La disciplina della circolazione dei risultati delle captazioni compiute tramite “trojan”

Luigi Giordano
08 Agosto 2022

Come è noto, ai sensi dell'art. 9 del d.lgs. n. 216 del 2017, per i procedimenti penali iscritti dopo il 31 agosto del 2020, trova applicazione la riforma delle intercettazioni e, quindi, anche la disciplina dell'utilizzo del captatore informatico nelle indagini per l'ascolto delle conversazioni tra presenti.
Premessa

Tra le disposizioni di più complessa interpretazione, vi è quella contenuta nell'art. 270, comma 1-bis, c.p.p. che regola la circolazione degli esiti delle captazioni.

Ad una prima lettura, questa norma pare aver limitato notevolmente l'uso obliquo dei risultati delle captazioni compiute tramite trojan.

Una diversa impostazione, invece, limita l'operatività della clausola di esclusione probatoria prevista da tale norma solo ai reati emersi in procedimenti diversi, dovendo invece farsi riferimento alla disciplina di cui all'art. 266 c.p.p. nell'ambito dello stesso procedimento, cioè quando il fatto reato accertato per mezzo dalle captazioni presenta una connessione sostanziale con quello che ha giustificato il ricorso al mezzo di ricerca della prova.

La prima versione dell'art. 270, comma 1-bis, c.p.p.

L'art. 4, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 216/2017, cd. “Riforma Orlando” delle intercettazioni, aveva regolato uno dei profili più delicati della disciplina delle intercettazioni tra presenti eseguite per mezzo del “captatore informatico”, prevedendo una notevole limitazione alla circolazione dei risultati di queste captazioni. Questa norma, infatti, ha aggiunto all'art. 270 c.p.p. il nuovo comma 1-bis, la cui originaria formulazione era la seguente: «I risultati delle intercettazioni tra presenti operate mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile non possono essere utilizzati per la prova di reati, anche connessi, diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza».

La disposizione inizialmente prevista dal d.lgs. n. 216/2017, dunque, era formulata “in negativo”; in relazione alle sole intercettazioni compiute per mezzo del captatore informatico, per giunta solo per quelle compiute “su dispositivo elettronico portatile”, ampliava il raggio di azione della clausola di esclusione dell'utilizzazione del materiale probatorio raccolto tramite le intercettazioni contemplata dall'art. 270, comma 1, c.p.p., estendendola dai “procedimenti diversi” ai “reati diversi” da quello che ha giustificato il provvedimento autorizzativo delle captazioni.

Il divieto di utilizzo probatorio operava anche nell'ambito dello stesso procedimento, come risultava chiaramente dal riferimento alla prova di reato “anche connessi”.

La deroga al predetto divieto era modellata sulla previsione dell'art. 270, comma 1, c.p.p. con il riferimento ai reati per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza (art. 380 c.p.p.) e presupponeva un vaglio di “indispensabilità” del mezzo di prova.

Questa disposizione, pertanto, in conseguenza della diffidenza che caratterizza la disciplina codicistica del captatore informatico, forse per limitare il fenomeno descritto, con accezione negativa, come “pesca a strascico”, mirava ad impedire l'uso “obliquo” degli esiti delle intercettazioni realizzate tramite questo strumento, cioè il loro impiego anche per la prova di reati diversi che fossero emersi pure nel medesimo procedimento (o per reati accertati nell'ambito di un procedimento scaturito a seguito di frazionamento dell'originario procedimento), con una sola deroga configurabile nel caso in cui il delitto emerso rientrasse nel catalogo degli illeciti per i quali l'art. 380 c.p.p. prevede l'arresto obbligatorio in flagranza di reato.

La riformulazione dell'art. 270, comma 1-bis c.p.p.

Il contenuto dell'art. 270, comma 1-bis, c.p.p. è stato sostituito, a decorrere dal 29 febbraio 2020, dall'art. 2, comma 1, lett. g), n. 1), d.l. 30 dicembre 2019, n. 161. Il testo in vigore prima della conversione del citato decreto-legge era il seguente: «1-bis. Fermo restando quanto previsto dal comma 1, i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, se compresi tra quelli indicati dall'articolo 266, comma 2-bis».

Successivamente, la legge 28 febbraio 2020, n. 8, intitolata «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 dicembre 2019, n. 161», recante modifiche urgenti alla disciplina delle intercettazioni di conversioni o comunicazioni, è intervenuta su alcune disposizioni del d.lgs. n. 216/2017.

Tra le norme del codice di rito che sono state riformulate da questa legge vi è proprio anche l'art. 270, comma 1-bis, c.p.p. che disciplina il regime di circolazione delle captazioni eseguite mediante captatore informatico.

La disposizione vigente è ormai così formulata: «Fermo restando quanto previsto dal comma 1, i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione qualora risultino indispensabili per l'accertamento dei delitti indicati dall'articolo 266, comma 2-bis».

Va allora evidenziato che:

  1. La formulazione definitiva della norma è “in positivo”;
  2. Il catalogo dei reati per la cui prova è ammesso l'uso dei risultati delle intercettazioni disposte per la ricerca della prova di altri illeciti è cambiato notevolmente rispetto alla prima versione, passando da quelli per i quali è ammesso l'arresto in flagranza (art. 380 c.p.p.), a quelli per i quali, ai sensi dell'art. 266, comma 2-bis, c.p.p., l'utilizzo del captatore “è sempre consentito”.
Una prima interpretazione della disposizione in esame

Secondo una interpretazione, la norma in esame, pur formulata in positivo («i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione …»), stabilisce il divieto di uso dei risultati delle intercettazioni per la prova di reati diversi da quelli per cui sono state disposte e pone la deroga a tale divieto ove le captazioni servano per l'accertamento dei delitti indicati dall'; peraltro, tale deroga non è assoluta, ma è condizionata alla "indispensabilità probatoria” degli esiti di tali captazioni.

Il divieto di utilizzo degli esiti delle captazioni, più precisamente, presenta un perimetro maggiore rispetto a quello di cui all'art. 270, comma 1, c.p.p.: infatti, esso non riguarda l'utilizzo dei risultati delle intercettazioni per la prova dei reati emersi in “procedimenti diversi”, ma l'impiego di tali risultati per la prova di delitti diversi da quello per cui è stata autorizzata l'intercettazione dal Gip. Ne consegue che il divieto opera anche nell'ambito dello stesso procedimento, cioè quando tra il fatto - reato per il quale le intercettazioni sono state ab origine disposte dal giudice e quello emerso dalle captazioni sussistano quelle ragioni di connessione – quel legame sostanziale forte - che, come è stato chiarito dalla sentenza delle Sezioni unite “Cavallo”, permettono di ravvisare l'unicità del procedimento (cfr., tra gli altri, De Amicis, Il regime della “circolazione” delle intercettazioni dopo la riforma, in Giustizia insieme, 22 febbraio 2020; R. Orlandi, Usi investigativi dei cosiddetti captatori informatici. criticità e inadeguatezza di una recente riforma, in Riv. it. dir. proc. pen. 2018, 538, secondo cui «il divieto dell'art. 270 comma 1 ha portata assai più ridotta di quello ora espresso nel comma subito successivo… »; M. Torre, Le intercettazioni a mezzo del c.d. captatore informatico o “trojan di Stato”, in A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa, Cybercrime, Milano 2019, 1669, secondo cui «la nuova norma non consente l'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni svolte all'interno dello stesso procedimento, ma rilevanti per l'accertamento di un reato “satellite” diverso rispetto a quello oggetto del relativo decreto di autorizzazione»).

Anzi, proprio la necessità di escludere il rilievo probatorio degli esiti delle captazioni anche nell'ambito del medesimo procedimento avrebbe determinato la differente formulazione della norma in esame rispetto a quanto già previsto dal comma 1 dello stesso art. 270 c.p.p.

Anche la deroga al divieto di utilizzo dei risultati delle captazioni, inoltre, è più circoscritta rispetto alla deroga al divieto previsto dal comma primo della medesima norma: non vale per tutti i reati di cui all'art. 380 c.p.p. per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza e per tutti quelli di cui all'art. 266 c.p.p., come è attualmente previsto dall'art. 270, comma 1, c.p.p., ma solo per i delitti per i quali, ai sensi dell'art. 266, comma 2-bis, c.p.p., è sempre consentito l'impiego del trojan nelle indagini.

La norma in esame, allora, si apre con una espressione di difficile interpretazione (“Fermo restando quanto previsto dal comma 1 …”). Con essa il legislatore ha verosimilmente solo voluto precisare che, in aggiunta a quanto previsto dall'art. 270, comma 1, c.p.p., nei soli casi in cui per realizzare le intercettazioni si è usato il captatore informatico, il divieto di utilizzazione dei risultati presenta una più ampia portata ed una deroga più limitata.

Segue: il vaglio di indispensabilità

Neppure se il reato emerso dalle intercettazioni rientra tra quelli per i quali, ai sensi dell'art. 266, comma 2-bis, c.p.p. l'utilizzo del captatore “è sempre consentito”, peraltro, l'uso dei risultati è “automatico”, essendo pur sempre subordinato ad un vaglio di indispensabilità del mezzo di prova. In tale caso, infatti, non basta la mera necessità probatoria degli esiti delle captazioni.

Sul punto, però, va segnalato che:

  • secondo l'indirizzo giurisprudenziale consolidato, la nozione di indispensabilità delle conversazioni intercettate ha un ampio oggetto di riferimento, sicché può riferirsi, ad esempio, anche all'esigenza di acquisire riscontro alle dichiarazioni accusatorie della persona offesa (cfr. Cass. pen., sez. II, n. 12625/2015; Cass. pen., sez. II, n. 2809/2005) e persino ai fatti relativi alla punibilità, alla determinazione della pena ed alla qualificazione del reato medesimo in rapporto alle circostanze attenuanti o aggravanti (Cass. pen., sez. VI, n. 33968/2005);
  • secondo un orientamento giurisprudenziale (Cass. pen., sez. III, n. 5821/2022), che pare possa essere esteso anche alla norma in esame, inoltre, l'art. 270, comma 1, c.p.p., sebbene richieda, ai fini dell'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in altro procedimento per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza, il requisito della "indispensabilità", non pone alcuna correlativa prescrizione in tema di motivazione. Si sostiene che «nella fase delle indagini preliminari, quindi, la valutazione in ordine alla assoluta indispensabilità dei risultati delle intercettazioni provenienti da altro procedimento, a norma dell'art. 270 c.p.p., può essere compiuta anche implicitamente dal provvedimento in cui tali elementi sono utilizzati, mediante l'attribuzione agli stessi di una specifica rilevanza ai fini della decisione adottata».
Segue: gli argomenti a sostegno dell'interpretazione proposta

A sostegno della lettura della norma che è stata proposta milita non solo l'argomento letterale, desunto dal confronto tra i due commi dell'art. 270 c.p.p., ma anche l'analisi del percorso che ha condotto alla sua formulazione definitiva.

Il testo definitivo, infatti, come si è visto, è stato determinato all'esito di un articolato percorso normativo.

La prima versione, contenuta nel d.lgs. n. 216/2017, che limitava enormemente la circolazione dei risultati della prova ottenuti tramite trojan, non ha mai acquisito efficacia.

Nelle more della maturazione del termine per la sua applicazione, la materia è stata integralmente riformata dal d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, recante modifiche urgenti alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio 2020, n. 7, che ha modificato o abrogato alcune delle disposizioni del già menzionato d.lgs. n. 216 del 2017. In questa occasione, come si è visto, l'art. 270, comma 1-bis, c.p.p. è stato riformulato.

La legge 28 febbraio 2020, n. 8, di conversione del d.l. n. 161/2019, poi, ha nuovamente modificato l'art. 270, comma 1-bis, c.p.p., giungendo alla formulazione che è stata illustrata e che appare il frutto della ricerca di un compromesso tra la prima - che limitava la circolazione dei risultati - e la seconda versione - che invece apriva più ampi margini in tal senso.

La norma, dunque, in una logica di bilanciamento tra gli interessi collettivi e quelli individuali, non ha escluso la circolazione degli esiti del mezzo di ricerca della prova raccolto tramite captatore informatico, ma ne ha circoscritto la portata a reati ritenuti particolarmente gravi e, comunque, solo ove si tratti di reati per i quali il ricorso al captatore è sempre possibile, previo vaglio di indispensabilità.

Segue: i limiti dell'interpretazione illustrata

L'interpretazione dell'art. 270, comma 1-bis, c.p.p. che è stata appena proposta conduce a ritenere che il regime della circolazione dei risultati delle captazioni tramite trojan è diverso e più circoscritto rispetto a quello degli esiti delle intercettazioni compiute con mezzi tradizionali. Ne consegue che, in base all'impostazione illustrata, il mezzo usato per realizzare le intercettazioni incide sull'area di utilizzabilità dei risultati delle captazioni.

Proprio questa considerazione suscita dubbi sulla ragionevolezza di una norma che prevede una distinzione, ai fini dell'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, in base allo strumento tecnico utilizzato per realizzarle.

Nei confronti di un indagato per lo stesso reato, anche nello stesso procedimento, cioè per fatti connessi e per i quali autonomamente potevano essere disposte intercettazioni, gli esiti delle intercettazioni potrebbero essere usati come prova se compiuti con mezzi tradizionali e sarebbero inutilizzabili se le captazioni sono state realizzate con il trojan.

L'art. 266, comma 2, c.p.p., tuttavia, dispone che l'intercettazione tra presenti “può essere realizzata anche tramite captatore informatico”, lasciando intendere che il captatore informatico costituisca solo lo strumento tecnico impiegato per realizzare le intercettazioni.

Analogamente, l'art. 267, comma 1, c.p.p. definisce l'inserimento del captatore informatico in un dispositivo elettronico portatile una “modalità per lo svolgimento delle indagini”: in sostanza, il trojan è solo una moderna microspia per realizzare intercettazioni tra presenti.

Inoltre, emergerebbe anche un altro limite dell'impostazione illustrata: per i reati di cui all'art. 266, comma 2-bis, c.p.p., per i quali è sempre previsto l'impiego del captatore, è stato previsto che, in fase genetica, il giudice delle indagini preliminari debba valutare solo la necessità del mezzo di ricerca della prova (art. 267 c.p.p.); se un reato che rientra tra quelli previsti da tale norma, invece, emerge da captazioni autorizzate per la ricerca della prova di altri reati, l'utilizzo probatorio presuppone un quid pluris, essendo necessaria l'indispensabilità degli esiti delle captazioni (M. Antinucci – G. Spangher, Davvero possibili le intercettazioni c.d. a strascico attraverso l'uso del captatore informatico per reati comuni?, in Dir. pen. pen. 2020, 8, 1128).

Una diversa lettura della disposizione in esame

Tali argomentazioni lasciano trapelare dubbi sulla correttezza e, come è stato prospettato, anche sulla ragionevolezza dell'interpretazione proposta (cfr., J. Della Torre, La nuova disciplina della circolazione del captato: un nodo arduo da sciogliere, in Il diritto di internet, Le nuove intercettazioni, 3/2020, 101, secondo cui «il nuovo art. 270 c.p.p. si porrebbe, (anche) sotto questo aspetto, oltre il filo del rasoio della legittimità costituzionale, per contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.)».

Esse hanno indotto a prospettare una diversa lettura della norma.

Questa dovrebbe fondarsi sulla valorizzazione del titolo della norma, che reca “Utilizzazione in altri procedimenti” (J. Della Torre, La nuova disciplina della circolazione del captato: un nodo arduo da sciogliere, cit.).

L'intera disciplina dell'art. 270 c.p.p., anche quella contenuta nel comma 1-bis, secondo questa impostazione, riguarda l'uso degli esiti delle intercettazioni in “procedimenti diversi” (la possibilità di questa lettura è stata prospettata da M. Antinucci – G. Spangher, Davvero possibili le intercettazioni c.d. a strascico attraverso l'uso del captatore informatico per reati comuni?, in Dir. pen. pen. 2020, 8, 1128).

Ne consegue che solo nell'ambito di procedimenti diversi – cioè nel caso di emersione dalle captazioni di fatti – reato non connessi con quelli per i quali è stata disposta l'intercettazione – opererebbe il divieto di utilizzo probatorio dei risultati, salvo che si tratti di reati per i quali il ricorso al captatore, ai sensi dell'art. 266, comma 2-bis, c.p.p., “è sempre consentito”.

Nell'ambito dello stesso procedimento, invece, cioè quando ricorre tra il reato che ha giustificato l'intercettazione e quello emerso dalle captazioni una ragione di connessione ex art. 12 c.p.p., deve trovare applicazione la regola generale che presuppone, per l'utilizzo dei risultati delle captazioni, che il reato emerso rientri nel catalogo dell'art. 266 c.p.p. Nello stesso procedimento, dunque, basterebbe per l'uso degli esiti delle intercettazioni – anche di quelle realizzate con il trojan - che il reato accertato rientri tra quelli per i quali è legittimo l'uso delle intercettazioni.

Alla stregua di questa seconda prospettiva interpretativa, l'art. 270, comma 1-bis, c.p.p. usa le parole “reati diversi” e non la formula “procedimenti diversi” di cui al primo comma della medesima disposizione solo per assicurare tutela all'inviolabilità del domicilio. Il captatore informatico è strumento “itinerante” che, soprattutto, ha attitudine ad entrare nel domicilio. In ragione di tale caratteristica, i risultati delle captazioni possono essere usati in procedimenti diversi solo dove non è necessario il presupposto previsto dall'art. 266, comma 2, c.p.p. a tutela dell'inviolabilità del domicilio, cioè la necessità “che ivi sia in corso l'attività criminosa”, quindi nei soli casi di cui all'art. 266, comma 2-bis, c.p.p.

In base a questa diversa lettura, in conclusione in procedimenti diversi – cioè quelli, come ha spiegato la Corte di cassazione nella sentenza “Cavallo” non connessi ex art. 12 c.p.p. – i risultati delle intercettazioni possono essere usati:

1) qualora compiute con mezzi tradizionali

  • se il reato emerso rientra nel catalogo dell'art. 266 c.p.p.
  • se il reato è contenuto nel catalogo di cui all'art. 380 c.p.p.

2) qualora realizzate con il captatore informatico, solo se, dagli ascolti, sono stati accertati i reati di cui all'art. 266, comma 2-bis, c.p.p., con uno spazio di utilizzo più ristretto, giustificato dalla natura itinerante del captatore e dalla necessità di salvaguardare i valori di cui all'art. 14 Cost.

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