Le misure di prevenzione nell'alveo dell'art. 27 Cost.
25 Novembre 2021
Abstract
Una recente pubblicazione ha riacceso l'attenzione sulla necessità di ricondurre in seno alla Costituzione le misure di prevenzione: nate per contrastare il fenomeno del brigantaggio (l. 15 agosto 1863, n. 1409, c.d. legge Pica), sfruttate dal fascismo per spegnere ogni forma di dissenso, ma anche dagli oppositori al regime contro coloro che ne erano stati i fiancheggiatori, si ritrovano ora all'interno del cd. codice antimafia e destinate ad essere largamente applicate anche al di fuori del contrasto alla criminalità mafiosa…
Dopo la nota sentenza della Corte Edu, G.C., De Tommaso c. Italia, 23 febbraio 2017 in materia di misure di prevenzione alcuni autori hanno parlato in modo invero assai convinto di “prima crepa nel sistema”: veniva salutata con favore la presenza di una pluralità di opinioni (parzialmente) dissenzienti e concorrenti, alcune argomentate in modo molto articolato ed approfondito, e si invitava a non sottostimare gli effetti della pronuncia nel nostro ordinamento. Venivano auspicati interventi correttivi, in via interpretativa, da parte dei giudici, anche prima del pronunciamento in merito della Corte costituzionale. Tante di quelle “speranze” sono state frustrate dalla Corte Costituzionale, sentenza n. 24 del 2019, con cui la Consulta ha escluso che la confisca di prevenzione abbia “natura sostanzialmente sanzionatorio-punitiva”, e di conseguenza non ha ritenuto applicabile lo “statuto costituzionale e convenzionale delle pene”, sul presupposto che l'ablazione dei beni costituisce “la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione”, e quindi del “vizio genetico nella costituzione dello stesso diritto di proprietà in capo a chi ne abbia acquisito la materiale disponibilità”, richiamando in proposito la Sentenza delle Sezioni unite Spinelli. Pertanto, “in assenza di connotati afflittivi ulteriori” rispetto alla bonifica di quell'arricchimento illecito, la confisca possiede un “carattere meramente ripristinatorio della situazione che si sarebbe data in assenza dell'illecita acquisizione del bene”. Se questa è l'opinione prevalente, le misure di prevenzione rischiano di assurgere a terreno elettivo per realizzare l'abolizione dei diritti dei singoli attraverso quella che Leonardo Sciascia aveva definito la “terribilità” di pene, mascherate per di più sotto “false etichette”. Come ricondurre allora le misure di prevenzione nell'alveo della Costituzione ed in particolare nei tre commi che compongono l'art. 27? Personalità della responsabilità, presunzione di non colpevolezza e finalità rieducativa appaiono dei cardini che dovrebbero guidare anche il legislatore “di prevenzione” per non tornare ad un passato che la Costituzione ha definitivamente (?) cancellato. Il presente contributo è tributario delle stimolanti riflessioni di Edoardo Zuffada, La prevenzione personale ante delictum: alla ricerca di un fondamento costituzionale (in disCrimen, 17 settembre 2021), che hanno avuto l'indubbio merito di riaccendere il “faro” sui rapporti tra misure di prevenzione e Costituzione. Un intero paragrafo è significativamente dedicato al “silenzio” serbato dalla Costituzione in materia di prevenzione dei reati: originariamente impiegate per neutralizzare i pericoli per l'ordine borghese derivanti dalla marginalità sociale e dai ceti subalterni, le misure ante delitcum hanno ben presto mostrato la loro duttilità applicativa, venendo sfruttate, già in epoca liberale, per reprimere il fenomeno del brigantaggio, prima, e le forme più allarmanti di dissenso politico, dopo. Il fascismo ha poi brutalmente esaltato l'utilizzo delle misure di polizia per eliminare dalla scena pubblica tutti gli oppositori politici, in particolare attraverso lo strumento del confino di polizia. Caduto il regime fascista, anche il governo provvisorio si è servito della prevenzione di polizia: svestite della “camicia nera”, misure di carattere personale e patrimoniale sono state impiegate proprio nei confronti di tutti i fiancheggiatori della dittatura. Nonostante la bruttissima prova di sé che gli istituti in questione avevano dato sia in epoca ottocentesca sia soprattutto durante il fascismo, l'Assemblea costituente ha sorprendentemente dedicato scarsissima attenzione allo spinoso tema delle misure ante delictum e della loro compatibilità con i diritti e le libertà che, nell'approvando testo costituzionale, si intendevano affermare e proteggere dagli arbitri del potere politico e giudiziario. I motivi di un tale silenzio devono essere rintracciati, secondo Zuffada, anzitutto, nell'imbarazzo molto probabilmente provato da una gran parte dei Costituenti, in ragione dell'utilizzo in chiave di lotta politica antifascista che, delle misure preventive, era stato fatto durante il governo provvisorio; inoltre, si è intravista, nell'atteggiamento dell'Assemblea, una certa tendenza a sottovalutare l'importanza, sopra un piano generale, del ruolo svolto da istituti come l'ammonizione, in una fase storica in cui le forze di polizia risentivano ancora dell'irreggimentazione fascista. Eppure, a fronte di uno scenario che viene definito tutt'altro che definito, l'Autore ritiene opportuno tornare su un problema, qual è quello del fondamento costituzionale del potere statuale di prevenzione dei reati, che, a più riprese scandagliato dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale e mai definitivamente risolto, è invero gravido di implicazioni con riferimento sia alla disciplina vigente sia ai possibili scenari futuri del diritto “preventivo”. Zuffada viene ad individuare nell'art. 25 comma 3 Cost. il fondamento del potere di prevenzione dei reati da parte dello Stato in quanto espressione del definitivo congedo da fattispecie caratterizzate da standard probatori molto bassi, perché costruite come vere e proprie fattispecie indiziarie (lett. a, lett. b, lett. d I pt., lett. i I pt., lett. i-bis, lett. i-ter dell'art. 4 cod. antimafia) o comunque basate su un alleggerimento della prova dei fatti descritti (si tratta delle fattispecie che contengono la locuzione “debba ritenersi” non ulteriormente specificata, e cioè: artt. 1 e 4, lett. c, e, g, i II pt.). La pregevole riflessione di Zuffada induce ad ulteriormente approfondire i rapporti tra misure di prevenzione e Costituzione. Punto di partenza per questa riflessione è costituito dalla decisione n. 364/1988, con cui la Corte costituzionale ha sancito in modo chiaro e definitivo che l'art. 27 primo comma Cost., con l'espressione "responsabilità penale personale" garantisce la responsabilità penale per un fatto proprio "colpevole". Nella motivazione della propria decisione, la Corte interpreta l'art. 27 primo comma Cost. nel quadro dei principi costituzionali, valorizzando in modo particolare il collegamento con il III co. dello stesso articolo, il quale assegna alla pena una funzione rieducativa: secondo il giudice costituzionale, «comunque si intenda la funzione rieducativa della pena, essa postula almeno la colpa dell'agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica. Non avrebbe senso la rieducazione di chi, non essendo almeno in colpa (rispetto al fatto) non ha, certo, bisogno di essere rieducato». La Corte, però, ritiene che il principio di colpevolezza sia strettamente legato ai principi di legalità e di irretroattività della legge penale, i quali hanno la funzione di garantire che «il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento». Secondo il giudice costituzionale, però, «a nulla varrebbe, in sede penale, garantire la riserva di legge statale, la tassatività delle leggi, ecc., quando il soggetto fosse chiamato a rispondere di fatti [...] in relazione ai quali non è in grado, senza la sua benché minima colpa, di ravvisare il dovere di evitarli nascente dal precetto». In parole più semplici «il principio di colpevolezza, in questo senso, più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio garantistico di legalità, vigente in ogni Stato di diritto». Anche in questo caso pare opportuno spostare l'attenzione su quelli che sono stati i lavori della Costituente dove particolarmente importante fu l'elaborazione del primo comma. Con l'assunto "la responsabilità penale è personale", si è voluto escludere già nella I Sottocommissione l'idea di una responsabilità penale per il fatto altrui. In quella sede, vi era, da un lato, chi proponeva un'interpretazione ampia della norma, in base alla quale essa avrebbe escluso in via generale la responsabilità obiettiva per fatto altrui; dall'altro, invece, vi era chi propendeva per un'interpretazione restrittiva, facendo leva sul carattere soprattutto politico della norma in questione. Pensando alle rappresaglie compiute durante la guerra su persone estranee ai fatti o nei confronti di familiari, si considerava il principio come "una affermazione di libertà e di civiltà" in quanto «si risponde per fatto proprio e si risponde attraverso ogni partecipazione personale al fatto proprio. Questo è il principio del diritto moderno, che trova la sua espressione nel principio della consapevolezza che deve accompagnare quello che si chiama il fatto materiale». Va inoltre ricordato che, durante la discussione sull'art. 13 Cost., l'Assemblea aveva approvato il principio secondo cui «è assolutamente vietato privare della libertà personale chiunque sia estraneo al fatto per il quale l'autorità di polizia procede», principio che venne poi soppresso in sede di coordinamento finale. Tale circostanza, però, rileva ai fini dell'interpretazione dell'art. 27 primo comma Cost., con il quale si intende proibire non soltanto le restrizioni della libertà personale, ma anche ogni altra conseguenza di natura penalistica a carico di chi sia estraneo al fatto commesso. Invero, durante il fascismo, come è noto, numerosissimi furono i casi in cui, senza alcuna base legislativa, vennero perseguiti i familiari o gli amici del reo: ed è noto che a questo tipo di responsabilità pensavano i costituenti nel formulare il I co. dell'art. 27 Cost. Tale lodevole proposito di evitare il ripetersi di “rappresaglie”, a sommesso avviso di scrive, viene oggi del tutto frustrato quanto meno da due norme dell'attuale codice Antimafia, d.lgs. n. 159 del 2011:
Il cosiddetto “diritto vivente” propende per un'interpretazione assai dilatata di tale ultima presunzione: «la giurisprudenza di questa Corte è salda nell'affermare che la disponibilità dei beni da parte del proposto non deve necessariamente concretarsi in situazioni giuridiche formali, essendo sufficiente la possibilità di utilizzazione da parte dello stesso come se egli ne fosse il legittimo proprietario, anche se i beni appartengano formalmente a terzi; nei confronti del coniuge, dei figli e dei conviventi, siffatta disponibilità è presunta, senza necessità di specifici accertamenti, dal momento che già la L. n. 575 del 1965 art. 2-bis e ora il D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 19, comma 3, considerano separatamente tali persone rispetto a tutte le altre della cui interposizione fittizia, invece, devono risultare gli elementi di prova (in tal senso, ex multis, Sez. 5, n. 8922 del 26/10/2015, dep. 2016, Poli, Rv. 266142 secondo cui "In materia di misure di prevenzione patrimoniali, il sequestro e la confisca possono avere ad oggetto i beni del coniuge, dei figli e degli altri conviventi, dovendosi ritenere la sussistenza di una presunzione di "disponibilità" di tali beni da parte del prevenuto - senza necessità di specifici accertamenti - in assenza di elementi contrari»così da ultimo Cass. pen. sez. V, 23 giugno 2021, n. 36951). Non è chi non veda come in tal modo si corra il rischio di realizzare un pericoloso ritorno al passato in palese violazione dell'art. 27 primo comma Cost., che fa del principio di colpevolezza un elemento strutturale del reato: tale principio va inteso come colpevolezza per il singolo atto e non per la condotta di vita o per il carattere dell'agente. Ma la nozione stessa di “rappresaglia” ancor più si attaglia a quanto previsto dall' art. 52. Diritti dei terzi, del codice antimafia: «1. La confisca non pregiudica i diritti di credito dei terzi che risultano da atti aventi data certa anteriore al sequestro, nonché i diritti reali di garanzia costituiti in epoca anteriore al sequestro, ove ricorrano le seguenti condizioni: [...] b) che il credito non sia strumentale all'attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, sempre che il creditore dimostri la buona fede e l'inconsapevole affidamento». I “terzi” non si sottraggono ai rigori della normativa icasticamente detta “antimafia”, anche se poi i soggetti attinti potrebbero essere del tutto estranei a fenomeni di criminalità mafiosa: sono loro a dover dimostrare la propria buona fede per ottenere il ristoro dei crediti: «Il primo aspetto in diritto riguarda la verifica, preliminare ma necessariamente coordinata in via logica a tutte le evidenze disponibili, del profilo della strumentalità - o meno - della operazione creditizia alla realizzazione o prosecuzione della attività illecita, oggetto di apprezzamento nell'ambito della procedura che ha determinato la confisca. Per quanto detto aspetto sia, essenzialmente, una componente del più ampio giudizio circa la condizione di "buona fede" del creditore che aspira al riconoscimento di tutela della propria posizione giuridica (come la novellazione parziale del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 52, intervenuta con L. n. 161 del 2017 sta a dimostrare) è prevalente, nella evoluzione della giurisprudenza di legittimità, la tesi per cui detto nesso di strumentalità tra l'erogazione del credito e il consolidamento di una attività illecita non possa essere ricavato in via presuntiva, essendo necessario realizzare, in sede di decisione sulla domanda, una obiettiva ricostruzione in fatto della condizione in parola. Si è infatti ritenuto, in diversi arresti, che in materia di misure di prevenzione patrimoniali, il D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, art. 52, esclude ogni pregiudizio dei diritti di credito dei terzi preesistenti al sequestro, a meno che non risulti accertata la strumentalità del credito rispetto all'attività illecita, e solo in questo caso incombe al creditore, per far valere il proprio diritto, l'onere di dimostrare la ignoranza in buona fede di tale nesso di strumentalità (Sez. VI n. 36690 del 30.6.2015, rv 265606). Analogamente, in materia di misure di prevenzione patrimoniali, per escludere l'ammissione allo stato passivo di un credito sorto anteriormente al sequestro, il tribunale è tenuto a fornire analitica dimostrazione che il credito è strumentale all'attività illecita del soggetto pericoloso o a quelle che ne costituiscono il frutto o il reimpiego, salvo che, una volta dimostrato tale nesso, il creditore non provi di averlo ignorato in buona fede (Sez. VI n. 55715 del 23.11.2017, rv 272232). Tale dimostrazione (quanto al nesso di strumentalità) è da ritenersi vieppiù necessaria nei casi in cui si registri un consistente "scarto temporale" tra l'erogazione del credito e la "emersione" della condizione di pericolosità soggettiva di uno dei destinatari, come ritenuto da Sez. I n. 42084 del 19.9.2014 (ove pure si afferma che il principio secondo cui la "buona fede" in tanto è suscettibile di considerazione in quanto si riferisca all'erogazione di crediti che risultano essere stati oggettivamente funzionali all'attività illecita del sottoposto a misura di prevenzione; mentre nel caso di assenza - di dimostrazione - del nesso di strumentalità la disposizione citata non consente che il diritto di credito del terzo derivante da atto anteriore al sequestro, e assistito da ipoteca pure iscritta anteriormente, sia pregiudicato dalla confisca, a prescindere dall'atteggiamento "soggettivo" del creditore)… Il secondo aspetto è rappresentato dalla necessaria dimostrazione, da parte del soggetto che chiede tutela, di aver ignorato in buona fede il nesso di strumentalità. Tale dimostrazione, come è noto, si basa - essenzialmente - su indicatori logici, posto che è lo stesso legislatore a richiedere - ora per allora - un apprezzamento di fatto relativo all'impiego, o meno, della diligenza richiesta per il tipo di operazione effettuata (D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 52)(così Cass. pen. sez. I, 11 marzo 2021, n. 33898)
La presunzione di innocenza
Ci si deve domandare come queste “presunzioni” ed “inversioni dell'onere della prova” si pongano nei confronti della Costituzione che ammette una sola presunzione, quella di non colpevolezza, di cui all'art. 27 secondo comma: I documenti internazionali dedicano molto spazio al principio della presunzione di innocenza: la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, all'art. 11, par. 2, enuncia in modo sintetico tale principio insieme a quello dei diritti della difesa dell'imputato, stabilendo, all'art. 9, il divieto di arresto, detenzione o esilio arbitrario; nello stesso senso, anche l'art. 14, par. 2, del Patto internazionale dei diritti civili e politici, il quale chiarisce che "gli imputati, salvo circostanze eccezionali, devono essere separati dai condannati e sottoposti ad un trattamento diverso"; a sua volta, l'art. 6, par. 2 e 3 Cedu, afferma il principio, declinandone nel par. 3 il contenuto, con riferimento ai diritti dell'imputato. L'art. 48 della Carta dei diritti fondamentali è dedicato alla presunzione di innocenza e ai diritti della difesa, con una formulazione che riproduce il contenuto dell'art. 6, par. 2, Cedu. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha dato ampio spazio alle garanzie nel processo penale, ritenute svolgimento della nozione di equo processo di cui all'art. 6 Cedu, chiarendo che esse non si arrestano con il giudizio di prima istanza, costituendo il procedimento penale un unico processo: secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo, gli Stati dovrebbero provvedere a garantire i diritti di difesa e di pubblicità dell'udienza anche nei gradi successivi del giudizio, potendo rinunciare alla pubblicità solo se il riesame della causa investe i motivi di diritto e non di fatto (Cedu, 26 maggio1988, Ekbatani c. Svezia). Due sono gli aspetti che la dottrina ha ricavato dal principio di non colpevolezza: da una parte esso è stato concepito come canone informatore della condizione da riservare all'imputato durante il processo – diversamente noto come regola di trattamento – dall'altra parte, come parametro su cui modellare le regole probatorie e di giudizio – altrimenti detto regola di giudizio – . Dalla presunzione di non colpevolezza discende, pertanto, che l'imputazione non assurge a valore logico maggiore di quello di tesi di mera accusa e cioè di assunto di parte, e di conseguenza che, nei casi dubbi, il giudice deve orientarsi sulla non colpevolezza dell'imputato. Effetto inequivocabile di tale affermazione è che l'onere di provare la sussistenza degli elementi costitutivi di un reato incombe sull'accusa: tale principio deve essere rispettato dall'inizio alla fine dell'intero procedimento penale. Il principio costituzionale in esame risulta violato apertamente dal legislatore nell'ambito di una specifica categoria all'interno dei reati di possesso, quella dei reati di "sospetto", assai vicini, per struttura, a quelli che sono i presupposti soggettivi per l'applicazione di misure di prevenzione personali o reali. Tale tipologia di reati si caratterizza, appunto, per l'inserzione nella norma incriminatrice di una regola di giudizio contrastante con l'art. 27 secondo comma Cost., in base alla quale l'onere della prova della destinazione o della provenienza lecita della cosa incombe interamente sull'imputato, obbligando il giudice alla condanna nel caso in cui rimanga in dubbio. I reati di sospetto sono sicuramente espressione di una legislazione di tipo poliziesco, dal momento che ritengono pericolosi soggetti in base alle sole caratteristiche personali: fra questi spicca oggi nel codice penale l'art. 707 c.p., che punisce chi "essendo stato condannato per delitti determinati da motivi di lucro, o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio, è colto in possesso di chiavi alterate o contraffatte, o di chiavi genuine o di strumenti atti ad aprire o a forzare serrature, dei quali non giustifichi l'attuale destinazione". La fattispecie penale in esame è sopravvissuta a numerose censure di legittimità costituzionale sollevate dai giudici a quibus (per tutte, Corte cost. n. 236/1975 e n. 464/1992). È solo con la sentenza n. 265/2005, infatti, che la Corte è giunta ad applicare il principio di offensività anche all'art. 707 c.p.: seppur con una decisione interpretativa di rigetto, la Corte ha avuto modo di affermare che «il giudice chiamato a fare applicazione della norma dovrà pertanto operare uno scrutinio particolarmente rigoroso circa la sussistenza del requisito dell'offensività in concreto [...]». Un importante passo avanti nell'eliminazione dei reati di mero sospetto dal panorama dei delitti contro il patrimonio è stato compiuto dalla sentenza (Corte cost. n. 370/1996), che ha, finalmente, dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 708 c.p., che puniva il possesso ingiustificato di denaro, beni o altre cose non confacenti al proprio stato da parte di soggetti già condannati per delitti derivanti da motivi di lucro, o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio, espungendo definitivamente una fattispecie obsoleta dall'ordinamento penale italiano. La Corte costituzionale, inoltre, ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 12-quinquies, l. 356/1992, in materia di criminalità mafiosa, che puniva i titolari di beni di valore sproporzionato al proprio reddito o alla propria attività economica che "non potessero giustificarne la legittima provenienza" (Corte cost. 487/1994). Ci si deve domandare come possa conciliarsi con la presunzione posta dall'art. art. 27 secondo comma Cost. la ricorrente affermazione giurisprudenziale secondo cui «il principio di autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello di merito rappresenti il presupposto perchè possano essere legittimamente oggetto di valutazione per l'appunto autonoma ai fini della adozione della misura di prevenzione personale e/o patrimoniale anche quegli elementi che siano stati acquisiti nel corso di un processo che si sia concluso con sentenza di assoluzione allorchè i fatti, pur ritenuti insufficienti a fondare una condanna penale, siano tuttavia in grado di giustificare un apprezzamento in termini di pericolosità (cfr., in tal senso, Cass. Pen., 2, 6.6.2019 n. 31.549, Simply soc. coop.; Cass. Pen., 6, 18.9.2014 n. 50.946, Catalano, in cui la Corte ha spiegato che l'assoluzione del proposto dal reato associativo non comporta l'automatica esclusione della pericolosità sociale dello stesso, in quanto, in ragione dell'autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale, il giudice chiamato ad applicare la misura può avvalersi di un complesso quadro di elementi indiziari, anche attinti dallo stesso processo penale conclusosi con l'assoluzione; conf., sul punto, Cass. Pen., 1, 7.1.2016 n. 6.636, Pandico ed altro; cfr., ancora, recentemente, anche Cass. Pen., 2, 17.7.2020 n. 23.813, G. in cui la Corte ha nuovamente insistito sulla necessità di tener conto del principio di non contraddizione che informa l'ordinamento e "... che impone di costruirne il senso in termini di possibile valorizzazione di dati obiettivi che si pongano come fattore di giustificazione al mantenimento della misura di prevenzione, pure a fronte di un "incidente" giudicato penale di assoluzione"). Come condivisibilmente affermato in più occasioni, dunque, la possibilità di una autonoma valutazione del giudice della prevenzione non è perciò e di per sè preclusa dalla esistenza di una decisione assolutoria "... nel cui ambito sia stato preso in esame, nei confronti del medesimo soggetto, un fatto storico incidente sul giudizio di pericolosità formulato in prevenzione..." (cfr., Cass. Pen., 2, 17.7.2020 n. 23.183, cit.) purchè il giudice della prevenzione si faccia carico di motivare in maniera specifica proprio sulla diversità di apprezzamento e delle diverse implicazioni dei due ambiti (cfr., anche, Cass. Pen., 1, 1.2.2018 n. 24.707, Oliveri). In definitiva, dunque, poichè il giudicato assolutorio non può essere considerato un dato di per sè ed assolutamente "insuperabile", la verifica suscettibile di essere operata in sede di legittimità non involge tanto un profilo di violazione di legge quanto, piuttosto, un problema di motivazione: ed è per l'appunto su questo aspetto e sotto questo profilo che va verificato il provvedimento in esame al fine di valutare non tanto, ovviamente, la esistenza di vizi motivazionali di illogicità o inadeguatezza ma, alla luce dei limiti di ricorribilità in questa sede dei provvedimenti in materia di misure di prevenzione quali sopra richiamati, piuttosto la sostanziale assenza (ovvero la mera "apparenza") della motivazione tale da risolversi, di per sè, in un vizio di violazione di legge scrutinabile in questa sede»(così da ultimo, Cass. pen. sez. II, 25 giugno 2021, n. 335339). Sia ben chiaro che un simile principio – il giudicato assolutorio non può essere considerato un dato di per sè ed assolutamente "insuperabile" – non viene enunciato in alcuna disposizione legislativa, ma è proprio l'elaborazione giurisprudenziale che, in questo modo, rischia di trasformare il procedimento di prevenzione in una sorta di giudizio di “revisione” di quelli penali conclusisi con l'assoluzione. La funzione rieducativa della pena
Inevitabile, a questo punto, il riferimento alla funzione rieducativa della pena scolpita nell'art. 27 III co. Cost.: se le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, quale può essere la ratio dell'applicazione della sorveglianza speciale o della confisca ad un soggetto assolto nell'ambito di un procedimento penale, svoltosi con tutte le garanzie del “giusti processo”? O, ancor peggio, in caso di confisca, a soggetti rimasti del tutto estranei al procedimento penale? È con l'inizio degli anni settanta che l'art. 27 terzo comma comincia a rivestire il ruolo di criterio fondamentale di politica criminale, riguardando non solo lo spazio di esecuzione della pena, ma anche la stessa struttura del reato. Il principio rieducativo viene assunto come criterio ispiratore di numerose riforme legislative, fra cui, innanzitutto, quella dell'ordinamento penitenziario. La giurisprudenza costituzionale compie svolte importanti: la prima, nella sentenza n. 167/1972, riguarda il riconoscimento dell'applicabilità del principio anche alle misure di sicurezza, laddove, in pronunce precedenti detta applicabilità era stata esclusa, affermando che "le misure di sicurezza ex se tendono ad un risultato che eguaglia quella rieducazione cui deve mirare la pena"; la seconda, nella sentenza n. 204/1974, sulla liberazione condizionale, dove si riconosce la centralità della rieducazione (definita "diritto" del condannato), in base alla quale "in virtù del disposto costituzionale sullo scopo della pena sorge per il condannato il diritto al riesame della pena in corso di esecuzione, al fine di accertare se la quantità di pena espiata abbia o meno realizzato positivamente il proprio fine rieducativo". Il precetto costituzionale, nell'elaborazione del Giudice delle leggi, dovrebbe fungere da barriera per aberrazioni legislative tali da impedire la rieducazione di colui che viene assoggettato a pena, quale che ne sia la natura. Eppure l'attuale codice antimafia consente, da un lato, che al proposto, qualora la misura applicata sia quella della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e si tratti di persona indiziata di vivere con il provento di reati, possa essere prescritto di darsi, entro un congruo termine, alla ricerca di un lavoro (art. 8 comma terzo), e dall'altro, in caso di sottoposizione in via definitiva di misura di prevenzione personale, la persona non possa poi ottenere: «licenze o autorizzazioni di polizia e di commercio; concessioni di acque pubbliche e diritti ad esse inerenti nonché concessioni di beni demaniali allorché siano richieste per l'esercizio di attività imprenditoriali; concessioni di costruzione e gestione di opere riguardanti la pubblica amministrazione e concessioni di servizi pubblici; iscrizioni negli elenchi di appaltatori o di fornitori di opere, beni e servizi riguardanti la pubblica amministrazione, nei registri della camera di commercio per l'esercizio del commercio all'ingrosso e nei registri di commissionari astatori presso i mercati annonari all'ingrosso; e) attestazioni di qualificazione per eseguire lavori pubblici; altre iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati; contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali; licenze per detenzione e porto d'armi, fabbricazione, deposito, vendita e trasporto di materie esplodenti». Non solo: a ciò si deve aggiungere che in caso di definitività della sottoposizione a misura di prevenzione decadono di diritto le licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, attestazioni, abilitazioni ed erogazioni di cui al comma 1, nonché il divieto di concludere contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di cottimo fiduciario e relativi subappalti e subcontratti, compresi i cottimi di qualsiasi tipo, i noli a caldo e le forniture con posa in opera. Le licenze, le autorizzazioni e le concessioni sono ritirate e le iscrizioni sono cancellate ed è disposta la decadenza delle attestazioni a cura degli organi competenti (art. 67 commi 1 e 2). Per altro, tali divieti e decadenze sono disposte dal tribunale anche nei confronti di chiunque conviva con la persona sottoposta alla misura di prevenzione nonché nei confronti di imprese, associazioni, società e consorzi di cui la persona sottoposta a misura di prevenzione sia amministratore o determini in qualsiasi modo scelte e indirizzi. In tal caso i divieti sono efficaci per un periodo di cinque anni (art. 67 comma 4). Ne discende che il giudice della prevenzione è chiamato ad applicare una prescrizione – darsi alla ricerca di un lavoro – del tutto impossibile da realizzare in quanto, in buona sostanza, impedita da altra norma in modo del tutto irragionevole. Se a ciò si aggiungono gli effetti patrimoniali delle misure ablative, al sottoposto a misure di prevenzione non resta altro che il “crimine” per continuare a sopravvivere, con buona pace di ogni finalità preventiva delle stesse. Misure preventive versus misure a carattere repressivo-penale
Eppure il cd. paradigma della prevenzione viene recitato come un “mantra” dalla giurisprudenza per escludere che alle misure di prevenzione possano essere estese le garanzie previste in sede penale. Così, con riferimento al provvedimento con cui il questore, in materia di misure di prevenzione personali, ordina ai soggetti pericolosi per la sicurezza pubblica di fare rientro nei luoghi di residenza, secondo Cass. pen. sez. I, 6 maggio 2021, n. 34125, «l'interpretazione dell'istituto qui condivisa è, dunque, consentanea alla necessità di prevenire le manifestazioni della pericolosità sociale di cui è portatore il destinatario del foglio di via, con la connessa esigenza di perseguire la finalità di controllo, verso cui è funzionalizzata l'intera platea delle misure di prevenzione personale, secondo quanto ha ribadito la (già citata) pronunzia della Corte costituzionale n. 24 del 2019, escludendo che tali misure di prevenzione abbiano nella sostanza carattere sanzionatorio-punitivo, in relazione alla verifica delle garanzie che la CEDU e la Costituzione apprestano per la materia penale, e invece confermando che esse perseguono, all'esito del giudizio di sussistente pericolosità del soggetto, una precisa finalità preventiva, anzichè punitiva». Conforme Cass. pen. sez. V, 27 ottobre 2020, n. 33156: «La Corte costituzionale, nella sentenza n. 24 del 2019, ha ribadito che le garanzie che, dal punto di vista costituzionale e convenzionale, circondano le misure di prevenzione non sono le stesse che riguardano i reati e le pene. Ha, in tal senso, sottolineato che la necessità di acquisizione, ai fini dell'applicazione di una misura di prevenzione, di elementi che facciano ritenere pregresse attività criminose da parte del soggetto non comporta che le misure in questione abbiano nella sostanza carattere sanzionatorio-punitivo, sì da chiamare in causa necessariamente le garanzie che la CEDU, e la stessa Costituzione, sanciscono per la materia penale. Imperniate come sono su un giudizio di pericolosità del soggetto, le misure di prevenzione hanno, infatti, una chiara finalità preventiva anzichè punitiva, di modo che l'indubbia dimensione afflittiva, che pure le caratterizza, non è che un effetto collaterale della loro essenziale funzione di controllo, per il futuro, della pericolosità sociale del soggetto interessato: nulla hanno a che vedere, in sostanza, dal punto di vista teleologico, con la punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato. Ha, quindi, dato seguito all'orientamento, espresso dalla giurisprudenza costituzionale, secondo il quale le misure di prevenzione non soggiacciano ai principi dettati, in materia di diritto e di processo penale, dall'art. 25 Cost., comma 2, art. 27 Cost., art. 111 Cost., commi 3, 4 e 5, e art. 112 Cost.». Ma ancor più eclatante, in questa prospettiva, è il caso della confisca del patrimonio del defunto: «Ancorchè sia venuto meno, in tale ipotesi, il rapporto diretto tra bene e soggetto pericoloso, l'inquadramento della situazione giuridica nel paradigma della prevenzione rimane, nondimeno, impregiudicato. In proposito, è pienamente condivisibile il rilievo argomentativo del Giudice delle leggi, secondo cui la ratio della confisca in questione, da un lato, "comprende ma eccede quella delle misure di prevenzione consistendo nel sottrarre definitivamente il bene al "circuito economico" di origine, per inserirlo in altro, esente dai condizionamenti criminali che caratterizzano il primo" e, dall'altro, "a differenza di quella delle misure di prevenzione in senso proprio, va al di là dell'esigenza di prevenzione nei confronti di soggetti pericolosi determinati e sorregge dunque la misura anche oltre la permanenza in vita del soggetto pericoloso" (Corte Cost. sent. n. 21 del 2012, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione all'art. 24 Cost., comma 2 e art. 111 Cost., della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2-ter, comma 11, nella parte in cui prevede che "la confisca può essere proposta, in caso di morte del soggetto nei confronti del quale potrebbe essere disposta, nei riguardi dei successori a titolo universale o particolare, entro il termine di cinque anni dal decesso")». Così Cass. pen. sez. II, 14 giugno 2019, n. 37603. A ben vedere gli enunciati delle sentenze da ultimo citate – «le misure di prevenzione… nulla hanno a che vedere, in sostanza, dal punto di vista teleologico, con la punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato, Cass. pen. sez. V, 27 ottobre 2020, n. 33156 / consistendo nel sottrarre definitivamente il bene al "circuito economico" di origine, per inserirlo in altro, esente dai condizionamenti criminali che caratterizzano il primo, Cass. pen. sez. II, 14 giugno 2019, n. 37603 – paiono del tutto antitetici in quanto ciò che accade è che il patrimonio del defunto viene confiscato proprio come “punizione” per ciò che questi ha compiuto nel passato. Eppure proprio quegli stessi giudici della Cassazione avevano avuto il coraggio di affermare espressamente: «È risaputo, d'altronde, che, nell'approccio ermeneutico agli istituti delle diverse legislazioni, la giurisprudenza comunitaria reputa decisiva, ai fini dell'accertamento della reale essenza giuridica, l'individuazione dei tratti sostanziali, enucleabili dalla disciplina positiva, applicando i menzionati parametri identificativi, al fine di scongiurare quella che, efficacemente, è stata definita la "truffa delle etichette", ovverosia la suggestione di ingannevoli qualificazioni nominalistiche degli stessi istituti da parte degli ordinamenti interni […]».Questa affermazione si rinviene nella citata sentenza Cass. pen. sez. II, 14 giugno 2019, n. 37603 che ha, per altro, annullato il decreto in data 9 aprile 2018 (dep. 9 luglio 2018) con cui la Corte di appello di Catanzaro, aveva confermato il decreto col quale il Tribunale di Crotone - sez. misure di prevenzione in data 1/03/2017 aveva applicato al proposto la misura della sorveglianza speciale di p.s. con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza per la durata di tre anni e aveva disposto nei confronti dello stesso proposto e dei terzi interessati la misura patrimoniale della confisca di beni ritenuti riferibili, in modo diretto o indiretto, al proposto, pur se formalmente intestati a taluni dei suoi stretti familiari o agli altri terzi prima menzionati. È dunque ben nota alla Cassazione la nozione di “truffa delle etichette” anche con riferimento alle misure di prevenzione. Essa era già stata enunciata da Cass. pen. sez. III, 24 ottobre 2017, n. 15126 in tema di violazioni urbanistiche: «la legge dalla quale scaturisce la possibilità di infliggere una sanzione di tipo penale deve presentare i caratteri della accessibilità e della prevedibilità. Vale a dire, da un lato, essa deve essere conoscibile e intelligibile da parte del soggetto al quale si rimprovera la violazione del precetto contenuto nella norma giuridica e, dall'altro, occorre la previsione delle conseguenze sanzionatorie cui si espone il contravventore, sicchè, a tal fine, non rileva il nomen iuris o l'inquadramento che un istituto riceve da parte della legislazione nazionale in quanto – ad evitare da parte di queste una “truffa delle etichette” in relazione alla qualificazione giuridica del proprio apparato sanzionatorio mediante il declassamento a livello amministrativo di sanzioni che invece presentano indicatori tali da farle refluire nel terreno delle pene – è necessario procedere ad una disamina concreta delle singole misure, secondo una linea che superi il mero dato formale costituito dalla qualificazione attribuita ad un istituto dalle singole legislazioni nazionali». I giudici della Cassazione riprendono in tal guisa le parole del giudice della CEDU, Cons..Paulo Pinto de Albuquerque, cui va ascritta la “paternità” della nozione di frode delle etichette: non ci si può accontentare del nomen iuris attribuito dal legislatore a determinati istituti, perché se tale qualificazione formale risulta diversa dalla sostanza espressa dall'istituto ipoteticamente in analisi, è oltremodo necessario non farsi scudo della qualifica formale, ma andare oltre, alla ricerca della reale natura dell'istituto in oggetto e ciò per evidenti scopi garantistici. Proprio nella nota sentenza De Tommaso, Corte EDU, Grande Camera, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia è emersa con forza l'autorevole opinione parzialmente dissenziente di questo Giudice portoghese, che si è espresso apertamente nel senso di una “frode delle etichette”, così assumendo una posizione contraria a quella enunciata da Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Corte di Cassazione, e infine, anche la Corte costituzionale, sempre costanti nel ritenere le misure di prevenzione, sia personali, sia, a maggior ragione, se patrimoniali, come estranee alla materia penale. Va da sé che questa impostazione è strettamente legata ai c.d. criteri Engel, formulati da Corte Edu, 23 novembre 1976 n. 22, Engel c. Paesi Bassi, nel senso che non ci si accontenta della naturale formale di un istituto, ma si va a verificare soprattutto quoad poenam se la sanzione possiede in realtà un carattere punitivo e comunque di notevole afflizione. L'approccio del Cons. Pinto de Albuquerque è, quindi, orientato nel senso dell'applicazione delle garanzie tipiche del diritto penale liberale a fronte di un diritto penale invece caratterizzato dalla prevalenza della prevenzione generale, a scapito dei diritti della persona. Va tuttavia detto che non basta appellarsi ad una seppur reale “truffa delle etichette”, per ciò solo legittimare un ingresso “a vele spiegate” delle misure di prevenzione nel diritto penale. Non va infatti sottovalutata l'origine storica delle misure di prevenzione, che ancora mostra le sue caratteristiche tipologiche oggigiorno, cioè il fatto di nascere e svilupparsi come misure di polizia, cioè misure che prescindono per definizione dalla commissione di un fatto di reato. Se, dunque, si intende far rientrare le misure di prevenzione nell'ambito del diritto penale, ovviamente al fine di applicare ad esse ed al relativo procedimento i principi costituzionali e comunitari in materia penale, così, ad esempio, eliminando l'inversione dell'onus probandi, pare necessaria anche una modifica strutturale, affinché le misure di prevenzione possano collegarsi ad un fatto di reato, che infatti costituisce l'architrave sia del binario relativo alla colpevolezza per il fatto, che a quello attinente alla pericolosità ed alle misure di sicurezza, che infatti conoscono soltanto l'eccezione delle note tre ipotesi di quasi-reato. In conclusione
Queste ultime considerazioni risultano vieppiù confortate dal fatto che, allorquando i giudici di legittimità devono confrontarsi in sede penale con le medesime fattispecie che rilevano in sede di prevenzione, allora adottano criteri ben diversi rispetto a quelli adottati in quella sede ed improntati alla massima “speditezza”: «Sta di fatto che tale riferimento risulta intrinsecamente generico, in quanto non dà conto di come e in che misura il M. avesse effettivamente investito denaro nella società, assumendone la titolarità e lasciando che la stessa restasse fittiziamente intestata al P., dovendosi per contro rilevare come si trattasse di una realtà imprenditoriale che aveva una sua storia e relativamente alla quale la difesa aveva prodotto documentazione volta ad attestare l'evoluzione e la trasparenza delle fasi attraverso le quali la stessa si era nel tempo strutturata», in questo senso Cass. pen. sez. VI, 25 giugno 2021, n. 33939 che ha annullato l'ordinanza depositata il 5 marzo 2021 dal Tribunale di Catanzaro che aveva confermato in sede di riesame quella del G.I.P. del Tribunale di Catanzaro in data 12 dicembre 2019, con cui era stato disposto il sequestro preventivo di una s.r.l., in relazione al delitto di cui agli artt. 110, 512-bis e 416-bis.1 c.p., contestato al capo concernente l'ipotesi dell'intestazione fittizia della società a vantaggio di un noto esponente della criminalità organizzata calabrese., al fine di consentire a costui di eludere misure di prevenzione. Sovviene allora l'insegnamento che ci ha lasciato Leonardo Sciascia oltre trent'anni fa in uno scritto emblematicamente intitolato A futura memoria (se la memoria ha un futuro), con la sua prosa cristallina, lo scrittore avvertiva: i cretini, e ancor più i fanatici, son tanti; godono di una così buona salute non mentale che permette loro di passare da un fanatismo all'altro con perfetta coerenza (…). Bisogna loro riconoscere, però, una specie di buona fede: contro l'etica vera, contro il diritto, persino contro la statistica, loro credono che la terribilità delle pene (compresa quella di morte), la repressione violenta e indiscriminata, l'abolizione dei diritti dei singoli, siano gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti […]. E continueranno a crederlo. Il “presente” non sembra propriamente smentire il grande intellettuale siciliano: le misure di prevenzione, se non vengono ricondotte nell'alveo costituzionale, e, ad avviso di chi scrive, in particolare nell'art. 27, rischiano di tradursi in una “fuga” dal processo penale, ed in particolare dalle garanzie ivi apprestate. Le “scorciatoie” che consente il procedimento di prevenzione possono tradurlo in strumento di repressione violenta e indiscriminata che vede l'abolizione dei diritti dei singoli in vista del “superiore” interesse di combattere certi tipi di delitti, volto ad affermarne la “terribilità”. Gian Paolo Dolso, La sentenza “De Tommaso” della Corte EDU in materia di misure di prevenzione: un prima crepa nel sistema, 30 ottobre 2017, www.forumcostituzionale.it; Francesco Di Paola, La natura ripristinatoria della confisca di prevenzione l'ultima frode delle etichette? (nota a Corte Costituzionale n. 24/2019), 3 giugno 2020, www.dirittodidifesa.eu; P. Paolo, Paulesu, Presunzione di non colpevolezza, in Digesto pen., Torino, 1995, 674, Giulio Illuminati, La presunzione di innocenza dell'imputato, Zanichelli, Bologna, 1979. Coppi, Osservazioni sui reati di sospetto e, in particolare, sul possesso ingiustificato di valori, in Giur. cost., 1968, 1730 e ss. A. Maria Maugeri I reati di sospetto dopo la pronuncia della Corte Costituzionale n. 370 del 1996: alcuni spunti di riflessione sul principio di ragionevolezza, di proporzione e di tassatività, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, 434-486 e 944-988. Paulo Pinto de Albuquerque, Relazione al Convegno: “La confisca tra cooperazione transnazionale e diritti fondamentali”, Ferrara, 24 maggio 2019; Id.., I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni concorrenti e dissenzienti (2011-2015), a cura di Galliani D., Torino, 2016 Adelmo Manna, La natura giuridica delle misure di prevenzione tra diritto amministrativo e diritto penale, Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.2, 1 giugno 2020, pag. 1064 F. Brizzi, Le misure di prevenzione. Tra elaborazione giurisprudenziale e prospettive di riforma, Frosinone, Key Editore, 2015
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