioni dell'art. 23, a dispetto dell'intento del legislatore, non avranno una durata limitata nel tempo.

Esaurita questa premessa, necessaria se non altro per richiamare l'attenzione sul grado di scrupolosità del legislatore, ci si può addentrare nell'analisi dei commi 3, 4, 5 e 9, che incidono direttamente sull'ambito di nostro interesse e cioè sul processo penale di primo grado.

La possibilità di procedere a porte chiuse

Il comma 3 stabilisce che le udienze dei procedimenti penali alle quali è ammessa la presenza del pubblico possono essere celebrate a porte chiuse ai sensi dell'art. 472, comma 3, c.p.p. Lungi dall'apparire disfattisti, ci pare che questa disposizione, a seconda delle interpretazioni, debba essere ritenuta o del tutto inutile o ingiustificatamente restrittiva. O si tratta, infatti, di una sorta di “promemoria” volto a ricordare all'interprete l'esistenza dell'art. 472, comma 3, c.p.p. (“il dibattimento o alcuni atti di esso si svolgano a porte chiuse quando la pubblicità può nuocere alla pubblica igiene, quando avvengono da parte del pubblico manifestazioni che turbano il regolare svolgimento delle udienze ovvero quando è necessario salvaguardare la sicurezza di testimoni o di imputati”); ma è anche evidente che in tal caso si tratterebbe di intervento perfettamente sterile dal punto di vista normativo.

Oppure si può ipotizzare che il legislatore, nel richiamare solamente il terzo comma dell'art. 472 c.p.p., abbia inteso escludere tout court l'applicazione dei precedenti due commi, che prevedono la possibilità di celebrare il dibattimento a porte chiuse quando sia necessario per tutelare il buon costume, la riservatezza delle parti o dei testimoni e l'interesse dello Stato a impedire la diffusione di determinate notizie. Ci rendiamo conto che questa seconda interpretazione aprirebbe scenari a dir poco inquietanti, agitando addirittura lo spettro (in una lettura per così dire “estrema”) dell'abrogazione implicita dei suddetti commi. Riteniamo naturalmente che un minimo di rispetto per la razionalità del sistema conduca a disattendere questa lettura e a propendere per la prima (per quanto innocua) opzione ermeneutica; ma abbiamo comunque voluto citare questa ipotesi perché pur sempre autorizzata dalla lettera della norma e dunque indicativa, una volta di più, della formidabile capacità del legislatore di ideare coups de théatre in grado di sorprendere l'interprete.

La partecipazione alle udienze dei soggetti detenuti

Ci concentreremo ora sul comma 4, che di fatto riproduce alla lettera il comma 12 dell'art. 83 d.l.n. 18/2020 prevedendo che “la partecipazione a qualsiasi udienza delle persone detenute, internate, in stato di custodia cautelare, fermate o arrestate” si svolga, “ove possibile”, tramite videoconferenza o collegamento da remoto. In sostanza, la partecipazione a distanza è prevista come la regola nel caso di soggetti detenuti o sottoposti a misura di sicurezza custodiale, a meno che questo non sia materialmente possibile a causa di contingenti (per quanto frequenti nella prassi) inconvenienti di natura tecnica.

Sulla norma si impongono a nostro avviso tre riflessioni.

La prima è che essa non si applica ai soggetti sottoposti alla misura degli arresti domiciliari e a quelli in stato di arresto o fermo che, in attesa dell'udienza di convalida, siano stati posti in uno dei luoghi previsti dall'art. 284, comma 1, c.p.p.: si vedrà infatti tra breve che la partecipazione all'udienza di tali categorie di soggetti trova disciplina nel successivo comma 5.

In secondo luogo, e analogamente, siccome la norma è espressamente riferita solo alla partecipazione all'udienza di detenuti e internati, essa non si applicherà alle altre parti e agli altri soggetti del processo (ivi compresi i difensori); in relazione a questi ultimi, dunque, la partecipazione a distanza ai processi con imputati detenuti o internati sarà facoltativa ai sensi del successivo comma 5.

La terza e ultima osservazione si ricollega direttamente al secondo periodo del comma 4, che abroga espressamente il comma 9 dell'art. 221 d.l.n. 34/2020. Quest'ultima norma disciplinava la stessa materia ma con due significative differenze rispetto al comma che stiamo analizzando, poiché subordinava la possibilità di procedere tramite videoconferenza o collegamento da remoto al consenso delle parti e, inoltre, si applicava expressis verbis anche ai detenuti per altra causa.

Entrambi questi riferimenti non compaiono nel comma 4 dell'art. 23. Quanto al primo punto, la scelta di impedire alle parti di pronunciarsi sulle modalità di partecipazione all'udienza conferma la volontà del legislatore di imporre, rendendola di fatto inderogabile, la celebrazione a distanza dei processi con soggetti detenuti o internati (sempre, si ripete, “ove possibile”); e si tratta di “irrigidimento” che a nostro avviso si spiega con la volontà di garantire la speditezza del processo e scongiurare, in tempi di pandemia, la presenza in aula di soggetti provenienti da ambienti per definizione promiscui come carceri o r.s.a. Quanto al venir meno del riferimento ai detenuti per altra causa, è lecito chiedersi se questo determini l'inapplicabilità del comma 4 a tale categoria di soggetti; ma secondo chi scrive la risposta non può che essere negativa, non solo perché tale ipotetica esclusione non avrebbe giustificazione razionale, specie se rapportata alla ratio della norma, ma anche perché l'attuale e generico riferimento ai “detenuti” pare in grado di dissipare ogni dubbio in proposito.

La partecipazione alle udienze dei soggetti liberi

Come il comma appena analizzato riproduce quasi testualmente il comma 12 dell'art. 83 d.l. n. 18/2020, così il comma 5 è un “calco” integrale del comma 12-bis del suddetto articolo (fatta eccezione, come si vedrà fra breve, per l'ultimo periodo). In sostanza, dunque, viene indicata come meramente facoltativa la celebrazione con modalità c.d. da remoto del processo i cui imputati siano liberi o sottoposti a misure diverse dalla custodia in carcere e nel contempo si dettano una serie di disposizioni lato sensu organizzative: si prevede quindi che “prima dell'udienza” il Giudice faccia comunicare alle parti le modalità e i tempi del collegamento, omettendo peraltro di stabilire, per tale comunicazione, un termine ad quem che a nostro avviso sarebbe stato quanto mai opportuno; si stabiliscono inoltre le modalità sia per la partecipazione a distanza dell'imputato e del suo difensore sia per l'accertamento dell'identità della parti.

Unica e non insignificante innovazione rispetto al comma 12-bis dell'art. 83 d.l. n. 18/2020 è costituita dall'ultimo periodo, che esclude l'applicazione delle disposizioni appena citate ad alcune categorie di udienze. Il legislatore in questo caso ha introdotto una sorta di bipartizione, prevedendo che l'inapplicabilità di tale norma sia inderogabile per alcune udienze e invece derogabile per altre: rientrano nella prima categoria le udienze nelle quali è previsto l'esame di testimoni, parti, consulenti e periti e quelle dedicate alla discussione finale del rito abbreviato e del processo dibattimentale; nel secondo gruppo rientrano invece le “udienze preliminari e dibattimentali”, che possono tenersi con modalità da remoto qualora le parti vi consentano. È tutto sommato razionale la scelta di vietare il ricorso della celebrazione con modalità da remoto nelle udienze fissate per incombenti istruttori o per la decisione finale, tenuto conto dell'importanza nevralgica di tali snodi processuali e della conseguente opportunità di garantire la presenza fisica delle parti e la loro possibilità di interloquire senza filtri fra di loro e con il giudice.

Desta diverse e giustificate perplessità, invece, l'ultima parte della disposizione, ossia quella riservata alle udienze preliminari e dibattimentali. Si può sorvolare sul testo involuto della norma, strutturata nei termini (e non è la prima volta…) di una “deroga alla deroga” che già di per sé non è un modello di chiarezza. La sintassi contorta utilizzata dal legislatore esige inoltre uno sforzo supplementare per mettere nella giusta luce il generico riferimento alle udienze dibattimentali: è chiaro infatti che tale espressione deve essere coordinata con la prima parte del periodo e dunque non può riferirsi alle udienze dibattimentali tout court ma solo a quelle che non siano riservate all'assunzione delle prove e alla discussione; siccome per queste ultime, infatti, la partecipazione a distanza è di fatto vietata in modo assoluto, ciò significa che le uniche udienze dibattimentali in cui è permesso il ricorso alla modalità da remoto sono quelle di c.d. smistamento o di mero rinvio. È chiaro che questa distinzione, in sé assai semplice, poteva essere espressa in termini più lineari dal legislatore, ma è altrettanto vero che il senso della norma è ricostruibile senza difficoltà eccessive.

Tuttavia, proseguendo nell'esame dell'ultima parte del comma 5, ci pare che a creare ben maggiore imbarazzo all'interprete sia proprio la clausola di riserva (“salvo che le parti vi consentano”) che permette il ricorso alle modalità di partecipazione da remoto.

Ad una prima lettura, a ben vedere, la norma sembra esigere il consenso di tutte le parti per celebrare l'udienza con tali modalità, così implicitamente attribuendo a ciascuna di esse una sorte di insindacabile diritto di veto il cui esercizio potrebbe precludere il ricorso a tale speciale tecnica di celebrazione dell'udienza. Non crediamo tuttavia che sia questa l'interpretazione corretta da dare alla norma, in un contesto normativo che è dichiaratamente ispirato all'esigenza di affrontare una gravissima emergenza epidemiologica e dunque a favorire, per quanto possibile, il ricorso alla partecipazione a distanza. Riteniamo quindi che la norma possa e debba essere interpretata nel senso che ciascuna delle parti sia libera di stabilire la propria modalità di partecipazione all'udienza, senza però che questa sua decisione influisca sulla scelta delle altre parti; in altri termini, riteniamo possibile, perché autorizzato non solo dalla lettera ma dalla ratio stessa della norma, che in caso di pluralità di parti alcune possano partecipare “in presenza” e altre invece a distanza.

Altro profilo di incertezza deriva dall'uso del termine “consenso”, che sembra implicare una sorta di “interpello” da parte del Giudice per stimolare l'esternazione della decisione delle parti in merito alle modalità della loro partecipazione al processo. Se questa è l'interpretazione corretta della norma, l'assenza di qualsiasi disciplina circa le modalità e i termini di tale interlocuzione fra il giudice e le parti, prodromica alla organizzazione dell'udienza, potrebbe portare a inconvenienti non proprio trascurabili nella prassi. Ci si chiede, ad esempio, se sia sufficiente comunicare alle parti l'avviso che l'udienza sarà celebrata da remoto, con l'indicazione delle istruzioni per avviare il collegamento, interpretando poi il silenzio dei soggetti interessati come una sorta di consenso tacito alla partecipazione a distanza. Ci si chiede, ancora, se tale avviso possa essere comunicato solo ai difensori e al Pubblico Ministero o debba essere inviato anche a imputati e persone offese, magari affrontando i tempi necessari per le notificazioni con le forme ordinarie.

Le deliberazioni collegiali

Veniamo ora al comma 9, che disciplina invece la deliberazione collegiale assunta con modalità da remoto e dunque da giudici che non si trovino nello stesso luogo “fisico”.

Non pongono particolari problemi interpretativi i primi tre periodi del comma, che si limitano a prevedere modalità e forme di tale deliberazione equiparando il luogo da cui si collegano i giudici alla camera di consiglio (con buona pace, quindi, della segretezza delle deliberazioni di cui all'art. 125, co. 4, c.p.p.) e rinviando, per la disciplina di dettaglio, ad un intervento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della Giustizia.

Tutt'altro discorso vale per il quarto periodo, che esclude la possibilità di assumere deliberazioni collegiali con modalità da remoto quando si tratti di “deliberazioni conseguenti alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio, svolte senza il collegamento da remoto”. Insomma, nel procedimento svoltosi in pubblica udienza e “in presenza”, il legislatore vuole che i giudici, al termine della discussione, si riuniscano per deliberare rimanendo fisicamente nello stesso luogo anziché fuggire nei rispettivi uffici per dar vita ad una camera di consiglio a distanza. Non ci sentiamo in questo caso di dar torto al legislatore, anche se ci sembra abbastanza singolare che la norma, a contrario, ammetta la “diaspora” dei giudici al termine della discussione quando si tratti di procedimenti che si sono svolti con modalità da remoto: il processo in effetti, che si svolga in “presenza” o a distanza, presuppone pur sempre che durante il suo svolgimento tutti i giudici siano fisicamente presenti in aula di udienza; e allora non si capisce perché nel primo caso vietare tassativamente la camera di consiglio da remoto e ammetterla invece nel secondo. Ci sfugge insomma la ratio di questa distinzione, che, per la sua stessa bizzarria, non si può escludere sia semplicemente frutto (anche stavolta) di una distrazione del legislatore.

Ma in un certo senso il peggio deve ancora venire.

Fin qui, infatti, abbiamo analizzato il caso della deliberazione conseguente alla pubblica udienza, deliberazione che come tale deve seguire senza soluzione di continuità la chiusura del dibattimento (art. 525 c.p.p.). Il legislatore, però, ha ritenuto di estendere il divieto di assumere la deliberazione con modalità da remoto anche ai procedimenti in camera di consiglio, nei quali, come è noto, non vige il principio della inderogabile immediatezza della deliberazione (artt. 127 e 128 c.p.p.). Ci chiediamo allora: se per assumere la decisione i giudici possono in questo caso beneficiare di un lasso di tempo più ampio, perché non consentire loro di riunirsi con modalità da remoto, ad esempio, uno, due o anche tre giorni dopo l'udienza? Di più: ripercorrendo il ragionamento a contrario formulato nelle righe precedenti, perché non si può procedere a camera di consiglio da remoto quando il procedimento si è svolto “in presenza” mentre è possibile farlo quando esso invece si è tenuto con modalità per così dire a distanza? Onestamente ci sembra difficile trovare una risposta ragionevole a questi dubbi.

L'unica spiegazione ragionevole (e non si prenda questa osservazione come un commodus discessus), sta forse nella sostanziale irragionevolezza di un legislatore che per l'ennesima volta innova il diritto positivo con allegra disinvoltura, senza preoccuparsi né degli effetti pratici delle norme che introduce né, tanto meno, della loro coerenza con il sistema.

Conclusioni

L'analisi condotta fin qui dimostra, a nostro avviso, che a fronte della necessità e urgenza di dettare una disciplina chiara sullo svolgimento del giudizio penale nel pieno di una gravissima pandemia, ci si è limitati a un frammentario, frettoloso e spesso maldestro intervento nel quale si è perfino riusciti, qua e là, ad inserire sprazzi di umorismo involontario e trappole interpretative degne del miglior enigmista. Riteniamo che a questo abbia contribuito, oltre a una certa trascuratezza e a una certa miopia di fondo, anche una sostanziale mancanza di coraggio: il d.l.n. 18/2020, che rappresenta il primo intervento volta a disciplinare l'attività giudiziaria nel corso dell'emergenza Covid, non solo aveva quanto meno il merito di dettare una disciplina organica e sufficientemente dettagliata, ma aveva ritenuto di assumere decisioni radicali quali il rinvio delle udienze e la sospensione della prescrizione. Nulla di tutto questo è avvenuto stavolta, avendo il legislatore preferito rinunciare ad una disciplina dettagliata per “rifugiarsi” in un testo normativo generico, impreciso e come tale, lo abbiamo visto, spesso di difficile se non difficilissima applicazione.

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