L'attore parzialmente vittorioso può essere condannato alla refusione di una quota delle spese di lite?
15 Novembre 2021
Massima
Il ricorso deve essere rimesso al Primo Presidente della Corte di cassazione, affinché valuti l'opportunità di assegnarlo alle Sezioni Unite – sussistendo un contrasto nella giurisprudenza di legittimità e trattandosi di questione di massima di particolare importanza – in ordine al seguente quesito: se sia corretta e costituzionalmente orientata l'interpretazione dell'art. 92 c.p.c. secondo cui, nel caso di rilevante divario tra petitum e decisum, l'attore parzialmente vittorioso possa essere condannato alla rifusione di un'aliquota delle spese di lite in favore della controparte. Il caso
Proposta opposizione a precetto, in cui si contestava il quantum dell'importo portato dall'intimazione di pagamento (pari ad euro 5.928,08) – perché asseritamente eccedente rispetto alle somme risultanti dal titolo esecutivo –, dopo lo svolgimento del doppio grado di giudizio, la corte d'appello accertava che l'opposizione era parzialmente fondata, poiché la pretesa creditoria fatta valere doveva ritenersi cristallizzata nell'importo di euro 5.872,08. In sostanza, all'esito dei due giudizi di merito, l'importo precettato risultava decurtato – e quindi l'opposizione fondata – nei limiti di euro 56. In sede di gravame erano regolate le spese del doppio grado di giudizio e, per l'effetto, la corte d'appello le compensava per un decimo, ponendo i restanti nove decimi a carico del debitore opponente. In conseguenza, quest'ultimo, seppure vittorioso sull'opposizione per soli euro 56, era condannato al pagamento, nei confronti degli opposti, della massima parte delle somme liquidate a titolo di compensi ed esborsi. Avverso la suddetta sentenza l'opponente proponeva ricorso per cassazione, basato su un solo motivo. Segnatamente, con l'unico motivo di ricorso il debitore opponente lamentava sia il vizio di violazione di legge di cui all'art. 360, n. 3, c.p.c. (deducendo la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.), sia il vizio di omesso esame di un fatto decisivo. Nell'illustrazione del motivo deduceva che la Corte d'appello avrebbe violato l'art. 91 c.p.c., avendolo condannato alla rifusione delle spese di lite in favore delle controparti, nonostante questi dovesse ritenersi la parte vittoriosa. Sicché avrebbe dovuto essere considerato la parte vittoriosa in quanto, all'esito del doppio grado di giudizio, la sua opposizione a precetto era stata comunque accolta, sia pure in misura modesta ed inferiore al richiesto. Le controparti rimanevano intimate. La questione
Il Collegio chiede che il ricorso sia rimesso alle Sezioni Unite affinché sia accertato se, in caso di parziale accoglimento della domanda attorea, per un importo di gran lunga inferiore rispetto a quanto richiesto, sia legittimo, all'esito della disposta compensazione in parte qua delle spese di lite, in ragione dell'integrazione del presupposto della soccombenza reciproca, condannare la parte parzialmente vittoriosa alla refusione della quota delle spese non compensata. In definitiva, rispetto al caso affrontato, ove la domanda sia accolta nei limiti di un decimo a fronte di quanto richiesto, se sia legittimo compensare le spese per un decimo, ponendo i restanti nove decimi a carico della parte parzialmente vittoriosa, oppure se in questa fattispecie le spese avrebbero dovuto essere compensate per nove decimi, ponendo il restante decimo a carico delle parti convenute parzialmente soccombenti. Le soluzioni giuridiche
In primis, la Corte regolatrice ha osservato che sulla questione posta dal ricorso si registrano due orientamenti contrapposti. Secondo un primo orientamento, l'attore che – per ipotesi – abbia chiesto «100», e si veda accogliere la domanda per «10», non potrebbe ritenersi «soccombente» per i fini di cui all'art. 91 c.p.c. e, quindi, non potrebbe mai essere destinatario, nemmeno in minima parte, di una condanna alle spese. Ad avviso di questo orientamento, infatti, la riduzione, sia pure sensibile, della somma richiesta con la domanda giudiziale non vale a realizzare il concetto di soccombenza ai fini dell'attribuzione dell'onere delle spese e può, di conseguenza, solo consentire la relativa compensazione totale o parziale (Cass. civ., sez. VI-I, ord., 15 dicembre 2017, n. 30210; Cass. civ., sez. I, sent., 23 giugno 2000, n. 8532; Cass. civ., sez. lav., sent., 17 marzo 1997, n. 2337; Cass. civ., sez. III, sent., 3 marzo 1994, n. 2124; Cass. civ., sez. lav., sent. 24 aprile 1987, n. 4012; Cass. civ., sez. III, sent. 30 aprile 1979, n. 2513; Cass. civ., sez. III, sent. 8 gennaio 1968, n. 46; Cass. civ., sez. II, sent. 20 dicembre 1962, n. 3388). Un secondo orientamento ritiene, invece, che sussista un'ipotesi di «soccombenza» in senso tecnico anche quando l'attore abbia formulato una sola domanda, articolata in un unico capo, la quale venga accolta in misura quantitativamente e significativamente inferiore al richiesto (Cass. civ., sez. III, ord. 22 agosto 2018, n. 20888; Cass. civ., sez. I, ord. 24 aprile 2018, n. 10113; Cass. civ., sez. III, sent. 22 febbraio 2016, n. 3438; Cass. civ., sez. VI-II, ord. 23 settembre 2013, n. 21684; Cass. civ., sez. VI-Lav., ord. 30 marzo 2011, n. 7307; Cass. civ., sez. III, ord., 21 ottobre 2009, n. 22381; Cass. civ., sez. lav., sent., 16 maggio 2003, n. 7716; Cass. civ., sez. III, sent., 18 gennaio 1962, n. 77). Il punto di contrasto, dunque, riguarda l'ipotesi in cui, all'esito del giudizio, si registri un rilevante divario tra deductum e decisum. Mentre alcune decisioni ritengono che ricorra in tal caso un'ipotesi di soccombenza reciproca o «parziale», altre ritengono che ricorra soltanto un «giusto motivo» ex art. 92 c.p.c. per la compensazione delle spese. L'ovvia conseguenza è che il primo orientamento ammette, nella suddetta ipotesi, non solo la compensazione delle spese, ma anche la condanna dell'attore che abbia formulato una domanda “esosa” alla refusione delle spese in favore della controparte. Il secondo orientamento, invece, ammette, nella suddetta ipotesi, solo la compensazione delle spese, ma non anche, neppure in parte, la condanna della parte che sia risultata vittoriosa in misura inferiore al richiesto. Ebbene, la Corte di legittimità reputa non soddisfacente l'orientamento che consente la condanna della parte «parzialmente vittoriosa» alla refusione delle spese di lite: sia sul piano dell'interpretazione letterale, sia sul piano dell'interpretazione logica, sia sul piano dell'interpretazione costituzionalmente orientata. Sul piano dell'interpretazione letterale, ad avviso della Corte, condannare la parte che ha visto accolta la propria domanda, sia pure solo in parte, sarebbe conclusione che trascura il rapporto che la dottrina, da sempre (per l'esattezza, a partire dall'esegesi formatasi sul codice sardo del 1859, rifluito poi nell'art. 370 c.p.c. del 1865 e, quindi, negli artt. 91-92 del vigente codice di rito), ravvisa tra gli artt. 91 e 92 c.p.c., il quale è un rapporto di regola ad eccezione. L'art. 91 c.p.c., infatti, detta la regola generale victus victori; l'art. 92 c.p.c. consente tre deroghe a quella regola, la quale non si applica quando la parte vittoriosa abbia violato il dovere di correttezza, quando vi sia soccombenza reciproca o quando ricorrano «gravi motivi» (quest'ultima ipotesi è quella risultante dall'intervento manipolativo della sentenza della Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77). Il rapporto di regola ad eccezione esistente tra l'art. 91 e l'art. 92 c.p.c. ha per ovvia conseguenza che, venuto meno il presupposto dell'eccezione, risorgerà la regola. Dunque, ove ricorra soccombenza reciproca o parziale ed il giudice decida di compensare le spese solo in parte, l'aliquota di spese che il giudice ritenesse di non compensare resta disciplinata dall'art. 91 c.p.c. Quella, infatti, è la regola generale che deve applicarsi, a meno che non venga disposta la compensazione. L'art. 92 c.p.c. non stabilisce a carico di chi vada posta la parte di spese non compensate per l'ovvia ragione che non aveva bisogno di farlo, dal momento che a tanto provvede l'art. 91 c.p.c. Sul piano dell'interpretazione logica, reputa il Collegio non condivisibile l'argomento secondo cui la formulazione di una domanda di condanna eccedente la reale entità del credito costringa il convenuto a sostenere maggiori oneri di difesa, sicché sarebbe iniquo lasciare a carico del convenuto spese causate dalla eccessiva pretesa di controparte. Questa affermazione è contestata, dal punto di vista della logica formale, sotto due diversi aspetti. In primo luogo, essa trascurerebbe di considerare che – per avviso unanime della dottrina – il diritto al rimborso delle spese non preesiste alla sentenza, ma nasce con essa. Il provvedimento giudiziario non trova quel diritto, ma lo crea: ragione per cui si suol dire che la sentenza è costitutiva dell'obbligo del rimborso. È dunque un'inversione logica chiedersi se, per avventura, prima della sentenza la parte soccombente abbia sostenuto spese che una diversa condotta della parte vittoriosa le avrebbe potuto risparmiare. Il credito di rimborso sorge, infatti, solo con la sentenza e solo a favore della parte vittoriosa, il che esonera il giudice dal chiedersi se e cosa abbia speso la parte soccombente, in quanto la legge non consente che tre alternative: la condanna integrale del soccombente; la condanna parziale del soccombente (con compensazione parziale per la frazione restante); la compensazione integrale. Ed in tutte queste ipotesi resta irrilevante stabilire cosa abbia speso il soccombente per remunerare il proprio difensore. In secondo luogo, la tesi secondo cui la formulazione di una domanda di condanna eccedente la reale entità del credito costringa il convenuto a sostenere maggiori oneri di difesa (e dunque giustificherebbe la condanna della parte vittoriosa alla refusione delle spese) non appare persuasiva dal punto di vista dell'interpretazione logica, perché attua un'indebita commistione, sovrapponendo due piani: quello delle spese di soccombenza (cioè le spese che la parte soccombente deve rifondere al vincitore) e quello delle spese di resistenza (cioè le spese che la parte soccombente ha sostenuto per contrastare l'iniziativa giudiziaria avversa). Ma le une e le altre delle suddette spese non interferiscono tra loro. Per stabilire se e chi debba pagare le spese di soccombenza dovute alla parte vittoriosa è irrilevante chiedersi quanto abbia speso il soccombente per remunerare il proprio difensore, per quattro ragioni. A) La prima ragione è che la nostra legge, agli artt. 91-92 c.p.c., si occupa solo delle spese di soccombenza, ma si disinteressa delle spese di resistenza. B) La seconda ragione si sostanzia nel rilievo secondo cui, con riferimento alle spese di soccombenza, nel caso di domanda di condanna risultata eccessiva, il soccombente è tutelato dal principio per cui le spese dovute alla parte vittoriosa vanno liquidate in base al decisum e non in base al disputatum (art. 5, comma 1, quarto periodo, d.m. 10 marzo 2014, n. 55). Sicché, rispetto a queste spese, una domanda quantitativamente esagerata non sortisce affetto alcuno sulla misura della condanna a carico del soccombente. C) La terza ragione è desumibile dal fatto che l'onere sostenuto dal convenuto per remunerare il proprio difensore non potrebbe mai giustificare la condanna alle spese della parte vittoriosa, in quanto delle due l'una: o l'eccessività della pretesa attorea era evidente, oppure no. Se l'eccessività era evidente, il soccombente è tutelato (rispetto alle pretese del proprio difensore) dall'art. 5, comma 2, d.m. n. 55 del 2014, a norma del quale «nella liquidazione dei compensi a carico del cliente si ha riguardo (...) al valore effettivo della controversia quando risulta manifestamente diverso da quello presunto». Se invece l'eccessività della pretesa attorea non era evidente, a fortiori la parte vittoriosa non potrebbe mai essere condannata alle spese: sia perché in questo caso i «maggiori oneri» sostenuti dal convenuto non potrebbero dirsi inutili; sia perché mancherebbe la colpa dell'attore (per chi ne ammette la rilevanza in tema di spese giudiziali); sia perché mancherebbe la causalità tra l'iniziativa attorea e i suddetti «maggiori oneri». D) In base alla quarta ragione, potrebbe risultare velleitario pretendere di distinguere, a fronte di una domanda attorea accolta solo in parte, gli «oneri» (quelli che il convenuto avrebbe dovuto comunque sostenere), dai«maggiori oneri» (quelli, cioè, che il convenuto ha dovuto affrontare solo a causa della esosità della pretesa attorea). Ed anche ad ammettere che questa operazione fosse possibile in concreto, essa non appare coerente col principio, affermato dalle Sezioni Unite, secondo cui le prorompenti esigenze di semplificazione dello svolgimento del processo ed il principio di ragionevole durata di cui all'art. 111, secondo comma, Cost. impongono alla Corte di cassazione di fornire al giudice di merito «soluzioni snelle», specie nelle situazioni «che recano in se stesse il germe dell'inevitabile approssimazione della statuizione giudiziale» (Cass. civ., sez. un., sent. 16 luglio 2008, n. 19499). E certamente non potrà dirsi «soluzione snella» e di pronta applicazione quella che imponga al giudice di merito, al fine di stabilire se l'attore parzialmente vittorioso possa essere condannato alle spese, di soppesare con certosina acribia se e quanta parte delle spese sostenute dal convenuto siano state necessità della «eccedente pretesa» attorea. Infine, l'orientamento che ammette la possibilità di condannare la parte vittoriosa alle spese, nel caso di rilevante divario tra deductum e decisum, secondo il Collegio, adotta un'interpretazione dell'art. 92 c.p.c. che non sembra perfettamente compatibile con l'art. 24 Cost. Quell'orientamento, infatti, a ben vedere, si fonda sul seguente sillogismo: se la vittoria dell'attore è «parziale», ciò vuol dire che la parte vittoriosa è anche parzialmente soccombente; se l'attore è parzialmente soccombente, per converso la controparte sarà parzialmente vittoriosa sul punto di domanda non accolto; ergo, è giusto ed equo che l'attore possa essere condannato alle spese. Sennonché ciò rischia di integrare un paralogismo, in cui l'errore sta in ciò: equiparare inammissibilmente la posizione dell'attore e quella del convenuto. Il creditore insoddisfatto non potrebbe ottenere il pagamento di quanto a lui dovuto, se non virtù di un provvedimento giudiziario. Egli, di conseguenza, è obbligato a ricorrere al giudice per tutelare le proprie ragioni. Per contro, il debitore che si veda richiedere un importo superiore al dovuto, non è obbligato a ricorrere al giudice per tutelare le proprie ragioni. Egli potrà attendere supinamente che sia il creditore a farlo; e comunque avrà sempre la possibilità di adempiere spontaneamente la parte di obbligazione che ritiene dovuta; oppure di evitare gli effetti della mora attraverso l'offerta formale. Ché se poi, nonostante ciò, il creditore insistesse nella propria pretesa, l'eventuale giudizio da questi introdotto si concluderà con un rigetto totale, e non parziale, della domanda attorea: e nessun problema potrebbe sorgere sulla regolazione delle spese. Questa differenza impedisce di accomunare la posizione dell'attore parzialmente vittorioso a quella del convenuto parzialmente soccombente. Pertanto, quando – all'esito del giudizio – la domanda attorea fosse accolta solo in parte, non sembra corretto discorrere di una «soccombenza prevalente» e una «soccombenza minusvalente». Ciò a cui occorre unicamente badare è la sussistenza della necessità per il creditore di ricorrere al giudice per l'affermazione del proprio diritto. Se quel diritto non poteva essere realizzato se non per il tramite della sentenza, le spese potranno al massimo essere compensate, ma non potranno essere addossate all'attore, in quanto – e questo è il punto di caduta del ragionamento –, se così non fosse, l'interpretazione qui contestata dell'art. 92 c.p.c. diverrebbe una coazione indiretta ad astenersi dall'esercitare il proprio diritto in tutti i casi in cui il costo della lite dovesse superare il valore di essa, con conseguente dubbia compatibilità della norma con l'art. 24 Cost. Ed infatti la condanna alle spese, per quanto detto, costituisce un complemento essenziale della garanzia costituzionale del diritto di azione. Diritto che resterebbe vuota formula, se l'attore vittorioso fosse esposto al rischio non solo di farsi carico dei costi del processo, ma addirittura di essere condannato a rifondere le spese della controparte: un esito, prima che da sempre aborrito dai giuristi, deriso finanche dal Poeta, allorché chiosò che in tali casi discedat tristior, ille qui vicit. La Corte di cassazione ha espresso un'ultima considerazione. La dottrina pressoché unanimemente, già a partire dalla fine del XIX sec., ha costantemente segnalato taluni abusi della giurisprudenza nell'interpretazione delle norme sulla regolazione delle spese. Vuoi in eccesso (ad esempio, liquidando spese in misura elevata come strumento «punitivo» extra ordinem per la parte che ha sostenuto ragioni manifestamente infondate); vuoi in difetto (ad esempio, ricorrendo all'istituto della compensazione anche in assenza di gravi motivi, vuoi per maltalento, vuoi per calcolo inteso a dissuadere i litiganti dal proseguire la lite). Queste tendenze giurisprudenziali, quale che fosse la loro condivisibilità, hanno avuto tutte per effetto l'allargamento della discrezionalità del giudice nella regolazione delle spese di lite. Anche l'interpretazione dell'art. 92 c.p.c. qui contestata, secondo cui sarebbe possibile condannare la parte parzialmente vittoriosa alla refusione delle spese in favore della controparte, è una interpretazione che allarga l'area della discrezionalità del giudicante, attribuendogli poteri valutativi insindacabili in sede di legittimità e di sconfinata latitudine: quale sia la soccombenza prevalente; di quanto la soccombenza debba dirsi «prevalente» per poter condannare la parte vittoriosa alle spese; quanti siano i «maggiori oneri» che la parte attrice, con la sua pretesa esagerata, ha costretto il convenuto a sostenere; quale rapporto causale esista tra l'iniziativa attorea ed i suddetti «maggiori oneri». Ma in subiecta materia interpretazioni intese ad allargare l'area della discrezionalità del giudicante non sembrano oggi più sostenibili. Esse infatti collidono col principio di ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost., nella misura in cui rendono più aleatorio ed imprevedibile l'esito del giudizio, e di conseguenza fomentano l'introduzione del giudizio o la resistenza ad esso. Osservazioni
Nella pronuncia in esame la Corte di cassazione ha chiesto al Primo Presidente di rimettere alle Sezioni Unite il quesito relativo al riconoscimento della possibilità che, in caso di accoglimento parziale della domanda attorea, con una declaratoria dinamica di condanna significativamente più contenuta rispetto alla misura statica della domanda avanzata – e quindi con un consistente divario tra deductum e decisum –, la parte attrice parzialmente vittoriosa possa essere condannata al refusione delle spese di lite per la quota non compensata, in ragione dell'integrazione del presupposto della soccombenza reciproca o parziale. Sul punto, l'ordinanza interlocutoria ravvisa sia un contrasto di indirizzi giurisprudenziali in sede nomofilattica, sia una questione di massima di particolare importanza. La Corte regolatrice dubita che ciò possa avvenire all'esito di un'interpretazione letterale, logica e costituzionalmente orientata degli artt. 91 e 92 c.p.c. E tanto perché la facoltà di una compensazione parziale per soccombenza reciproca (quantum della soccombenza) deve pur sempre esplicarsi nell'ambito della regola di cui all'art. 91 c.p.c. (che individua l'an della soccombenza). Secondo l'impostazione più recente della giurisprudenza di legittimità, l'ipotesi della «soccombenza reciproca» è integrata allorché sussista una pluralità di pretese contrapposte, rigettate dal giudice a discapito di entrambe le parti. É altresì attribuito valore, ai fini del riparto delle spese, alle attività rispettivamente poste in essere non solo dall'attore, in termini di formulazione della pretesa, ma anche dal convenuto, in termini di (eventuale) contestazione di essa. In passato, si tendeva, invece, ad escludere che sussistesse reciproca soccombenza allorché una parte avesse resistito ad una domanda avversaria eccessiva, solo in parte risultata fondata: in questi casi si argomentava in termini di soccombenza integrale, sebbene il quantum delle spese fosse determinato, non già in base agli scaglioni desumibili dal deductum, ma sulla scorta dell'entità del decisum, con l'eventuale disposizione della compensazione per giusti e, successivamente, per gravi ed eccezionali motivi. In giurisprudenza sussiste tuttora un orientamento minoritario che circoscrive il campo di applicabilità della reciprocità alla presenza di una pluralità di domande, escludendola nel caso di domanda unica, accolta solo in parte (Cass. civ., 19 ottobre 2015, n. 21083; Cass. civ., 21 ottobre 2009, n. 22381; Cass. civ., 26 maggio 2006, n. 12629). Ma l'orientamento maggioritario è nel senso di ravvisare la reciproca soccombenza sia nell'ipotesi di pluralità di domande, formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia nell'ipotesi di accoglimento parziale dell'unica domanda proposta, tanto quando questa sia stata articolata in più capi, dei quali soltanto alcuni siano stati accolti, quanto nel caso in cui sia stata articolata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura solo quantitativa dell'accoglimento (Cass. civ., 21 gennaio 2020, n. 1268; Cass. civ., 22 agosto 2018, n. 20888; Cass. civ., 24 aprile 2018, n. 10113; Cass. civ., 21 dicembre 2016, n. 26565; Cass. civ., 22 febbraio 2016, n. 3438; Cass. civ., 8 febbraio 2016, n. 2492; Cass. civ., 13 gennaio 2015, n. 281; Cass. 23 settembre 2013, n. 21684). In sintesi, l'orientamento maggioritario individua la soccombenza reciproca sia nell'ipotesi di pluralità di domande, rigettate o accolte dal giudice a svantaggio di entrambe le parti, sia nell'ipotesi di domanda parzialmente accolta. In particolare, è possibile affermare che ricorre soccombenza reciproca nelle seguenti quattro ipotesi: A) quando la stessa parte propone più domande, delle quali solo alcune vengano accolte; B) quando entrambe le parti propongono più domande contrapposte, ossia ciascuna contro l'altra, e solo alcune di queste vengano accolte, ovvero siano accolte sia le domande principali proposte dall'attore contro il convenuto, sia le domande riconvenzionali proposte dal convenuto contro l'attore; C) quando la parte propone la domanda in più capi e solo alcuni di questi capi vengano accolti; D) quando la parte propone una domanda accolta solo parzialmente, anche in senso meramente quantitativo. Il punto dolente di questa ricostruzione si riscontra con riferimento ai giudizi per pagamento di somme di denaro o liquidazione di danni, allorché l'unica domanda proposta sia accolta solo in parte, con un significativo divario tra deductum e decisum, idoneo ad incidere sugli scaglioni rilevanti per l'applicazione dei parametri di quantificazione dei compensi di lite. Ove in questa ipotesi si reputino integrati i presupposti della soccombenza reciproca, tale da giustificare la compensazione parziale delle spese, sarebbe più coerente sul piano sistematico ricavare i parametri forensi applicabili dal valore dichiarato della controversia piuttosto che dal valore effettivo. Rispetto a tale ultimo valore non vi è infatti soccombenza parziale dell'attore. Per contro, l'art. 5, comma 1, quarto periodo, del d.m. 10 marzo 2014, n. 55 afferma il principio secondo cui, in tale evenienza, si ha riguardo di norma alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata, ai fini della determinazione del valore della controversia da cui desumere i parametri applicabili in relazione alle fasi del giudizio (di studio, introduttiva, di trattazione e/o istruttoria, decisoria). E in ogni caso si ha riguardo al valore effettivo della controversia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, quando risulta manifestamente diverso da quello presunto ex art. 14 c.p.c., nel caso in cui la domanda di condanna non indichi l'importo preteso. In definitiva, se la domanda sia volta ad ottenere la condanna nella misura di «100» e sia accolta nei limiti dell'importo di «10», ha senso ragionare in termini di soccombenza reciproca ove i parametri da applicare siano determinati sulla scorta del deductum (ossia di «100»), e non già sulla scorta del decisum (ossia di «10»). A fronte del decisum vi è infatti soccombenza integrale del convenuto, con la facoltà, al più, di disporre la compensazione per gravi motivi. Tanto premesso, la Corte regolatrice evidenzia che, ove nella fattispecie emarginata si ragioni in termini di soccombenza reciproca e all'esito si disponga la compensazione parziale delle spese, la parte di spese non compensata dovrà comunque essere posta a carico del convenuto, avendo l'attore comunque vinto la causa ai sensi dell'art. 91 c.p.c., seppure in misura inferiore rispetto a quanto richiesto. E ciò perché l'art. 91 c.p.c. esprime una regola di natura qualitativa, non già quantitativa, stabilendo che la parte che ha vinto la causa, non importa in che misura, non può essere condannata alla refusione delle spese di lite, fatta salva l'ipotesi ivi regolata del rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa. A fronte della regola intangibile sull'an della soccombenza, l'eccezione di cui all'art. 92, secondo comma, c.p.c. consente la mera compensazione parziale in caso di soccombenza reciproca non paritaria (evidentemente, nel caso di soccombenza reciproca paritaria, un problema residuale di condanna alle spese non si pone, dovendosi disporre la compensazione integrale di tali spese) o in caso di gravi motivi. Ma la graduazione della soccombenza (ossia il quantum) non può scalfire il principio secondo cui la quota di spese non compensata non può essere rifusa dal vincitore. La condanna al pagamento della «maggior quota differenziale», a carico della parte che ha dato causa in misura prevalente agli oneri processuali, determina, infatti, un'indebita commistione tra piani non sovrapponibili: il piano dell'an e il piano del quantum della soccombenza. Cosicché ove sia proposta una domanda di condanna al pagamento della somma di «100» e l'accoglimento sia avvenuto nei limiti della somma di «10», la soccombenza reciproca giustifica la compensazione delle spese per 9/10, con condanna del convenuto al pagamento delle spese nei limiti di 1/10 in favore dell'attore, non già – come avvenuto nel giudizio di merito da cui è scaturita l'ordinanza interlocutoria in commento – la compensazione per 1/10 e la condanna dell'attore alla refusione dei residui 9/10 in favore del convenuto. Quest'ultima conclusione, appunto, contrasta con l'interpretazione letterale, logica e costituzionalmente adeguata del combinato disposto degli artt. 91 e 92 c.p.c. per le convincenti motivazioni esposte nell'ordinanza. In specie, avuto riguardo al principio di causalità delle spese, la pronuncia esalta correttamente la condizione di asimmetria in cui versano le parti ove la pretesa giudiziale fatta valere si riveli ex post fondata solo in parte qua: e tanto perché l'attore non può esimersi dall'agire in giudizio per ottenere la soddisfazione della sua pretesa, quand'anche solo parzialmente fondata; il convenuto, invece, può paralizzare l'azione giudiziale offrendo l'adempimento spontaneo nei limiti di quanto ritenuto dovuto. Laddove ciò non abbia fatto ha comunque concorso nel rendere necessario il giudizio, quantomeno nei limiti della frazione di pretesa rivelatasi fondata, ed entro tali limiti la quota differenziale delle spese di lite deve essere posta a suo carico. Riferimenti
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