To continuity and beyond: viaggio ai confini della continuità aziendale

Marcello Tarabusi
10 Dicembre 2021

L'articolo approfondisce il tema della continuità aziendale, in particolare la continuità come aspetto strutturale ovvero funzionale del piano; il problema della continuità ai fini dell'art. 160, u.c., l. fall.; la continuità della holding e il concordato in continuità dell'affittuario.
Premessa: ai limiti di una fattispecie

Disgregazione dell'azienda: ultima frontiera. Eccovi i viaggi di alcuni debitori durante la loro procedura di concordato, diretta all'esplorazione di strani, nuovi fenomeni, alla ricerca di altre modalità per continuare l'attività aziendale, fino ad arrivare laddove (quasi) nessun piano di concordato era mai giunto prima…

Ciascun operatore pratico incontra, nella propria attività quotidiana, casi concreti che paiono forzare i limiti delle fattispecie tipiche, pur senza collocarsi in modo inconfutabile all'esterno di queste.

Forte è la tentazione, davanti a situazioni del genere, di ricorrere all'approccio del Carlo Magno di Calvino, che «tendeva ad allontanare dalla mente le questioni complicate». Il che si traduce in una rapida dismissione dell'ipotesi che si sta esaminando e così, a seconda del ruolo ricoperto dal pratico: nell'escludere in radice la possibile soluzione, se si è il consulente del debitore; nel negare recisamente il rilascio del giudizio di fattibilità, se si è chiamati ad attestare un piano; nel formulare un parere fortemente negativo, se si ricopre il ruolo di commissario giudiziale; nel dichiarare in limine l'inammissibilità della domanda ex art. 162 l.fall., se si è chiamati a pronunciarsi ex cathedra su un piano depositato in Tribunale.

Capita tuttavia che, vuoi per la particolare “meritevolezza” (tra i casi più spesso ricorrenti, ovviamente, vanno ricordati il rischio di gravi ricadute occupazionali, o il timore di una rapida ed irreversibile dispersione di valori ancora esistenti. Ma non mancano esempi in cui, più che (o in aggiunta a) le prospettive di soddisfazione della massa della singola procedura e la tutela dei dipendenti, vengono in considerazione altri fattori, come ad esempio il rischio di «effetto domino» su altre procedure collegate o su sistemi distrettuali di indotto) della specifica crisi aziendale, vuoi per altre e più disparate ragioni, l'operatore si trovi a dover compiere una valutazione più approfondita. Ciò non esclude che, all'esito di tale valutazione, la conclusione finisca poi per essere la medesima che si era ipotizzata in prima battuta (non invecchia ed anzi, come il vino, migliora con il tempo il monito di Calamandrei: «la cui [l'A. parla dell'avvocato, ma in materia concorsuale vale anche e soprattutto per l'attestatore] utilità sociale è tanto più grande, quanto maggiore è il numero di sentenze di non luogo a procedere che si pronuncia nel suo studio», in Elogio dei giudici scritto da un avvocato, IV ed., Firenze, 1959, 141); ma la riflessione che si è condotta sul caso limite si rivela particolarmente fruttuosa per la elaborazione esegetica (e perché no, dogmatica) della fattispecie tipica.

Il diritto – o forse, meglio, il contesto – della crisi di impresa, del resto, per molti istituti del diritto civile e commerciale costituisce spesso qualcosa di analogo al limite di una funzione algebrica, e la autentica natura di questi meglio si comprende e si specifica proprio nella loro attuazione in quel contesto.

Come per il calcolo dei limiti nell'analisi matematica a volte la soluzione risulta, una volta compiuto il procedimento di calcolo, estremamente semplice; a volte è richiesto uno sforzo notevole di elaborazione e, tuttavia, il risultato ottenuto resta complesso; in alcuni casi è possibile adottare strategie euristiche semplificatorie; talvolta, infine, la funzione rimane del tutto indeterminata.

Continuità commerciale e continuità concorsuale

Si tratta, in ultima analisi, di sforzarsi di costruire un criterio discretivo che consenta di decidere se, di volta in volta, il piano presentato dal debitore come «in continuità» abbia effettivamente l'ambizione di proseguire il volo imprenditoriale, ovvero si limiti ad un tentativo di «cadere con stile».

Non mi pare, a tal fine, particolarmente utile ancorare la distinzione tra volo e caduta (pur stilosa) alla nozione giuscommerciale di impresa (tantomeno mi avvarrò di un'indagine sui principi enucleabili dal CCI, eterno nascituro che i recenti venti di riforma inducono a ritenere non più cosi favorito da una buona stella).

Il primo motivo è che questa stessa nozione presenta ancor oggi profili di ambiguità e incertezze definitorie: per le più varie ragioni (spesso, se non sempre, fiscali) si è nel tempo dilatato a dismisura il perimetro della fattispecie “impresa”, includendovi anche le forme embrionali di attività (ad esempio la gestione immobiliare o la conduzione di un impianto fotovoltaico) che in molti casi più appropriatamente sarebbero definibili come mero godimento. A tacere dell'eterno dilemma della società holding (su cui v. Abriani, Holding e continuità aziendale nelle procedure di regolazione della crisi dei gruppi, in Diritto dellacrisi.it, 25 marzo 2021), per la quale dapprima si è fatto ricorso (con un certo successo giurisprudenziale) alla nozione di esercizio indiretto dell'attività delle controllate, per poi cavalcare, in un secondo momento, la costruzione dell'attività di direzione e coordinamento come una fase o una funzione imprenditoriale in sé (v. par. "Guida all'approfondimento").

Con la conseguenza che, dopo aver qualificato come imprenditoriali tali attività, se ne deve concludere l'assoggettabilità alle procedure concorsuali (ricorrendo i requisiti dimensionali), per poi trovarsi in seria difficoltà quando si debbono applicare le disposizioni della legge fallimentare che presuppongono, appunto, l'esercizio dell'impresa.

Il secondo motivo è che la legge fallimentare, come da più d'uno è stato rilevato, all'art. 186-bis l.fall. contiene un catalogo strutturalmente disomogeneo di fattispecie: prosecuzione dell'attività di impresa da parte del debitore, cessione dell'azienda in esercizio e conferimento dell'azienda in esercizio in una o più società sono tre ipotesi che ben poco hanno in comune in punto di effetti giuridici (la c.d. continuità diretta non incide sull'assetto organizzativo dell'azienda né sulla sua titolarità; la cessione d'azienda vede un mutamento soggettivo del titolare del compendio ed è inquadrabile pacificamente tra gli atti dispositivi del patrimonio; il conferimento è, prima di tutto, un atto di nuova articolazione del patrimonio del fallito mediante la segregazione dell'azienda in un ente metaindividuale, per quanto pacificamente avente effetti traslativi) e impongono perciò all'interprete di individuare un altro criterio, verosimilmente funzionale, per ricondurre tale eterogeneità casistica ad unità di ratio e di trattamento. Criterio che, giocoforza, non può che essere individuato – come ormai pacificamente da anni ha chiarito la suprema Corte – nel diverso profilo dello specifico rischio incrementalegravante sul ceto creditorio in tutti e tre i casi ivi delineati.

Il terzo motivo è che non è nemmeno predicabile con certezza che la stessa legge fallimentare assuma una nozione unitaria di continuità aziendale, posto che le diverse disposizioni che la menzionano non sono tutte coeve e sono state introdotte per finalità e nell'ambito di quadri culturali e humus legislativo assai variabili nel tempo.

È innegabile, infatti, che l'originario art. 186-bis, pur nella indubbia volontà di favorire la salvaguardia dei valori aziendali attraverso la prosecuzione dell'impresa, si preoccupasse soprattutto di circondare tale prosecuzione di cautele e di limiti; è altrettanto innegabile che le disposizioni degli articoli 160, comma 4, ultimo periodo e l'art. 163 comma 5, introdotte dal D.L. 83/2015, avessero invece una ratio di puro e semplice favore per la continuità.

Il che potrebbe indurre qualche interprete, che preferisse l'esegesi frammentaria delle diverse disposizioni alla loro riconduzione ad unità dommatica, ad operare una riduzione teleologica delle fattispecie agevolative introdotte dal D.L. 83/2015, ricercando un qualche criterio (verosimilmente da ancorare a canoni costituzionali di ragionevolezza e di meritevolezza sub specie di utilità sociale) che consenta, nonostante il formale espresso richiamo all'art. 186 bis l.fall., di affermare che le soglie di favore previste dagli artt. 160, c. 4, ultimo periodo e 163, c. 5, si applicano solo ad un sottoinsieme delle fattispecie sussumibili sotto tale ultima disposizione. Il punto sarà approfondito infra, al par. "Il problema della "continuità" ai fini dell'art. 160 u.c. l. fall.".

È allora ragionevole ipotizzare (interessanti riflessioni sul punto sono svolte da App. Venezia 3 giugno 2021, in questo portale) che, almeno in termini di prima approssimazione, la “continuità aziendale” assunta come fattispecie delle norme concorsuali non coincida esattamente con la nozione giuscommercialistica (e più precisamente né con la nozione di “esercizio dell'attività di impresa”, né – come forse è tautologico ricordare - con quella di “continuità aziendale” di cui all'art. 2423 bis, comma 1, n. 1), c.c. e al principio di revisione ISA Italia n. 570), e che debba invece essere ricostruita in funzione della sussistenza, o meno, dei bisogni di protezione sottesi alla disciplina di cui all'art. 186-bis e, laddove se ne assuma la non perfetta sovrapponibilità, ai requisiti di “meritevolezza” (o “non abusività”) meglio illustrati infra al par. "Il problema della "continuità" ai fini dell'art. 160, u.c., l. fall." per gli artt. 160, c. 4, e 163, c. 5.

D'altra parte, per restare alla fattispecie tipica dell'art. 186 bis l.fall. non può nemmeno assumersi che la nozione fallimentare dicontinuazione dell'attività di impresa” sia un semplice sottoinsieme della fattispecie civilistica: se è (almeno astrattamente) possibile ipotizzare contesti in cui un'attività civilisticamente qualificata come esercizio d'impresa non rientri nella “continuità diretta” (è il caso, trattato infra sub par. 5, della società holding, se si assume che qualunque holding sia un'impresa per il diritto commerciale), è del pari teoricamente ipotizzabile anche un'attività che, pur collocandosi nella fase disgregativa finale del compendio aziendale (e quindi verosimilmente dopo la cessazione dell'impresa. Il tema del momento in cui possa dirsi cessata l'attività d'impresa è anch'esso assai dibattuto. Si veda, tra molti, la lucida trattazione di Buonocore, L'impresa, Torino, 2002, 168 ss.), possa assumere la allocazione di un rischio di perdite incrementali in danno della massa e vada pertanto assoggettata alle cautele di cui l'art. 186 bis l.fall. circonda il “concordato con continuità aziendale”.

Continuità come aspetto strutturale ovvero funzionale del piano

Capita sovente che il debitore espressamente designi il proprio piano come «concordato in continuità aziendale» ai sensi dell'art. 186 bis l.fall., ancorché sia innegabile che le manovre oggetto di pianificazione siano indirizzate alla liquidazione della società, che non si ipotizza destinata a sopravvivere alla procedura concorsuale.

Il caso più ovvio è quello della cessione dell'unica azienda in funzionamento, ma più in generale la prosecuzione dell'attività può in astratto risultare necessaria anche in vista di una successiva disgregazione dell'azienda. Si pensi al caso di un altoforno o alla liquidazione di una società che gestisca uno o più impianti di produzione di energia da fonte rinnovabile. ad esempio eolica o solare (non è semplice stabilire se un impianto di produzione di energia, in sé considerato, possa essere definito – anche solo in via di estrema approssimazione – un “ramo d'azienda”. Senza voler qui interrogarsi sui confini della fattispecie “azienda”, nè sulla possibile natura per così dire frattale o ricorsiva della nozione di ramo d'azienda è pacifico che un impianto fotovoltaico non sia agevolmente qualificabile, per ciò stesso, come azienda), magari anche solo un impianto fotovoltaico posizionato sul tetto dei propri immobili, con un piano che preveda la dismissione atomistica del patrimonio: è innegabile che la finalità di un piano che prevede la vendita atomistica dei cespiti sociali sia per definizione liquidatoria; altrettanto innegabile, tuttavia, è che la prosecuzione della gestione dell'impianto comporti, di per sé, una prospettiva di continuazione (per quanto embrionale o limitata) di attività gestoria (personale, manutenzioni, acquisto di eventuali carburanti), che solo nei casi più semplici può essere ricondotta al mero godimento.

In casi come quelli appena esemplificati si dovrà concludere che, per quanto finalizzato alla liquidazione, il piano – nella sua struttura – possa contenere degli elementi idonei ad essere sussunti sotto l'art. 186-bis l.fall. laddove si ritenga sussistente in concreto il bisogno di protezione sotteso a tale istituto, ossia l'allocazione sul ceto creditorio del rischio collegato alla prosecuzione dell'attività ed alla connessa parziale destinazione della provvista concordataria non già alla soddisfazione del ceto concorsuale, ma al reinvestimento (e possibile assorbimento) in tale continuazione.

È in funzione di tale rischio ulteriore e specifico che l'art. 186-bis grava il debitore, e di riflesso l'attestatore, di oneri aggiuntivi rispetto alla ordinaria procedura concordataria di natura meramente liquidatoria.

Non è certo questa la sede per ripercorrere nella sua interezza il dibattito dottrinale e le diverse soluzioni giurisprudenziali individuate per l'applicazione della disciplina di cui all'art. 186 bis l.fall.; sarà qui sufficiente una succinta – e per ciò stesso manchevole – sintesi dei principali filoni interpretativi.

Le pronunce di merito, pur nella loro notevole variabilità, sono riconducibili a due indirizzi generali.

Secondo un primo indirizzo – maggiormente restrittivo – la continuità postulerebbe la prosecuzione diretta, con esclusione, quindi, dell'affitto dell'azienda, in relazione al quale l'imprenditore si limiterebbe a percepire il canone di locazione e ad utilizzarlo, tra l'altro, per il soddisfacimento dei creditori concordatari, così che il rischio di impresa verrebbe trasferito interamente sull'affittuario e i creditori dell'imprenditore in crisi non parteciperebbero di fatto allo stesso (in dottrina, l'argomento è sviluppato in modo approfondito da Mandrioli, L'affitto d'azienda nel concordato preventivo, in Giur. comm., 2019, I, 357 ss., specie al § 4 V. anche Lamanna, Ancora sull'incompatibilità tra affitto d'azienda e concordato con continuità aziendale, in questo portale, 18 giugno 2015; D. Galletti, La strana vicenda del concordato in continuità e dell'affitto d'azienda, in questo portale, 3 ottobre 2012).

Inoltre, in siffatto contesto, risulterebbero del tutto superflue l'analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attività di impresa, delle risorse necessarie e delle relative modalità di copertura, nonché l'attestazione che la prosecuzione dell'attività di impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori. Infine, tale fattispecie non sarebbe compatibile con il dettato normativo dell'art. 186 bis l.fall., che fa riferimento, tra le modalità del concordato in continuità, alla cessione dell'azienda “in esercizio”, da intendersi come esercizio dell'originario debitore (ex multis App. Firenze, 5 aprile 2017, n. 760; Trib. Busto Arsizio, 1° ottobre 2014; Tribunale Ravenna 22 ottobre 2014; Trib.Terni 2 aprile 2013; Tribunale Terni 12 febbraio 2013; Trib. Trento 6 aprile 2013; Trib. Pordenone 4 agosto 2015; Trib. Arezzo 27 febbraio 2015).

Secondo un altro indirizzo, invece, va data una lettura oggettiva della continuità, con la conseguenza che sono riconducibili alla fattispecie di concordato con continuità aziendale tutte le ipotesi che prevedono l'affitto dell'azienda in esercizio ad un soggetto terzo (Cfr. ad es. Trib. Cuneo 29 ottobre 2013 e Trib. Ravenna 15 gennaio 2018).

Tale ultimo indirizzo si articola poi in diverse posizioni.

In particolare, secondo alcune pronunce di merito, la proposta concordataria ed il relativo piano possono dirsi in continuità quando la proponente preveda esplicitamente l'obbligo di acquisto dell'azienda in capo all'affittante (cfr. ad es.Trib. Monza, 11 giugno 2013, decr.; Trib. Avezzano, 22 ottobre 2014).

Altri ancora hanno sostenuto che la gestione dell'azienda in esercizio mediante affitto di azienda possa essere espressione di continuità aziendale, solo laddove il canone non sia fisso, ma parametrato all'andamento dell'impresa (Trib. Ravenna 29 ottobre 2013); ovvero che la continuità sussista quando il canone sia previsto in misura variabile, sia ancora quando esso, pur previsto in misura fissa, non sia garantito, così che la fattibilità del piano in continuità e la sua funzionalità al miglior soddisfacimento dei creditori richiedano anche una valutazione prospettica sull'andamento della gestione dell'affittuario (Cfr. ex multis Trib. Firenze, 19 marzo 2013; Trib. Bolzano 27 febbraio 2013; Trib. Bolzano 8 febbraio 2013; Trib. Cuneo 29 ottobre 2013).

Si è altresì sostenuto anche che il collegamento “quantitativo” del canone alla “produttività aziendale” - riconducibile all'attività condotta dal terzo/affittuario – consentirebbe più agevolmente di ravvisare una permanenza, sia pur indiretta, delle condizioni di rischio di impresa in capo all'imprenditore proponente, senza alcuna sostanziale soluzione di continuità (Trib. Terni 28 gennaio 2013, che ha escluso la compatibilità del contratto di affitto di azienda con il concordato con continuità ex art. 186 bis l.fall. in caso di canone pattuito in misura fissa, sul presupposto che, in tal caso, le condizioni di rischio di impresa sussistono esclusivamente in capo all'affittuario e non anche alla generalità dei creditori; in senso analogo, Trib. Avezzano22 ottobre 2014, cit.) .

In letteratura, la riconducibilità sia dell'affitto di azienda “ponte” (cioè finalizzato alla successiva cessione), sia di quello c.d. “puro” (cioè non prodromico alla cessione) all'ambito applicativo del concordato con continuità ex art. 186 bis l.fall. è stata sostenuta da alcuni autori (v. par. "Guida all'approfondimento").

Un primo punto fermo è stato posto dalla Cassazione (Cass. n. 29742/2018), primo arresto di legittimità in materia, che riconduce l'affitto di azienda - sia esso “puro” ovvero “ponte”, sia esso anteriore o posteriore all'accesso alla procedura e/o alla presentazione della relativa domanda – al concordato in continuità.

La Cassazione mostra di aderire alla tesi della continuità aziendale in senso oggettivo, fatta propria dal legislatore della riforma organica del 2019 (sempreché il CCI non sia destinato ad un binario morto, a metà strada tra la locomotiva di Guccini e quella di Končalovskij (ove mai prima dell'impatto riuscisse a salvarsene almeno una parte “sganciando” qualche vagone), come più d'uno purtroppo già dubita: si veda Galletti, Breve storia di una (contro)riforma “annunciata”, in questo Portale, 1 settembre 2021, e gli A. da questi richiamati), affermando il seguente principio di diritto: «il concordato con continuità aziendale disciplinato dall'art. 186-bis I.fall. è configurabile anche quando l'azienda sia già stata affittata o sia destinata ad esserlo, rivelandosi affatto indifferente la circostanza che, al momento dell'ammissione alla suddetta procedura concorsuale o del depositodella relativa domanda, l'azienda sia esercitata dal debitore o, come nell'ipotesi dell'affitto della stessa, da un terzo, in quanto il contratto d'affitto - recante, o meno, l'obbligo dell'affittuario di procedere, poi, all'acquisto dell'azienda (rispettivamente, affitto cd. ponte oppure cd. puro) - può costituire uno strumento per giungere alla cessione o al conferimento dell'azienda senza il rischio della perdita dei suoi valori intrinseci, primo tra tutti l'avviamento, che un suo arresto, anche momentaneo, rischierebbe di produrre in modo irreversibile».

Una più recente pronuncia della Corte (Cass. 15 gennaio 2020, n. 734) ha statuito che: «il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell'impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso, dalla disciplina speciale prevista dalla L. Fall., art. 186-bis, che al comma 1 espressamente contempla anche una simile ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito; tale norma [recte: disposizione – n.d.r.] non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnata una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori».

La Corte in particolare argomenta sulla base della considerazione che il contesto normativo attuale non consente di ipotizzare un novero di possibili forme di concordato (liquidatorio, in continuità, misto con prevalenza dell'una o dell'altra componente) ma individua, più semplicemente, un istituto di carattere generale, regolato dalla L. fall., artt. 160 e ss., e una ipotesi speciale rispetto ad esso, prevista dalla L. fall., art. 186-bis. La terminologia di concordato misto è stata utilizzata, in termini descrittivi, per individuare un concordato di contenuto complesso il cui piano preveda, accanto a una continuazione dell'attività d'impresa, una liquidazione dei beni non funzionali all'esercizio della stessa. Il dato normativo non evoca alcun rapporto di prevalenza di una parte dei beni rispetto all'altra a cui è riservata diversa sorte, ma fa riferimento alla liquidazione dei beni "non funzionali all'esercizio dell'impresa", implicitamente ritenendo che quelli funzionali siano invece destinati alla prosecuzione dell'attività aziendale.

La regola prevista dalla disposizione non riguarda la quantità delle porzioni a cui sia affidato un diverso destino (e la conseguente prevalenza dell'una rispetto all'altra in funzione delle risorse da devolvere alla soddisfazione dei creditori), ma la funzionalità di una porzione dei beni alla continuazione dell'impresa in uno scenario concordatario.

In estrema sintesi, pertanto, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, «una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale» (Il principio è richiamato anche da Cass. 22 ottobre 2020, n. 23139) impone di applicare l'art. 186-bis nella sua interezza.

Il problema della "continuità" ai fini dell'art. 160 u.c. l. fall.

Di recente il Tribunale di Bologna si è espresso con due provvedimenti, uno del luglio 2020 (inedito) contenente la richiesta di chiarimenti su un piano di concordato, e l'altro di un anno dopo(Trib. Bologna n. 70/2021 del 5 luglio 2021).

Già dalla lettura della motivazione del primo provvedimento, poi trasfusa in parte nella successiva sentenza di fallimento, pare di potersi ritrarre – a saper leggere tra le righe – un orientamento interpretativo che potrebbe indurre una ulteriore riflessione sulla qualificazione del concordato come in “continuità diretta” e, precipuamente, ai fini di quanto previsto dall'art. 160, u.c., l.fall..

Nel provvedimento si intravede in effetti l'embrione di una lettura riduttiva della giurisprudenza della Cassazione, sopra richiamata e ormai consolidata (tanto da essere menzionata dal tribunale), sulla sufficienza di una pur minima componente di prosecuzione dell'attività per aversi continuità: parrebbe infatti trasparire il convincimento che sia meritevole dell'esenzione dalla soglia del 20% solo il piano che, al termine dell'esecuzione, veda ancora un organismo imprenditoriale vitale. Parrebbe in sintesi che il Tribunale ritenga che nella continuità diretta il sacrificio imposto - oggi - ai creditori, limitando la responsabilità ex art 2740 c.c. del debitore, si giustifichi solo se - domani - ne derivi un beneficio al sistema produttivo/economia del paese.

Si tratta di una lettura certamente originale (altri Tribunali hanno di recente adottato una lettura restrittiva degli orientamenti della Cassazione. Ad es. Trib. Ravenna 8 marzo 2021 ha ritenuto che la soluzione adottata dalla Cass. n. 734/2020 non può essere interpretata come idonea a “sdoganare” il concetto di continuità aziendale “irrisoria”, ma «solo quelle proposte che abbiano contenuti reali di prosecuzione dell'attività aziendale, attraverso la messa a punto di un piano finanziario ed economico sostenibile e che sia funzionalmente rivolto al miglior soddisfacimento dei creditori»; Trib. Bergamo decr. 14 luglio 2021 aderendo a tale precedente afferma che « possono ritenersi in continuità anche quei concordati in cui prevale nettamente la componente liquidatoria, ma solo alla condizione che la prosecuzione dell'azienda in esercizio rilevi, in primo luogo per il quid plus che ne deriva ai creditori avuto riguardo ai maggiori flussi che detta prosecuzione assicura, in secondo luogo per la pregnanza specifica - si potrebbe dire conformante - della sua componente "qualitativa", afferente - in via esemplificativa - la conservazione dei posti di lavoro, la tutela altrimenti preclusa degli intangibles aziendali e la salvaguardia degli effetti benefici sul tessuto sociale indotti dalla sopravvivenza di un'azienda». Si tratta tuttavia di pronunce nelle quali, a leggere attentamente tra le righe, non si ravvisa alcun quid pluris rispetto a quanto già contenuto nella giurisprudenza di legittimità che, in tutte le pronunce menzionate, fa sempre «salve le ipotesi di abuso»), ma non priva di fascino: parrebbe adombrare che le due fattispecie, 160 u.c. e 186-bis l.f., siano contigue, ma non coestensive, e che si debba pertanto ricostruirle separatamente, in chiave teleologico-funzionale (e, forse, costituzionalmente orientata), individuando nel profilo del rischio l'esigenza di tutela sottesa ai maggiori oneri pianificatori ed asseverativi previsti dalla seconda disposizione, ed invece nell'utilità sociale (art. 41 comma 2, ma anche 42 comma 2 Cost. La suggestione che si ricava dal provvedimento felsineo pare essere alla base anche di Trib. Firenze 12 febbraio 2018, in Fall., 2018, 889 ss., con nota di Macagno, Continuità aziendale effettiva verso apparente: i confini mobili del concordato preventivo hanno trovato un argine?, ove si parla espressamente di « continuità figurativa» e di «liquidazione assistita», con il rischio di un'«estensione generalizzata della norma di favore di cui all'art. 186-bis l. fall. a tutte le aziende formalmente attive anche se di fatto incapaci di consentire una prosecuzione dell'operatività anche sotto l'egida di un diverso imprenditore») generata dal complesso produttivo che rimane vitale la ratio del beneficio accordato ai piani sussumibili sotto la prima disposizione.

Utilità sociale che, a ben vedere, pare in re ipsa nelle due fattispecie di cessione dell'azienda in funzionamento e del suo conferimento in società (posto che in entrambi i casi il complesso produttivo continua ad esistere, anche se con un nuovo titolare: al punto che si è teorizzato che l'oggetto del trasferimento in tali casi sia l'impresa, e non solo l'azienda), mentre ove l'attività sia proseguita direttamente dal debitore si richiederebbe che tale prosecuzione non abbia una funzione meramente liquidatoria, ma che invece miri alla conservazione, anche oltre l'orizzonte di piano, di un organismo capace di generare valore per la collettività.

In altre parole, laddove alla caratteristica strutturale della continuità (oggettiva prosecuzione dell'attività aziendale) si accompagni, in assenza di trasferimento/conferimento dell'azienda in funzionamento, un elemento funzionale liquidatorio perché la procedura concorsuale è destinata alla prosecuzione diretta dell'attività nelle more del procedimento liquidativo e disgregativo, si imporrebbe, ai fini dell'applicazione delle soglie quantitative di favore, uno scrutinio più severo e restrittivo rispetto a quello funzionale alla innegabile ed indiscussa applicazione delle cautele di cui all'art. 186-bis l.fall.

Del resto, come ho già ricordato, la ratio dell'art. 186 bis è figlia di un clima culturale diverso e di finalità per certi versi opposte a quelle perseguite con la modifica dell'art. 160 u.c. l.fall. (Cfr. ad es. le motivate osservazioni di Pinto, Le fattispecie di continuità aziendale nel concordato nel codice della crisi, in Giur comm., 2020, 2, I, 372 ss).

Parrebbe trasparire, infine, nell'orientamento del Tribunale felsineo una implicita assunzione che la soddisfazione dei creditori debba dipendere, almeno in parte, dai risultati della continuità e che i creditori debbano subirne l'alea. Il medesimo Tribunale di Bologna aveva del resto ritenuto, con la sentenza 7 aprile 2016 n. 59/2016, la necessità di accertare la prevalenza dei flussi della continuità, sulla scorta di un solido filone della giurisprudenza di merito.

La Cassazione, come si è ripetutamente osservato, ha seguito una linea interpretativa diversa (e vi sono Corti che hanno addirittura affermato espressamente che la disciplina di cui all'art. 84, c. 3, d.lgs. n. 14/2019 non possa essere considerato disposizione interpretativa, ma abbia natura schiettamente innovativa: App. Venezia, decr. 28 settembre 2020 n. 2576 e che la soggezione dei creditori al rischio della continuità non sia una condizione per l'applicazione delle disposizioni sulla continuità.

Ma dalla motivazione di recenti provvedimenti di merito (Trib. Ravenna 8 marzo 2021; Trib. Bergamo 14 luglio 2021) si ricava l'esigenza di prendere comunque in considerazione anche tale aspetto, pur dopo gli arresti della suprema Corte, quantomeno sotto il profilo “qualitativo”.

Se si condividono queste impressioni – per quanto dubitative e meritevoli di meditato approfondimento – si dovrebbe concludere che ogniqualvolta sul piano strutturale si ravvisi la conservazione del compendio aziendale organizzato attraverso il suo trasferimento a terzi (anche sub specie di segregazione mediante conferimento società) la meritevolezza/utilità sociale sia in re ipsa – salvi sempre i casi di abuso dello strumento.

Ove invece l'attività prosegua direttamente in capo al debitore e almeno una parte del patrimonio del debitore sia destinato a scopi diversi dalla soddisfazione del creditori concorsuali (laddove all'esito della continuazione si attui, di fatto, la liquidazione integrale del patrimonio a favore della massa, non vi sarà deroga alla regola generale dell'art. 2740 c.c. e, pertanto, anche in questo caso non vi sarà motivo di applicare il filtro della “meritevolezza”, qui ipotizzato invece proprio in funzione di bilanciamento costituzionalmente fondato rispetto al sacrificio patrimoniale imposto ai creditori conservando in capo al debitore parte dell'attivo loro naturalmente destinato ex art. 2740 c.c.), si dovrà indagare – non tanto e non solo ai fini dell'applicazione degli obblighi informativi e pianificatori di cui all'art. 186-bis, ma soprattutto ai fini dell'applicazione delle norme di favore dettate dagli artt. 160, c. 4 e 163, c. 5 – se al termine del piano di concordato sia possibile individuare la persistenza di un compendio organizzato la cui utilità sociale giustifichi il sacrificio imposto ai creditori concorsuali.

Il riferimento all'utilità sociale e del bilanciamento di valori costituzionalmente tutelati consentirebbe anche, probabilmente, di collocare in una prospettiva diversa il dibattito, oramai giunto ad uno stallo non resolubile se non su base assiologica, relativo alla (non) riconducibilità dei flussi della continuità alla nozione di “finanza esterna” (su cui, solo per un primo orientamento, si vedano Rasile e Zanotti, Flussi finanziari derivanti dalla continuità indiretta, ragionevole durata delle procedure concorsuali e misura minima di soddisfacimento dei creditori, in questo portale, 28 aprile 2021; Galletti, I proventi della continuità, come qualsiasi surplus concordatario, non sono liberamente distribuibili, in questo portale, 16 marzo 2020; Ag. Entrate, Circolare 34/E del 29 dicembre 2020, § 3.5; Solidoro, La circolare AdE n. 34/E del 29 dicembre 2020, in questo portale, 5 gennaio 2021).

Il ricorso ed il piano di concordato di una società che propone la continuità diretta, se si seguono gli orientamenti qui ipotizzati, dovrebbero contenere un'ampia ed articolata disamina dei vari profili inerenti alla prosecuzione dell'attività, alle risorse impiegate in tale prosecuzione ed ai risultati che se ne attendono anche oltre il termine del piano.

Oltre ai risultati previsti, alle risorse (umane, tecniche, tecnologiche ed informatiche) impiegate ed alle attività pianificate nella gestione operativa lungo l'arco di piano, andrebbe allora anche affrontato l'aspetto della “vitalità” dell'impresa oltre l'orizzonte del piano, in relazione alla permanenza di una organizzazione di risorse aventi un valore ulteriore, rispetto al semplice procedimento liquidatorio nell'arco del piano.

Ove si dimostri che l'organizzazione che fa capo al debitore abbia ancora un autonomo valore dopo l'orizzonte di piano dovrebbe ritenersi che tale organizzazione conservi, per definizione, un proprio valore anche al termine dell'ipotizzata dismissione di gran parte dell'attivo: per quanto embrionale o ridotto, se anche fosse per intero venuto meno l'avviamento, resterà pur sempre quello che in letteratura è stato autorevolmente definito V.OR. o valore dell'organizzazione (Cfr. Rossi, Il valore dell'organizzazione nell'impresa, in Riv. Dir. Comm., 2009, f. t-9, 603 ss. e Id., Il valore dell'organizzazione nell'esercizio provvisorio dell'impresa, Giuffrè, Milano, 2013, passim).

La continuità della società holding

Alla luce delle riflessioni sin qui svolte, si può tentare di offrire qualche ulteriore spunto sulla natura dell'attività di impresa di una società holdingnel contesto concorsuale.

È noto che la dottrina (è sufficiente qui rinviare, anche per riferimenti, a Buonocore, L'impresa, Torino, 2002, 69 ss.; Bavetta, La holding individuale, in Terranova (a cura di), Diritto commerciale. I - L'impresa, Giappichelli, Torino, 1999, 55 ss.; Palmieri, Il ruolo della persona fisica holding: fra impresa «fiancheggiatrice» e attività di direzione e coordinamento di società, in Giur. Comm., 2018, 1, 31ss) e la giurisprudenza si sono a lungo interrogate sulla natura dell'attività della holding e sulla sua riconducibilità alla fattispecie impresa. L'attività di impresa della holding è stata ricondotta all'impressa ausiliaria a beneficio delle società del gruppo (art. 2195, c. 1, n. 5, c. c.; Cfr. Jaeger, Denozza e Toffoletto, Appunti di diritto commerciale, Milano, 2006, 41), anche solo per la gestione finanziaria o più semplicemente di tesoreria. L'economicità di una simile attività, necessaria per poterla qualificare come impresa, deve essere provata da appositi compensi percepiti in cambio dei servizi prestati (Weigmann, Nota sulla nozione di società controllata, nota a Cass. Civ.,Sez. I 26-02-1990 n. 1439, in Giur. It., 1990, I, 1, 713).

Altri ritengono che sia l'attività di direzione e coordinamento in quanto tale a costituire l'esercizio d'impresa.

La nota (per alcuni famigerata) sentenza della Cassazione nel caso Caltagirone ha affermato, sulla scorta di una celebre corrente dottrinale (Galgano, Qual è l'oggetto della società holding?, in Contratto e Impresa, 1986, 327), che la holding eserciterebbe l'impresa in via mediata, attraverso le società operative a cui spetta l'esercizio immediato.

La giurisprudenza più recente ha mantenuto la distinzione tra «attività, di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), [che] si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, fonte, quindi, di responsabilità diretta del loto autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo e le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima» (Cass. Sez. UU. n. 25275 del 29 novembre 2006; Cass. n. 15346 del 25 luglio 2016).

Se, come spero di aver argomentato nel par. "Continuità commerciale e continuità concorsuale", non è predicabile di per sé che qualunque attività qualificata come impresa dal diritto commerciale sia necessariamente “esercizio dell'impresa” nella logica concorsuale, non è sufficiente affermare sic et simpliciter che l'attività di una holding è di per sé attività di impresa (in quanto direzione e coordinamento) per ritenere applicabili le norme sulla continuità aziendale al concordato di una società detentrice di partecipazioni.

A me pare che, in aggiunta alla qualificazione dell'attività propria della holding, ai fini di un piano di concordato in continuità sia altresì necessario argomentare che tale attività si estrinseca in qualcosa di più del semplice esercizio del diritto di voto nelle assemblee delle partecipate e della emissione di direttive da parte dell'organo amministrativo della holding.

Perché l'attività di direzione e coordinamento possa qualificarsi come esercizio dell'impresa a fini concordatari è necessario un quid pluris, che attiene all'assetto organizzativo della società: non occorre postulare che si tratti di una holding c.d. mista erogatrice di servizi (remunerati) alle controllate; può anche trattarsi della sola attività di pianificazione strategica, a patto che questa sia attuata attraverso una apposita funzione accentrata distinta dall'organo amministrativo, dotata di mezzi e risorse umane adeguati alla bisogna. In altre parole, e per ricorrere volutamente ad un lessico che con felice espressione manzoniana definirei «passato, ma non trascorso», è necessario che l'attività sia organizzata (Rectius: adeguatamente organizzata (arg. art. 2086 comma 2 come novellato dal D.lgs. 14/2019) in forma di impresa.

È tale elemento organizzativo ulteriore (mi pare che l'ampia ed autorevole trattazione di Abriani, cit., se non trascura quasi nessun argomento in diritto sul punto, non si occupi, invece, degli aspetti più propriamente di fatto che qui ho cercato di riassumere), il quale genera flussi prospettici (anche solo negativi, ove manchino i ricavi perché il costo veniva coperto dalla società in bonis con i dividendi) ed esprime probabilmente un valore intangibile quantomeno organizzativo, che giustifica la sussunzione del piano della holding sotto le norme che disciplinano la continuità diretta.

Se si analizza lo scenario alternativo fallimentare, del resto, è innegabile che quando fallisce una holding la cui organizzazione è costituita dal solo organo amministrativo nessun curatore si sognerebbe di richiedere l'autorizzazione all'esercizio provvisorio (L'osservazione è di Galletti, esposta nella lezione del 9 settembre 2021, Concordato preventivo, tra normativa vigente e novità (parte I), nell'ambito del corso SAF Emilia Romagna sulla Crisi di impresa) per poter nominare gli amministratori delle partecipate ed eventualmente dare loro un indirizzo strategico. Al contrario, laddove la fallita abbia dipendenti, tecnologia, competenze organizzative e quant'altro necessario allo svolgimento di funzioni centralizzate per il gruppo, indubbiamente solo con l'esercizio provvisorio – e ricorrendone i presupposti di convenienza per la massa – la curatela potrebbe mantenere in piedi tale macchina organizzativa.

Il concordato in continuità dell'affittuario

In una posizione ancora più esterna rispetto alla galassia della continuità si colloca la fattispecie del concordato in continuità di un debitore che sia affittuario, e non concedente, dell'azienda in affitto.

La crisi può certamente colpire un affittuario e questi, nel proporre una soluzione concordata ai propri creditori, certamente potrà ipotizzare di proseguire in modo diretto l'attività di conduzione dell'azienda in affitto, regolando la propria crisi mediante una proposta concordataria che preveda la falcidia dei creditori concorsuali e la loro soddisfazione con i proventi derivanti dalla conduzione in affitto dell'azienda.

Le considerazioni che precedono mi inducono a ritenere che, nel caso di specie, si possa egualmente accedere alla qualificazione del concordato come “in continuità”.

In particolare, ove con il piano di concordato l'affittuario non si sottragga al principio di responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c., e destini per intero alla soddisfazione dei creditori (ancorché eventualmente falcidiati) tutte le risorse rivenienti dall'esecuzione del piano, seppure si proponesse poi di proseguire l'attività oltre l'orizzonte del piano, non si vede perché il piano dovrebbe considerarsi liquidatorio, solo perché il debitore non è proprietario del compendio aziendale. Non vi sono nemmeno ragioni – per così dire – di interessenjurisprudenz che inducano ad escludere la qualificazione del concordato come in continuità aziendale.

La giurisprudenza più recente della Cassazione già ricordata al § 3 (Cass. n. 734/2020, con principio poi richiamato e confermato da Cass. n. 23139/2020) e quella più risalente (Cass. n. 29742/2018) mi pare inducano a ritenere che la continuità aziendale sia certamente sussistente – sub specie di continuità diretta - laddove al momento del deposito del piano di concordato l'azienda sia condotta in affitto.

Secondo Cass. 29742/2018 (che riguarda l'ipotesi del concordato della concedente, ma enuncia principi trasponibili anche all'affittuaria) «nel concordato in esame, la continuazione dell'attività avviene sì nell'ottica della ricollocazione sul mercato dell'azienda, ma non necessariamente affinché un nuovo imprenditore possa risanare l'impresa o possa proseguire l'attività imprenditoriale utilizzando il complesso aziendale acquistato, dopo averlo opportunamente riorganizzato, bensì, essenzialmente, quale strumento di mantenimento dei valori aziendali nell'ottica di un miglior realizzo nell'interesse dei creditori, nel mentre rimane sullo sfondo l'augurabile prospettiva che si realizzi anche il risanamento dell'attività produttiva attraverso il mutamento della titolarità dell'impresa».

Orbene, laddove l'affitto sia in corso, e sia prevista nell'esecuzione del piano la prosecuzione dell'attività dell'affittuaria, ricorrono infatti i presupposti di applicazione dell'art. 186-bis, ossia:

a. una componente “di qualsiasi consistenza” di prosecuzione dell'attività (Cass. 734/2020), con addossamento del relativo rischio ai creditori, nella fase esecutiva del piano;

b. la funzionalità ad un miglior soddisfacimento dei creditori, giacché la prosecuzione della gestione in affitto è funzionale al mantenimento dell'azienda in efficienza, anche per evitare le conseguenze pregiudizievoli dell'inadempimento verso il concedente al quale, al termine dell'affitto (non importa se entro o oltre il termine del piano), l'azienda dovrà pur sempre essere restituita;

c. al termine del piano residuerebbe anche (seppur condotto in affitto) un compendio organizzato «a beneficio della collettività», secondo il più stringente criterio di utilità sociale illustrato al par. "Il problema della "continuità" ai fini dell'art. 160 u.c. l.f.".

Se la gestione (seppure in affitto) dell'azienda si protrae durante l'orizzonte di esecuzione del piano, non mi paiono quindi esservi soverchi dubbi sul fatto che si tratti di piano in continuità: se i rischi della gestione gravano sul ceto è evidente che occorrano le cautele del 186-bis, a prescindere dal fatto che l'azienda sia di proprietà o affittata.

Tuttavia, al di fuori di tale ipotesi, possono residuare significative incertezze per i casi in cui il piano di concordato presenti caratteri più problematici, come ad esempio laddove:

a) il debitore si proponga non di proseguire l'attività in proprio, ma di restituire l'azienda in funzionamento al concedente (ad esempio per evitare responsabilità da inadempimento), ovvero

b) il debitore abbia condotto l'azienda in affitto solo durante la fase interinale del concordato con riserva, ma al momento del deposito del piano abbia già cessata l'attività e non siano pertanto prevedibili flussi futuri derivanti dalla continuità.

In entrambe le ipotesi qui contemplate all'esito del piano concordatario (e a ben vedere durante la fase esecutiva post omologa) non vi sarà alcun “organismo vitale” che sopravvive, essendo l'azienda ormai retrocessa alla concedente. Nel secondo caso, poi, le attività previste dal piano e ancora da compiere non solo avranno natura liquidatoria, ma si collocheranno in quella che in un ciclo di ordinata liquidazione di diritto comune è la fase terminale del processo (stando alla trita metafora medica solitamente impiegata in questi casi, le attività qui ipotizzate non si qualificherebbero certamente come cura medica, e nemmeno come pratica eutanastica o terapia palliativa: si tratta, ormai, della dignitosa disposizione delle spoglie. Si collocherebbero, sul civilistico, oltre il tempo della cessazione dell'impresa: cfr. Buonocore, op. loc. cit.).

Nella prima ipotesi, vi è pur sempre un atto (la restituzione) inquadrabile come fenomeno circolatorio dell'azienda. La sola peculiarità è che la circolazione non avviene mediante collocazione sul mercato in funzione realizzativa, ma si tratta di un contrarius actus rispetto alla originaria iniziativa imprenditoriale di assunzione dell'azienda in affitto. La sua funzione – che ben può essere orientata al miglior interesse dei creditori – non è la massimizzazione del realizzo attivo, quanto piuttosto il prudente e necessitato contenimento del rischio di insorgenza di ulteriore passivo.

Sotto il profilo teleologico, ogniqualvolta prima della restituzione dell'azienda vi sia un periodo di conduzione diretta dell'azienda, i relativi flussi (e rischi) graveranno sui creditori e ricorrerà pertanto l'esigenza di rispettare gli obblighi integrativi di informazione sui flussi della continuità. Anche laddove tale momento di gestione sia temporalmente o quantitativamente irrilevante, sul piano letterale è ben possibile sostenere che la retrocessione dell'azienda sia classificabile come “cessione dell'azienda in esercizio”, secondo la dizione dell'art. 186-bis l.fall., giacché sul piano strutturale è indubbio che la fattispecie realizza un trapasso nella titolarità di un compendio aziendale in funzionamento. Se infatti è vero che la retrocessione al concedente non comporta realizzo di valori patrimoniali attivi, è altrettanto vero che sotto il profilo della ricognizione della fattispecie si tratta pur sempre di un “trasferimento” d'azienda, sussumibile sotto il disposto dell'art. 2112 c.c. a fini giuslaburistici, e innegabilmente anche un atto che ha «per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell'azienda» da cui discendono gli effetti di cui agli artt. 2556 ss. c.c. [1]. (a tal fine Cass. 20 dicembre 1991, n. 13762 ha preso atto di tale fenomeno circolatorio. Più di recente, Cass. 16 giugno 2004, n. 11318 ha ritenuto applicabile anche l'art. 2558 e Cass. 9/10/2017, n. 23581 si è spinta a ritenere applicabile anche il comma 2 dell'art. 2560).

Vi sono pertanto più che valide ragioni per imporre un vaglio approfondito (ed attestato) della funzionalità di tale retrocessione al miglior soddisfacimento dei creditori, assumendo come tertium comparationis, tra l'altro, l'ipotesi di scioglimento del contratto ex art. 79 l.fall. nello scenario alternativo fallimentare.

La possibilità di ricondurre la seconda ipotesi (retrocessione dell'azienda in pendenza del termine ex art. 161, c. 6, per il deposito del piano) (atto che, necessariamente, dovrà essere autorizzato dal tribunale ex art. 161, comma 7) è più problematica, e dipende in apicibus dalla soluzione di un'altra più generale questione: se la qualificazione del piano e l'applicazione delle disposizioni dell'art. 186-bis debbano essere influenzate dai contenuti dell'attività svolta prima del formale deposito del piano e dell'attestazione. In altre parole, l'ipotesi qui esaminata è una applicazione specifica di una domanda più generale: può un piano essere considerato in continuità (c.d. indiretta) laddove la cessione dell'azienda avvenga non solo prima dell'omologa (è questa l'ipotesi esaminata, ad esempio, da Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, in il Fallimento, 2013, 10, 1238-1239, secondo il quale nel caso di cessione d'azienda «prima dell'omologazione… il piano di concordato e la relazione del professionista dovranno contenere le informazioni di cui all'art. 186 bis, comma 2, lett. … b) [funzionalità della continuità aziendale al miglior soddisfacimento dei creditori] in relazione al periodo anteriore all'efficacia della vendita o del conferimento dell'azienda», ma addirittura prima del deposito della c.d. domanda di concordato “pieno” di cui all'art. 161, commi da 1 a 3, l.fall.?

La risposta è, verosimilmente, positiva: non è questa la sede per approfondire l'argomento ex professo, ma una serie di indicatori normativi e giurisprudenziali (al debitore sono imposti gli obblighi informativi ex art. 161 c. 8 e il Tribunale può abbreviare il termine in caso di manifesta inidoneità dell'attività pianificatoria. Sul piano processuale, è preferibile ritenere che il procedimento sia unitario, e che il deposito del piano e della proposta non costituisca una nuova domanda, ma la specificazione della domanda originaria. La giurisprudenza, d'altra parte, afferma che nell'ambito delle istanze di autorizzazione di atti urgenti ex art. 161 c. 7 l.fall. è indispensabile che il debitore illustri al tribunale le linee guida del piano in corso di redazione, che sia sufficientemente definito nelle sue linee portanti (si veda ad esempio Trib. Modena 29 Maggio 2013) inducono a ritenere che la fase interinale sia parte integrante del processo di pianificazione concordataria e che, tanto ai fini della qualificazione quanto ai fini della comparazione tra scenari alternativi ai fini del miglior soddisfacimento dei creditori, tutto quanto accade nella fase interinale debba a pieno titolo considerarsi parte integrante del piano concordatario, di cui gli atti urgenti autorizzati dal Tribunale costituiscono anticipata esecuzione, con la duplice conseguenza che, ai fini della comparazione con l'alternativa fallimentare, si dovrà assumere uno scenario controfattuale che ipotizzi le conseguenze della dichiarazione di fallimento che fosse stata resa al momento dell'ingresso in procedura, non già gli effetti di un fallimento che intervenisse dopo che sono stati compiuti gli atti urgenti già autorizzati. Diversamente ragionando, nessun concordato in cui la cessione dell'azienda e gli altri atti liquidatori di esecuzione avvengano nella fase interinale potrebbe mai reggere al giudizio comparativo dell'alternativa fallimentare, la quale incorporerebbe tutti i benefici già realizzati e ad essi sommerebbe tutte le azioni che scaturiscono dal fallimento.

Laddove al momento del deposito del piano e dell'attestazione la retrocessione sia già avvenuta, non ricorrerà l'esigenza di dare completa applicazione alle disposizioni dell'art. 186 bis l.fall., giacché il bisogno di tutela sottostante a tale disposizione, che impone di rendere edotto il ceto creditorio dei flussi attesi dalla continuità e dei prevedibili rischi ad essa collegati, non può sussistere laddove nessuna incertezza vi sia sui flussi futuri, per essere cessata l'attività. Nondimeno, il debitore non potrà esimersi da una puntuale rendicontazione dei flussi sino al momento della retrocessione, e l'attestatore dovrà comunque rilasciare il giudizio di funzionalità di tale (già esaurita) continuità al miglior soddisfacimento dei creditori.

È infatti innegabile che il piano avrebbe comunque realizzato una forma di continuità indiretta attraverso la (retro)cessione del compendio aziendale: sul piano funzionale, infatti, la retrocessione dell'azienda avrebbe il duplice scopo di assicurare la perdurante vitalità del compendio in funzionamento (e la salvaguardia dei livelli occupazionali) in capo al concedente, e di offrire al ceto creditorio la miglior soddisfazione possibile (riducendo i rischi connessi ai potenziali inadempimenti degli obblighi assunti con il contratto di affitto).

Infine, ma non da ultimo, anche se il debitore non sia proprietario della azienda condotta in affitto, è d'altra parte possibile ritenere che il fascio di contratti in corso (comprensivo del rapporto di affitto) sia, a propria volta, suscettibile di essere qualificato e trattato come un (ulteriore) complesso aziendale (per lo meno laddove si condividano le lucide osservazioni di Spada, Lezione sull'azienda, in AA. VV., L'impresa, Giuffrè, Milano, 1985, 48).

Il concordato con continuità aziendale, disciplinato dall'art. 186 bis l.fall., è quindi a mio avviso configurabile anche qualora l'azienda sia già stata affittata o si pianifichi debba esserlo, palesandosi irrilevante – con le parole della Cassazione, riferite al concedente ma perfettamente traslabili sull'affittuario – che al momento della domanda di concordato, come pure all'atto della successiva ammissione, l'azienda sia esercitata da un terzo anziché dal debitore, posto che il contratto d'affitto assurge a strumento funzionale alla (retro)cessione di un compendio aziendale suscettibile di conservare integri i propri valori intrinseci anche immateriali (cd. "intangibles"), primo tra tutti l'avviamento, mostrandosi in tal modo idoneo ad evitare il rischio di irreversibile dispersione che l'arresto anche temporaneo dell'attività comporterebbe.

Nondimeno, ed è una precisazione necessaria, nel caso di specie va sottolineato che non esiste, per quanto di mia conoscenza, alcun precedente specifico, né di legittimità, né di merito a cui rifarsi, o meglio non esiste nessun arresto che si attagli perfettamente alle fattispecie concrete qui da ultimo esaminate.

È allora opportuno che il professionista che fosse chiamato ad attestare un piano di tal fatta prenda chiara e motivata posizione su tutti i profili e le criticità qui evidenziate e, anche laddove condivida le opinioni da me qui esposte e le faccia proprie nel rilascio dell'attestazione, accompagni il proprio giudizio professionale favorevole con un formale richiamo di informativa che sottolinei la particolare incertezza interpretativa , non solo a beneficio dei creditori, ma anche del Tribunale, al quale è opportuno che l'attestatore rappresenti con chiarezza eventuali dubbi ermeneutici che possono influire sul giudizio di ammissibilità della domanda.

Guida all'approfondimento

La fattispecie di direzione e coordinamento, di cui al par. 2, nacque originariamente in ambito bancario, per legittimare il potere della Capogruppo di indirizzare le controllate, in funzione della soggezione ai poteri di vigilanza delle autorità creditizie (e alle relative responsabilità): in luogo di molti cfr. Costi, L'ordinamento bancario, Bologna, 1994, 566 e ss., ove ampi riferimenti. Parte della dottrina (ma contra v. Costi, op. loc. cit., spec. 570-574) ebbe a sostenere fin dai primi anni '90 che le norme bancarie costituivano l'emersione normativa di un potere spettante a qualunque capogruppo. Con la riforma del diritto societario del 2003 la nozione di direzione e coordinamento fu introdotta nel diritto comune, essenzialmente quale criterio di imputazione di responsabilità. La letteratura ne ha poi ricavato l'ubi consistam perla costruzione di una autonoma attività imprenditoriale della holding, che si è poi cristallizzata in una ipostasi che oggi porta a dire che qualunque holding svolge un'attività di impresa. A ben vedere l'effettivo esercizio di una attività è questione di fatto cui dovrebbe seguire la qualificazione giuridica, non il contrario (lo dimostra, se mai ve ne fosse bisogno, l'art. 2497-sexies, che pone una presunzione solo relativa). Andrebbe poi ulteriormente dimostrato che tale attività ha carattere di impresa.

Sui confini della fattispecie “azienda” (v. par. "Continuità come aspetto strutturale ovvero funzionale del piano"): in luogo di un'ampia bibliografia, sono sufficienti le lucide e succinte riflessioni di Spada, Lezione sull'azienda, in Aa.Vv., L'impresa, Giuffrè, Milano 1985, 49 ss.; sulla possibile natura per così dire frattale o ricorsiva della nozione di ramo d'azienda: la (poca) letteratura e le (ancor meno) pronunce giudiziali edite sono generalmente occasionate da controversie di natura tributaria: cfr. ad es. Furian e Gallio, Regime tributario delle operazioni di trasferimento tra cessione di azienda e cessione di singoli assets, in il Fisco, 24 / 2019, 2329; Jacobacci, Natura degli impianti fotovoltaici, loro accastamento e criteri di deduzione dei relativi costi, in Bilancio e reddito d'impresa, n. 10 / 2012, 11 e quindi gli enunciati interpretativi ivi elaborati non sono necessariamente trasponibili in altro settore. Tuttavia paiono meritevoli di menzione le conclusioni a cui è giunta la Commissione tributaria regionale della Lombardia nella sentenza del 19 aprile 2018 n. 1812/05/2018: «…In un impianto fotovoltaico, l'imprenditore non ha nulla da organizzare, coordinare, scegliere, perché la sua funzione è unica, prestabilita e non può in alcun modo essere variata. Ancora, i beni organizzati all'interno dell'azienda, destinati al raggiungimento di un fine unitario, conservano la loro individualità e possono circolare per conto proprio, autonomamente gli uni dagli altri, in quanto l'organizzazione è opera dell'imprenditore. Ognuno può vedere come, nel caso in esame, nessuno dei beni oggetto della cessione, materiali ed immateriali, ivi compresi i contratti, conservi la sua individualità, mentre tutti abbiano ragione di essere soltanto se unitariamente considerati e destinati».

- In letteratura, la riconducibilità sia dell'affitto di azienda “ponte” (cioè finalizzato alla successiva cessione), sia di quello c.d. “puro” (cioè non prodromico alla cessione) all'ambito applicativo del concordato con continuità ex art. 186 bis l.fall. è stata sostenuta da alcuni autori: Arato, Questioni controverse nel concordato preventivo con continuità aziendale: il conferimento e l'affitto d'azienda, il pagamento ultrannuale dei creditori privilegiati, l'uscita dalla procedura, in ilcaso.it, 9 agosto 2016, 10-11; Patti, Il miglior soddisfacimento dei creditori: una clausola generale per il concordato preventivo?, in Fallimento, 2013, 1101; Ambrosini, Appunti in tema di concordato con continuità aziendale, in ilcaso.it, 4 agosto 2013, 9. In senso contrario, seppur con posizioni diverse tra loro, si sono espressi ad esempio, oltre a Mandrioli, op. cit.; Lamanna, La legge fallimentare dopo il decreto sviluppo, Giuffré, 2012, 58; Di Marzio, Affitto d'azienda e concordato in continuità, in questo portale, 2013, 4, secondo il quale «continuità aziendale e affitto d'azienda si pongono in un rapporto di reciproca esclusione: dove vi è continuità non può esservi affitto d'azienda; dove vi è affitto d'azienda non vi è continuità»; Galletti, La strana vicenda del concordato in continuità e dell'affitto d'azienda, ivi, 2012, 3; Vitiello, Brevi e scettiche considerazioni sul concordato preventivo con continuità aziendale, ivi, 2013, 2; Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, in Fallimento, n. 10/2013, 1222 et seq.; Fabiani, Concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca al codice civile, Bologna, 2014, 194, secondo il quale «il debitore, pur se non perde la qualifica di imprenditore si trasforma in “imprenditore quiescente” perché solo al momento della cessazione del contratto di affitto riprenderà, a pieno, il suo ruolo».

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