Cattive prassi nel controesame
25 Gennaio 2021
Introduzione
In tempi recenti sono state stabilite delle linee guida di buone prassi che possono essere considerate delle soft law, le quali aiutano a indirizzare la ricerca e la valutazione delle prove e della limitazione degli errori. Soft law è un termine utilizzato per definire un complesso di atti, documenti o strumenti il cui tratto generale è la loro informale obbligatorietà: la non - vincolatività delle regole non interdice la produzione di effetti giuridici, ovvero non impedisce che ad essi vengano ricollegati determinati effetti giuridici. Questo complesso è costituito di suggerimenti, indirizzi motivati con l'obiettivo di tener conto di tutte le istanze contingenti che emergono dal lavoro di psicologi, amministratori e giuristi (per quanto riguarda le professioni sanitarie e i medici, per esempio, il protocollo è stato poi ufficializzato con la legge n. 24 dell'8 marzo 2017). Si tratta però di un processo in continuo cambiamento: fornire linee guida è sempre più un work in progress, dettato dal rinnovo continuo delle norme a cui fare riferimento (Gulotta G., 2018. Innocenza e colpevolezza sul banco degli imputati. Per un processo sempre più giusto, Giuffrè Editore). In questo articolo, invece, voglio parlare delle cattive prassi che ho riscontrato nella mia pratica forense. Da tempo avevo evidenziato come non fosse corretto che il magistrato potesse rivolgere ai testimoni o all'imputato delle domande che erano invece vietate alle parti, in particolare domande tendenziose consentite soltanto nel controesame e, peggio ancora, domande nocive non consentite alle parti né nell'esame né nel controesame né nel riesame. Finché è finalmente giunta la sentenza n.15331/2020 della Suprema Corte di Cassazione, Sezione IV, che ho commentato in un recente articolo (Gulotta G., 2020. Divieto di domande suggestive anche per il giudice, in Sistemapenale.it, 1.07.2020). Ma c'è dell'altro che voglio portare alla luce. Una premessa è necessaria: nell'esame diretto, chi lo ha chiesto formula domande tese a costruire una versione dei fatti in linea con quanto l'esaminatore vuole sostenere; nel controesame si tende a decostruire questa versione; nel riesame si tende a ricostruirla. In tutte le tre fasi, le domande non sono fatte per sapere, ma per far sapere al giudice. Solo nel controesame sono ammesse domande, genericamente definite “suggestive”, che, presupponendo un fatto controverso, lo danno per scontato, magari lasciando trapelare l'aspettativa circa il contenuto della risposta (Gulotta G., 2019. Le 200 regole della cross-examination. Un'arte scientifica, Giuffrè Editore). È noto che il trascorrere del tempo produce dei vuoti di memoria e che un testimone, sentito al dibattimento tre o quattro anni dopo aver percepito i fatti, può non ricordare quanto magari ha raccontato due o tre anni prima. È assolutamente normale che il ricordo sia più fresco quanto più è vicino al momento percettivo. Mentre ai periti e agli organi di polizia giudiziaria è consentito consultare degli appunti, salvo particolari situazioni (art. 494 comma 5 c.p.p.), normalmente il testimone depone su ciò che ricorda o crede di ricordare. Fa parte dunque del gioco che alla risposta “non ricordo” ad una certa domanda, chi ne è interessato e lo sta interrogando lo aiuti a ricordare. Questi cosiddetti “aiuti alla memoria” sono delle sollecitazioni, travestite da contestazioni, che servono a far rifiorire quanto può essere stato dimenticato. Esiste una memoria di rievocazione e una memoria di riconoscimento: posso non ricordarmi quale è la capitale del Portogallo, dove dico di aver passato le feste di Natale, perché non riesco ad evocare il nome, che posso avere anche, come si suol dire, “sulla punta della lingua”. Alla domanda: “è Roma, Parigi o Lisbona?”, il testimone risponderà prontamente “Ah sì, è Lisbona” (Haist Frank e Shimamura Arthur P., 1992. On the relationship between recall and recognition memory. Joournal of experimental psychology: learning, memory and cognition. 1992. Vol. 18. N. 4, 691 – 702. Rumbaugh Cristopher M. e Landau Joshua D., 2018. Recognition and recall performance both benefit from the production effect with contenet-specific information. Reading Psycology. 2019. 39, 29 – 40). Si possono avere così delle conferme dibattimentali al narrato pre-dibattimentale. Si discute fino a che punto queste memorie emerse debbano pesare nella valutazione probatoria che il giudicante deve compiere (Fanuli Giuseppe Luigi, Il “vuoto di memoria” nella prova dichiarativa (scenari psicologici e rimedi giuridici) in Archivio Nuova Procedura Penale, n. 3 – 2007; Busetto Marcello M., Le contestazioni alla deriva, in Archivio Penale, Fascicolo n. 1 – Gennaio-Aprile 2019). A questo proposito, la Suprema Corte ha stabilito che “Nel corso dell'esame dibattimentale del testimone e delle parti private può procedersi alla contestazione delle dichiarazioni rese in precedenza tutte le volte in cui vi sia difformità con la dichiarazione dibattimentale, sia che con questa il soggetto sottoposto ad esame manifesti una conoscenza diversa, sia che riveli di non ricordare le vicende o i fatti su cui ha riferito in precedenza” (Cassazione Penale, Sez. VI, 20/04/2005, n. 6221). Anche in una sentenza più recente è stato affermato che “le dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni al testimone che manifesti genuina difficoltà di elaborazione del ricordo, ove lo stesso ne affermi la veridicità anche mediante richiami atti a giustificare il “deficit” mnemonico, devono ritenersi confermate e, in quanto tali, possono essere recepite ed utilizzate come se rese direttamente in dibattimento. (Nella fattispecie la Corte ha ritenuto corretta l'affermazione dei giudici di merito secondo cui il teste aveva espressamente confermato, a seguito di contestazioni, le dichiarazioni rese in precedenza, rispondendo alle sollecitazioni del p.m., a distanza di due anni e mezzo dai fatti, con l'espressione: «Confermo quanto dichiarato, ripeto, non ho l'immagine nitida ma se l'ho dichiarato questo è» (Cassazione Penale, Sez. II, 28/02/2017, n. 17089). Occorre distinguere, ovviamente, in caso in cui il testimone non ricorda da quello in cui, per reticenza, finge di non ricordare. D'altra parte, al fine di garantire la correttezza dello svolgimento dell'esame incrociato, occorre anche evitare che, con la scusa delle contestazioni, si legga parola per parola quanto i testimoni hanno dichiarato nelle SIT. Se si vuole aiutare la memoria, nel caso dell'esempio della capitale, si offre una gamma di possibilità con i nomi di diverse capitali. Nel caso in cui il testimone non riconosca neanche Lisbona, gli si può contestare: “lei aveva detto alla polizia giudiziaria che era Lisbona”. Per aiutare la memoria occorre fornire delle domande che frazionino quello che aveva detto, per vedere di arrivare comunque ad una risposta. Ecco, per esempio, cosa mi è capitato in un caso in cui difendevo un uomo e una donna imputati di aver, con diversi espedienti, indotto diverse volte delle ragazze ad andare a casa della “complice”, per fare in modo che poi uno di loro, il “capo”, potesse, con la scusa di fare da “consulente spirituale”, profittare della situazione e “allungare le mani” sulle ragazze (Gulotta G., cit. pag. 380 – 381). Che cosa è successo al dibattimento? Una testimone durante le SIT aveva dichiarato: “Dopo un lungo giro in macchina della città siamo andati a casa della signora XX (coimputata del capo) la quale dopo un po' ci ha lasciati soli ed è in quella occasione che lui mi ha toccato furtivamente la gamba spostando la mia gonna, dicendomi che ero bella e che gli piacevo molto”. Queste le domande poste alla testimone dal PM. Cosa successe dopo il giro in macchina? Non mi ricordo. Provi a pensar bene, cosa avete fatto dopo? Guardi non mi ricordo. Allora il PM le leggeva, come “aiuto alla memoria”, quanto aveva dichiarato a SIT. A quel punto protestavo vivamente, dicendo che questo avrebbe regredito il nostro processo a prima del 1988; il Tribunale, invece, riteneva che si trattasse di una sollecitazione legittima. Ecco, invece, come la memoria della testimone andava sondata e, per così dire, aiutata, con quelle che in tale occasione chiamavo sub-domande. Avete girato in macchina tutta la sera o a un certo punto avete smesso di andare in automobile? Chi eravate in macchina? Siete andati a casa di qualcuno? Chi ha deciso di farlo? La casa di chi era? Quanti eravate nella casa? Siete rimasti sempre tutti assieme? È capitato che lei è rimasta sola con qualcuno? (Se risponde di no) Quindi può non essere successo niente in quell'occasione? (Se risponde di sì) Cosa ha detto questo qualcuno? Lei cosa ha risposto? Ha fatto qualcosa questo qualcuno? Lei cosa ha fatto? È successo qualcosa che l'aveva colpita emotivamente? (Se non risponde) La aiuto ancora, è successo qualcosa di sgradevole? Solo a questo punto, se la testimone non risponde, allora è possibile leggere le sue dichiarazioni rilasciate in sede di SIT. Questo è un aiuto alla memoria, mentre l'altro è un modo per mortificare l'esame incrociato. Le opposizioni suggestive
Lasciando da parte la questione delle appena descritte “finte contestazioni”, mi occupo ora delle opposizioni suggestive, attraverso le quali, con la scusa di opporsi alla domanda, si suggerisce la risposta al testimone (Gulotta G., 2019. cit., pag. 278). Si pensi a frasi del tipo “… mi oppongo in quanto la domanda non è ammissibile perché ingenera confusione nel teste. Egli, infatti, si era limitato all'affermazione della circostanza secondo la quale…” Stavo interrogando una signora che aveva sostenuto a SIT di aver conosciuto un certo fatto da A e sapevo invece che l'aveva conosciuto da B. Nel controesame la signora ammetteva di aver conosciuto il fatto da B. Domanda: “Ma lei dice ora di aver conosciuto il fatto da B, mentre prima aveva detto di aver conosciuto tutti i fatti da A”. “Sì, in effetti ho conosciuto il fatto anche da B”. Allora le chiedo: “Perché non l'ha detto quando è stata interrogata precedentemente?” In questo momento un coro di avvocati diceva, senza essere ripresi dal Presidente: “Ha detto anche” (è quello che io chiamo, per rivendicarne l'italianità, l'esame incrociato “alle vongole”). “Signor Presidente, anche attraverso di lei, vorrei ringraziare il coro dei colleghi per la collaborazione prestata alla deposizione della signora. Il mio scopo era, ma ormai la frittata è fatta, cercare di capire come mai, quando è stata interrogata precedentemente, non aveva detto aver saputo il fatto anche da B, ma si era limitata a dire che l'aveva conosciuto da A”. Se intendo proporre una domanda chiave a un testimone avversario e non so se quest'ultimo sarà interrogato su questo argomento da chi lo ha citato perché, come spesso accade, la lista testimoniale è generica, allora devo essere io a citarlo come testimone per sentirlo sulla circostanza che mi interessa. Diventando un mio testimone, non potrei fargli domande suggestive. Tuttavia, l'art. 499 comma 3 c.p.p. chiarisce che “nell'esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone e da quella che ha un interesse comune sono vietate le domande che tendono a suggerire le risposte”. Quindi, se riesco a dimostrare di non avere un interesse comune, posso convincere il giudice a consentirmi di porre domande suggestive. Ovviamente, in questo modo, accetto l'ipotesi che l'antagonista provveda poi ad un controesame ed io al riesame. La regola di per sé è corretta, ma molto bistratta. Se la lista testimoniale è generica e fa riferimento a capi di imputazione, io ho il diritto di esaminare anche altri aspetti, anche perché la lista generica ha reso difficile per me dei testimoni a controprova. Esiste poi il caso in cui la lista testimoniale sia più dettagliata, ma l'interrogante non abbia investigato nell'esame diretto alcune parti degli argomenti che vi erano indicati. In questo caso, esiste la possibilità che il controesaminatore faccia domande sui punti che non sono stati affrontati. C'è una documentazione agli atti che smentisce quello che un testimone sta dicendo. Mi appresto a chiedergli di leggerla, se proviene da lui, per poi rinfacciargliela, oppure a leggerla io direttamente, se il documento non è di suo pugno. Ancora, come un sol uomo, PM e difensore della parte civile: “ma questi documenti sono già in atti, il Tribunale li conosce, non è il caso di ripeterli, mi oppongo a questa domanda”. La ragione della loro opposizione è evidente: non vogliono che vengano evidenziati. A fronte della mia insistenza, mentre cercavo di farmi largo tra un profluvio di opposizioni, un Presidente mi ha detto sarcasticamente: “Avvocato, le garantisco che il Tribunale sa leggere”. In questo caso si dimentica che lo scopo dell'esame invece è anche quello di vagliare la credibilità del testimone non solo la sua accuratezza. Se quei documenti lo smentiscono (nel caso processuale il testimone diceva di aver odiato una persona mentre le aveva mandato molti messaggi di affetto), mi son sentito dire dal Presidente che la Corte conosce questi documenti e poi valuterà. Ma come valuterà? Io voglio che emerga davanti a me, davanti a voi giudici, per vagliare poi come il testimone reagisce, per vedere prospettivamente se è credibile in relazione ad altri fatti. Per questo motivo, l'art. 146 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale stabilisce espressamente che “il seggio delle persone da sottoporre ad esame è collocato in modo da consentire che le persone stesse siano agevolmente visibili sia dal giudice che dalle parti”. Infatti, è importante vedere le reazioni emotive del testimone alle domande di chi lo interroga. Quando io faccio una domanda e il testimone divaga e va per conto suo, io lo interrompo e continuo con le domande. Allora, si leva un coro: “lo lasci finire, lasciatelo finire”. Mi ricordo di aver interrogato Antonio Di Pietro in un processo in cui questi era la persona offesa ed Emilio Fede era l'imputato che difendevo per diffamazione. Vi lascio immaginare quanto è stato complesso contenere il Dott. Di Pietro dall'argomentare le risposte. “Lo lasci finire” è un'osservazione sbagliata. Esiste il riesame proprio per permettere al testimone di finire di dire quanto stava dicendo nell'esame. Per esempio: “prima, mentre l'avvocato della difesa la interrogava, lei stava dicendo che non era riuscito ad andare a casa della signora quel giorno. A questo punto l'avvocato l'ha interrotta, per cortesia, vuole finire il discorso che stava facendo?” Chi fa domande ha diritto di interrompere l'esaminato che divaga o argomenta, altrimenti si permette al testimone di parlare liberamente e allora è finita: si perde il controllo e il testimone dice quello che vuole. Una volta, mentre un giudice mi diceva “lo lasci finire”, mi è venuto in mente di aggiustare una frase di Churchill: “Non mi interrompa, per cortesia, mentre sto interrompendo”. L'art. 498 comma 2 c.p.p. dispone che “successivamente altre domande possono essere rivolte dalle parti che non hanno chiesto l'esame, secondo l'ordine indicato nell'articolo 496”. Altre domande non, dunque, nuove come nell'articolo 498 comma 3 c.p.p. Quindi, è vietato porre la stessa domanda a cui il testimone aveva già risposto. Tuttavia, molto spesso, questa norma è interpretata in modo “stretto” e, in questo modo, viene svilita la finalità del controesame. Vediamo un esempio: alla domanda del PM relative alle modalità della minaccia, il testimone risponde che era stata spianata una pistola. Allora chiedo: “in che cosa consisteva la minaccia?”. “Ha già risposto” affermano il PM e il difensore della parte civile e magari il Tribunale accoglie l'obiezione. Se fosse così, il controesame non esisterebbe, non avrebbe nessun valore, funzione, opportunità, in quanto basterebbe che chi esamina faccia rispondere al testimone come preferisce, per cui il contraddittore non può più controesaminare perché il testimone ha già risposto. Insisto: “Lei ha visto la pistola puntata contro di lei?” “Si”. Controesame: “ma è sicuro che fosse una pistola?”. “Ha già risposto”, PM e parte civile si oppongono e il Tribunale accoglie l'opposizione. Invece a me interessa sapere se per caso era una pistola giocattolo, visto che era buio se l'arma aveva il tappo rosso e, soprattutto, se abbia potuto scambiare un telefono portatile per una pistola. In conclusione
Tutto questo deriva dal fatto che non c'è una vera cultura della cross examination nel nostro Paese e si constata una certa insofferenza e incapacità del giudice a rendersi spettatore dell'esame incrociato, tant'è vero che non viene praticamente mai utilizzato quanto previsto dall'art. 506 comma 1 c.p.p. che consente al giudice di indicare alle parti quali temi, addirittura nuovi, chiedere che vengano investigati durante l'esame incrociato, e dall'altra che gli avvocati che con difficoltà maneggiano l'abilità dell'uso strategico delle domande che lasci trapelare l'ammissibilità al giudice senza svelare troppo il senso a chi depone. La giurisprudenza è limitata su questo argomento perché spesso le questioni sono decise dal giudice con ordinanze brevi e poco motivate. Non ci sono corsi veri e propri, passato il primo periodo in cui qualcosa si faceva, ora non si fa più niente. Ma quello che succede nelle aule di Tribunale ha poco a che fare con quello che è l'esame incrociato per come deve essere svolto efficacemente. Quello di cui c'è bisogno è creare questa cultura. Per come la vedo, bisognerebbe fare in modo di studiare dei processi in cui si vedano esami, controesami, riesami e interventi del Presidente per poi fare dei corsi, con un dibattito in cui si discute l'ammissibilità o meno di certe domande, la loro valenza e cose del genere, prima facendosi un'idea di quello che è il significato di una domanda, di quello che è il potere per così dire infettivo della risposta. Per me il Presidente è un direttore d'orchestra, deve imparare a farlo bene in questa materia: è lui che dà il tacet, l'avvio, il forte, il lento che riprende gli stonati. Il suo ruolo è tutt'altro che passivo, egli deve capire – sempre che gli interroganti siano in grado di farlo - quale sia il senso implicito delle domande per determinare la loro rilevanza e dunque ammissibilità. Se alcune di queste tattiche ostruzionistiche sono messe insieme, allora l'esame incrociato può essere svilito del tutto. Infatti, se la tattica dell'aiuto alla memoria è unita a quella dell'opposizione dell'aver già risposto, allora il gioco è fatto. Per esempio, come difensore, se temo che il mio assistito o i miei testimoni possano essere messi in difficoltà da controparte in merito a quanto hanno dichiarato in fase di istruttoria, allora gli suggerisco di dire “non ricordo”, poi io leggo le loro dichiarazioni a SIT come aiuto alla memoria (sostanzialmente significa che domando “lei conferma quanto detto in sede di SIT?”), e nel controesame faccio le opposizioni quando, per esempio, il PM vuole mettere in discussione quanto il testimone aveva affermato a SIT: il cerchio si chiude, il controesame è azzerato e si continua “alla carlona”. |