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Intercettazioni: telecomunicazioni, ambientali, captatore informatico

07 Marzo 2025

Dopo la bussola sulle tipologie di intercettazioni, i casi e i divieti, pubblichiamo quella che approfondisce l'intercettazione di telecomunicazioni, ambientale e con il captatore informatico aggiornata alla luce della più recente giurisprudenza e delle ultime novità legislative.

L'intercettazione di telecomunicazioni e quella ambientale

L'art. 266, comma 1, c.p.p. disciplina l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di “altre forme di telecomunicazione”, mentre al comma 2 consente l'intercettazione di conversazioni tra persone presenti negli stessi casi in cui è consentita l'intercettazione di comunicazioni a distanza.

Una tutela “rafforzata” a baluardo del domicilio è già posta quando le conversazioni avvengano nell'abitazione o in altro luogo di privata dimora o nelle appartenenze di essi, giacché l'intercettazione è consentita, di regola, «solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa» (art. 266, comma 2).

 Ma la riforma del 2020 ha ampliato il “doppio binario” e le deroghe, prima previste soltanto per i reati di criminalità mafiosa e terroristica, sono state estese ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata ai sensi dell'art. 4 (art. 266, comma 2-bis).

In tema d'intercettazioni ambientali, la collocazione di microspie all'interno di un luogo di privata dimora, costituendo una delle modalità attuative di tale mezzo di ricerca della prova, deve ritenersi ammessa senza la necessità di una specifica autorizzazione, in quanto implicita nel provvedimento che ha disposto l'intercettazione [Cass. pen., sez. VI, 31 gennaio 2011, Di Maggio, CP  2012, p. 1819; Cass. pen., sez. I, 28 maggio 2004, Rigato ed altro, CED 230097]. Si è aggiunto che, in tema di intercettazioni ambientali regolarmente autorizzate dal G.i.p., tutto ciò che attiene alle modalità esecutive dell'operazione di captazione è rimesso all'esclusivo controllo del p.m. Pertanto, è legittima l'eventuale sostituzione dell'apparato cellulare installato nel luogo (nella specie un'autovettura) il quale sia mal funzionante, con un altro apparato, anche se fornito da un soggetto privato, con conseguente piena utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni effettuate [Cass. pen., sez. V, 20 gennaio 2004, C. ed altri, CED 228518]. Si ribadisce che la collocazione di microspie all'interno di un luogo di privata dimora, costituendo una delle naturali modalità attuative di tale mezzo di ricerca della prova, deve ritenersi implicitamente ammessa nel provvedimento che ha disposto le operazioni di intercettazione, senza la necessità di una specifica autorizzazione [Cass. pen., sez. VI, 13 giugno 2017 (dep. 25 luglio 2017), Romeo, n. 36874]. Le S.U. hanno chiarito, anche se ai fini della configurabilità del delitto previsto dall'art. 624-bis c.p., che i luoghi di lavoro non rientrano nella nozione di privata dimora, salvo che il fatto sia avvenuto all'interno di un'area riservata alla sfera privata della persona offesa. Rientrano nella nozione di privata dimora di cui all'art. 624-bis c.p. esclusivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare [Cass. pen., sez. un., 23 marzo 2017, D'Amico, n. 31345, in CED 27007601].

Qualche incertezza è sorta sull'individuazione dei “luoghi indicati dall'articolo 614 del codice penale. Infatti, se è semplice la nozione di “abitazione”, più problematica è quella relativa al “luogo di privata dimora”. La giurisprudenza è concorde nel ritenere che, ai fini dell'ammissibilità di intercettazioni di comunicazioni tra presenti disciplinate dall'art. 266, comma 2, c.p.p. per luoghi di privata dimora devono intendersi, oltre l'abitazione vera e propria, quei luoghi che assolvono, attualmente e concretamente, la funzione di proteggere la vita privata (riposo, alimentazione, amministrazione, occupazioni professionali o di svago) di coloro che li possiedono La S.C. ha considerato privata dimora qualunque luogo, anche se diverso dalla casa di abitazione, in cui la persona si soffermi per compiere, pur se in modo contingente e provvisorio, atti della sua vita privata riconducibili al lavoro, al commercio, allo studio, allo svago [Cass. pen., sez. fer., 27 agosto 2013, n. 41646]. Con la conseguenza che non tutti i locali dai quali il possessore abbia diritto di escludere le persone a lui non gradite possono considerarsi luoghi di privata dimora, in quanto lo ius excludendi alios rilevante ex art. 614 c.p. (e, quindi, ex art. 266, comma 2, c.p.p.) non è fine a sé stesso ma serve a tutelare il diritto alla riservatezza nello svolgimento di alcune manifestazioni della vita privata della persona che l'art. 14 Cost. garantisce, proclamando l'inviolabilità del domicilio. Deve, comunque, prevalere la nozione di domicilio ex art. 14 Cost., che, distaccandosi sia dall'art. 43 c.c. (domicilio come “sede principale degli affari e interessi”) sia dall'art. 614 c.p. (domicilio come privata dimora), tutela ogni luogo di cui si disponga “a titolo privato”, ma nel quale non necessariamente si svolgono attività domestiche.

In passato, la Corte costituzionale ritenne tutelato ex art. 14 Cost. l'abitacolo dell'autovettura affermando che «il diritto penale vivente considera l'autovettura come luogo di privata dimora, sia pure esposto al pubblico, dal quale il titolare ha il diritto di escludere ogni altro; sicché non può esservi dubbio che tutto questo attenga anche al concetto costituzionalistico di domicilio», e dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 6 comma 2 l. prov. aut. Trento 26 luglio 1973 n. 18 (Norme per la disciplina della raccolta dei funghi), nella parte in cui prevedeva l'intimazione all'apertura anche di mezzi di trasporto che costituiscono luoghi di privata dimora [C. cost. 88/1987, Giur. cost., 1987, I, 682]. Ma la giurisprudenza esclude che l'autovettura possa considerarsi privata dimora. Si osserva che l'abitacolo di un'autovettura non può essere considerato luogo di privata dimora, essendo sfornito dei conforti minimi necessari per potervi risiedere stabilmente per un apprezzabile lasso di tempo [Cass. pen., sez. I, 23 dicembre 2005, Sarcone ed altri, CED 233991]. Si ribadisce che l'abitacolo di un'autovettura, essendo sfornito dei conforti minimi necessari per potervi risiedere stabilmente per un apprezzabile lasso di tempo, non può essere considerato luogo di privata dimora, ai fini dei limiti alla possibilità di disporvi intercettazioni di conversazioni e comunicazioni stabiliti dall'art. 266 comma 2 [Cass. pen., sez. I, 27 gennaio 2005, Bolognino ed altro, CED 230533; nello stesso senso, in quanto sfornito dei requisiti minimi indispensabili per potersi risiedere in modo stabile per un apprezzabile lasso di tempo, né tanto meno appartenenza di privata dimora, in quanto non collegato in un rapporto funzionale di accessorietà o di servizio con la stessa: Cass. pen., sez. V, 5 novembre 2004, Bevilacqua, CED 230096; Cass. pen., sez. V, 27 maggio 2004, Scardamaglia, secondo cui l'abitacolo di un'autovettura, strutturalmente privo di attrezzature che rendano possibile e attuale un'utilizzazione di tipo domestico dello spazio chiuso, ma costituente ordinario mezzo di trasporto, non rientra tra i luoghi di privata dimora]. Il limite dettato dal c. 2 dell'art. 266 c.p.p. per i luoghi di privata dimora - in ordine ai quali le operazioni sono consentite solo quando vi sia fondato motivo di ritenere che nel luogo interessato si stia svolgendo l'attività criminosa - non riguarda l'abitacolo degli autoveicoli, che costituiscono semplici mezzi di trasporto, e comunque non sono assimilabili al domicilio, così come inteso dall'art. 14 Cost., al quale soltanto, pur non costituendo l'unico luogo in cui possono svolgersi relazioni e conversazioni private, il legislatore ha inteso assicurare una più accentuata garanzia di riservatezza e libertà delle comunicazioni [Cass. pen., sez. I, 12 gennaio 2003, Cavataio, Cass. pen., 2005 1995 nonché CED 228420]. Si afferma il principio per cui, in materia di intercettazioni ambientali, l'autovettura, per la funzione che le è propria, non è di per sé luogo di privata dimora [Cass. pen., sez. I, 9 gennaio 2004, Unali e altro]. L'abitacolo di un'autovettura, costituendo un ricovero del tutto estemporaneo e precario, non è equiparabile al domicilio o comunque ai luoghi di privata dimora, destinati allo svolgimento delle principali attività della vita quotidiana e domestica e in quanto tali soggetti alle particolari garanzie previste dalla legge [Cass. pen., sez. V, 30 maggio 2003, Lucani]. Si esclude che il concetto di privata dimora, benché sia più esteso di quello di casa di abitazione, possa ricomprendere l'abitacolo di un autoveicolo, atteso che esso è sfornito dei conforti minimi necessari per potervi risiedere in modo stabile per un apprezzabile lasso di tempo, né tale abitacolo può considerarsi pertinenza di privata dimora, in quanto non collegato in un rapporto funzionale di accessorietà o di servizio con la stessa [Cass. pen., sez. III, 27 maggio 2003, Greco]. Non può essere considerato luogo di privata dimora, ai fini dell'applicazione dell'art. 266 c. 2, l'abitacolo di un'autovettura, spazio destinato naturalmente al trasporto dell'uomo o al trasferimento di oggetti e non ad abitazione [Cass. pen., sez. VI, 14 gennaio 2003, Basilari, CED 223682]. Un mezzo di trasporto, qual è l'autovettura, può essere considerato luogo di privata dimora solo in casi particolari, quando cioè venga utilizzato non come mezzo di trasporto ma per condurvi la propria privata esistenza, anche in modo contingente o transitorio: così può essere relativamente alla roulotte o al camper adibito ad abitazione permanentemente dal nomade, o precariamente dallo sfollato o dal turista [Cass. pen., sez. V, 19 febbraio 2016, n. 38236]; alla barca per il navigatore anche occasionale; alla cabina del camion per l'autista che si ferma a riposare; all'autovettura in cui lo sfrattato o il “barbone” trascorre la notte [Cass. pen., sez. VI, 23 gennaio 2001, De Palma, Cass. pen., 2001, 2751]. Si esclude dall'ambito della privata dimora l'abitacolo dell'autovettura, in quanto mero mezzo di trasporto dove, come tale, non si esplica, neppure in via episodica, attività domestica [Cass. pen., sez. VI, 5 dicembre 2000, Saggio, Dir. pen e proc., 2001, 239 nonché Cass. pen., sez. I, 17 febbraio 1996, Porcaro, Riv pen., 1996 nonché CED 203799, 1025; Cass. pen., sez. VI, 19 febbraio 1981, Semitaio, Cass. pen., 1982, 1529]. Si è però anche affermato che ai fini della individuazione delle condizioni e dei limiti di ammissibilità delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti, rientrano nel concetto di privata dimora tutti quei luoghi che, oltre all'abitazione, assolvano alla funzione di proteggere la vita privata e che siano perciò destinati al riposo, all'alimentazione, alle occupazioni professionali e all'attività di svago, tra cui va ricompreso l'abitacolo di una autovettura adibita, di regola, ai trasferimenti da e per il luogo di lavoro e di svago. È pertanto legittima l'intercettazione di colloqui tra presenti che si svolgono all'interno di un'autovettura quando esista il fondato sospetto, da intendersi come prognosi da formulare con giudizio ex ante all'atto dell'emanazione del provvedimento di autorizzazione, giacché in tal caso l'interesse all'inviolabilità del domicilio trova il limite della tutela di interessi generali, anch'essi costituzionalmente garantiti, ravvisabili nell'esigenza di esercitare l'azione penale che, ex art. 112 Cost., è obbligatoria [Cass. pen., sez. II, 10 giugno 1998, Zagaria, Cass. pen., 2000, 2026 nonché CED 211142; nello stesso senso Cass. pen., sez. I, 11 luglio 2000, Nicchio, CED 216749]. Solo eccezionalmente si considera luogo di privata dimora l'abitacolo di un autoveicolo, come può avvenire per gli homeless, giacché normalmente la sua funzione è di consentire gli spostamenti da un luogo ad un altro, di tal che le persone che dialogano in esso sono in condizioni analoghe a quella di chi dialoga in luogo pubblico [Cass. pen., sez. IV, 22 gennaio 2003, Raffaele]. Si esclude che l'autovettura sia luogo di privata dimora, secondo la definizione dell'art. 614 c.p., giacché in essa non si compiono, di norma, atti caratteristici della vita domestica [Cass. pen., sez. VI, 18 febbraio 2003, Palumbo, Cass. pen., 2004, 1707].  Nello stesso senso, si afferma che, ai fini dell'applicazione dell'art. 266 comma 2, l'abitacolo di un'autovettura è spazio destinato naturalmente al trasporto dell'uomo o al trasferimento di oggetti e non ad abitazione [Cass. pen., sez. VI, 25 giugno 2002, Barilari, Giust. pen., 2003, III, 578 e 661], salvo che esso - rientrando tra le libertà individuali la facoltà di scegliere lo spazio più congeniale alla propria personalità in cui dimorare - sin dall'origine sia strutturato (e venga di fatto utilizzato) come tale, oppure sia destinato, in difformità dalla sua naturale funzione, ad uso di privata abitazione [Cass. pen., sez. I, 29 gennaio 2001, Galli, Cass. pen., 2001, 2746 nonché CED 218042].

Le Sezioni Unite hanno affermato che il concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con un qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza; ciò in quanto «il rapporto tra la persona e il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente. In altre parole, la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato dalla personalità del titolare, sia o meno questi presente [...]. Solo il requisito della stabilità anche se intesa in senso relativo, può trasformare un luogo in un domicilio, nel senso che può fargli acquistare un'autonomia rispetto alla persona che ne ha la titolarità», escludendo la configurabilità del domicilio nei c.d. privés dei locali pubblici. Pertanto, ilprivè di un locale pubblico non è stato considerato ambiente tutelato dall'art. 14 Cost. ma più semplicemente gode di riservatezza [Cass. pen., sez. un., 28 marzo 2006, Prisco, in Dir. pen. e proc., 2006, 1354].

L'ufficio privato è considerato luogo di privata dimora poiché chi ne dispone svolge in esso la sua attività lavorativa, che implica un aspetto dello svolgimento della vita individuale in cui è compreso l'intrattenimento diretto o mediante mezzi di comunicazione con le persone che il titolare ammette ad entrare nella sua sfera privata [Cass. pen., sez. VI, 13 giugno 2017, Romeo, n. 36874; Cass. pen., sez. VI, 29 settembre 2003, Giliberti, Cass. pen., 2005, 1336]. Nell'orario di attività la sede di lavoro costituisce domicilio comune al datore di lavoro ed al dipendente, per cui il primo non ha lo ius excludendi nei confronti dell'altro [Cass. pen., sez. III, 7 luglio 2010, n. 37197]. È stato ritenuto privata dimora anche l'immobile adibito a casa di vacanza abitato soltanto in determinati periodi dell'anno [Cass. pen., sez. V, 12 settembre 2019, n. 37875] e l'appartamento disabitato, utilizzato dal proprietario come deposito di oggetti nella sua disponibilità [Cass. pen., sez. V, 13 settembre 2021, n. 33860]. Il box cassa di un'autorimessa, di utilizzo promiscuo a tutti i dipendenti e con turnazione di più lavoratori nelle mansioni di cassa ivi svolte non configura un “domicilio lavorativo”, dovendosi intendere in tal senso non qualsiasi luogo in cui si svolge l'attività di lavoro, ma quel luogo in cui a tale svolgimento si affianchi la possibilità di godere di riservatezza nell'esplicazione di atti della vita privata, escludendo ingerenze esterne indipendentemente dalla presenza della persona che ha la titolarità del domicilio  [Cass. pen., sez. V, 17 novembre 2015, n. 11419, in Cass. pen., 2017, p. 717].

La Corte di cassazione ha inoltre precisato che, in tema di intercettazioni ambientali, non può essere considerato luogo di privata dimora l'ufficio del sindaco, trattandosi di un elemento della struttura municipale e quindi di carattere pubblico, nel quale è consentito l'accesso ad estranei e che non è destinato allo svolgimento di atti della vita privata [Cass. pen., sez. II 10 ottobre 1997, Viveri, CED 208756]. Si è escluso che, ai fini delle valutazioni di ammissibilità e utilizzabilità delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti, costituisca privata dimora l'ufficio del sostituto procuratore della Repubblica [Cass. pen., sez. VI, 25 maggio 2022, P., n. 32010], né sono privata dimora i locali di una procura della Repubblica, onde captare i dialoghi tra soggetti previamente sottoposti a interrogatorio [Cass. pen., sez. I, 10 novembre 1997, Foti, CED 208999] e neppure l'ufficio tecnico comunale, trattandosi di luogo dove è consentito l'accesso ad un numero indiscriminato di persone [Cass. pen., sez. I 13 maggio 2010, Accomando, n. 24161, Cass. pen., 2011, 3503, CED 247942].

A fini di intercettazione, il bar non è considerato luogo di privata dimora [Cass. pen., sez. VI, 17 gennaio 2012, n. 1707]. I locali aperti al pubblico per l'esercizio di attività commerciali sono talvolta esclusi dalla tutela ex art. 14 Cost. nelle ore in cui rimane effettivamente aperto al pubblico, giacché in esso, di norma, può accedere un numero indiscriminato di persone [Cass. pen., sez. VI, 9 luglio 2002, Ferri, GD 2002, 42, 77]. Si esclude che sia privata dimora un deposito di carni durante l'orario di apertura al pubblico [Cass. pen., sez. I, 23 marzo 1994, Pulito, Giust. pen., 1994, 356; nello stesso senso Cass. pen., 13 febbraio 1992, D'Ancona, Arch. Nuova Proc. Pen., 1992, 620; Cass. pen., sez. I, 2 dicembre 1991, Marsella, CED 190009]. Altre volte l'esercizio commerciale è stato ricompreso nella nozione di privata dimora [Cass. pen., sez. I, 2 dicembre 1992, Liggieri, Cass. pen., 1995, 990, che considera privata dimora un'agenzia di trasporti]. La S.C. ha talvolta ritenuto tutelato dall'art. 14 Cost.il bagno di un locale pubblico perché chi vi si reca «non solo non rinuncia alla propria intimità e alla propria riservatezza ma presuppone che gli vengano garantite e, sia pure temporaneamente, gli è consentito opporsi all'ingresso di altre persone» [Cass. pen., sez. IV 16 marzo 2000, Viskovic, Dir. Pen. e Proc., 2001, 87 ss.], talaltra escluso tale tutela in quanto il luogo in questione, «caratterizzato da una frequenza assolutamente temporanea degli avventori e condizionata unicamente alla soddisfazione di un bisogno personale, non può essere assimilato ai luoghi di privata dimora di cui all'art. 614 c.p., che presuppongono una relazione con un minimo grado di stabilità con le persone che li frequentano» [Cass. pen., sez. IV, 16 novembre 2005, Siciliano; nello stesso senso Cass. pen., sez. VI, 12 febbraio 2003, Cherif, Cass. pen., 2004, 2922 nonché Giust. pen., 2003, III, 662]. È stato considerato privata dimora il bagno di pertinenza di un circolo privato [Cass. pen., sez. V, 1° marzo 2021, Pavia, n. 25263], l'ambulatorio di un ospedale [Cass. pen., sez. III, 24 maggio 2018, n. 47123, Rv. 274419], l'ambulatorio adibito a servizio di guardia medica [Cass. pen., sez. III, 30 agosto 2012, n. 33518] o il bagno di una struttura ospedaliera [Cass. pen., sez. VI, 26 gennaio 2011, M. e altro, n. 7550, Rv. 249322]. Non sono stati considerati luoghi di privata dimora i bagni riservati ai dipendenti di un ufficio postale, con conseguente utilizzabilità delle videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi ivi effettuate nel corso delle indagini [Cass. pen., sez. VI, 28 settembre 2010, Mangiafave, Cass. pen., 2011, 3512]. La S.C. ha anche escluso che la stanza di un ospedale possa costituire privata dimora, osservando che «deve escludersi che la stanza di un ospedale, luogo lato sensu pubblico, posto sotto il diretto controllo del personale ospedaliero, rientri nel concetto di privata dimora, non potendosi considerare nel ‘possesso' esclusivo delle singole persone ricoverate, alle quali non compete un indifferenziato ius excludendi alios» [Cass. pen., sez. VI, 3 giugno 2009, R.A., Dir. pen. e proc., 2009, 987]. Nello stesso senso di escludere dalla nozione di privata dimora la camera di un ospedale pubblico, di cui il degente non ha la disponibilità esclusiva [Cass. pen., sez. I, 22 gennaio 1996, Campeggio, CED 203664]. Si è pure affermato che non può essere considerato luogo di privata dimora, ai fini dell'applicazione dell'art. 266 comma 2, un'agenzia di pompe funebri, essendo un luogo aperto al pubblico, dove si esercita attività commerciale, in contatto diretto e continuo con la clientela e, quindi, con accesso indiscriminato di persone, e non potendosi affermare, al contrario, che esso assolva alla funzione di proteggere la vita privata, nelle sue diverse esplicazioni concernenti il riposo, l'alimentazione, l'amministrazione, l'occupazione professionale o lo svago, di chi vi si trattiene [Cass. pen., sez. IV, 25 novembre 2003, Tripodo, CED 226887]. Neppure la sacrestia di una chiesa è stata ritenuta privata dimora [Cass. pen., sez. III, 11 novembre 2008, GD 2009, 6, 92]. Si è pure esclusa la qualità di domicilio dell'open space, della stanza collettiva di lavoro [Cass. pen., sez. V, 20 aprile 2021, n. 14878] e l'area destinata a sosta e parcheggio delle auto e riservata ai soli proprietari degli immobili [Cass. pen., sez. V, 21 novembre 2017, n. 53438]. È stato invece ritenuto privata dimora uno studio, un'agenzia professionale [Cass. pen., sez. V, 11 dicembre 2019, n. 50192; Cass. pen., sez. V, 7 febbraio 2018, n. 5797] e gli spazi condominiali comuni [Cass. pen., sez. III, 5 dicembre 2019, n. 49392; Cass. pen., sez. I, 20 febbraio 2018, n. 8090]. 

La giurisprudenza ha ripetutamente affermato che la cella del carcere non può essere considerata luogo di privata dimora giacché il detenuto non dispone del ius excludendi alios [Cass. pen., sez. I, 6 maggio 2008, Sapone, Cass. pen., 2009, 2533]. Nello stesso senso, aggiungendo che si tratta di proprietà demaniale e il detenuto non è titolare dello ius excludendi alios, per cui sono utilizzabili, e non contrastano con l'art. 8 CEDU, i risultati delle intercettazioni di un colloquio avvenuto nel parlatorio del carcere tra l'indagato e una persona venuta a fargli visita, quando le stesse siano state disposte in base ad un provvedimento motivato dell'a.g., in presenza dei presupposti di legge e per un periodo di tempo limitato [Cass. pen., sez. VI, 1° febbraio 2008, Scarcia, CED 238733, nonché Dir. pen. e proc., 2008, 440]. Problema in passato particolarmente controverso era se l'ambiente carcerario potesse considerarsi luogo di privata dimora, con la conseguenza che, in tale caso, l'intercettazione vi sarebbe ammessa solo in presenza del summenzionato “fondato motivo”, secondo la prescrizione dell'art. 266 comma 2. Ma la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che il carcere non può essere considerato luogo di privata dimora giacché il detenuto non dispone del ius excludendi alios. Nello stesso senso, aggiungendo che si tratta di proprietà demaniale e il detenuto non è titolare dello ius excludendi alios [Cass. pen., sez. VI, 14 settembre 2003, Agate, secondo cui l'ambiente carcerario, sia esso la cella o la sala colloqui dell'istituto di detenzione, è luogo lato sensu pubblico, sotto il diretto e immediato controllo dell'amministrazione penitenziaria che su di esso esercita la vigilanza e cui compete lo ius excludendi, onde non è equiparabile al domicilio o comunque ai luoghi di privata dimora, destinati allo svolgimento delle principali attività della vita quotidiana e domestica e in quanto tali soggetti alle particolari garanzie previste dalla legge all'art. 266 c. 2; Cass. pen., sez. II, 20 novembre 1997, Marras, Cass. pen., 1999, 1518 nonché Giust. pen., 1999, III, 56 s., sostiene che ai fini dell'ammissibilità ed utilizzabilità delle intercettazioni tra presenti di cui al comma 2 dell'art. 266 c.p.p., la cella di un carcere non può essere considerata luogo di privata dimora, dovendosi intendere come tale quello adibito all'esercizio di attività che ognuno ha il diritto di svolgere liberamente e legittimamente senza turbativa da parte di estranei. Deve cioè trattarsi di luoghi che assolvano attualmente e concretamente la funzione di proteggere la vita privata di coloro che li posseggono, i quali sono titolari dello ius excludendi alios al fine di tutelare il diritto alla riservatezza nello svolgimento delle manifestazioni della vita privata della persona che l'art. 14 Cost. garantisce, proclamando l'inviolabilità del domicilio. Alla stregua di tali principi è di intuitiva evidenza che la cella non è un luogo di privata dimora, non essendo nel “possesso” dei detenuti ai quali non compete alcuno ius excludendi alios, per essere, invece, nel possesso e nella completa disponibilità dell'amministrazione penitenziaria, che ne può disporre ad ogni ora del giorno e della notte per qualsiasi necessità]. Nemmeno la sala colloqui del carcere è luogo di privata dimora [Cass. pen., sez. VI, 2 dicembre 1999, Bembi ed altro, CED 214972 nonché Riv. pen., 2000, 524, Giust. pen., 2000, III, 670, afferma che l'intercettazione di comunicazioni tra presenti richiede l'indicazione dell'ambiente nel quale l'operazione deve avvenire solo quando si tratti di abitazioni o luoghi privati, secondo l'indicazione di cui all'art. 614 c.p. In tal senso la sala colloqui di uno stabilimento carcerario non è luogo di privata dimora]. Si sottolinea che in tema di applicazione del disposto del comma 2 dell'art. 266 - secondo il quale l'intercettazione di comunicazione tra presenti, quando avvenga nei luoghi indicati nell'art. 614 c.p., «è consentita solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa» - il concetto di privata dimora è più ampio di quello di casa di abitazione e comprende ogni luogo che venga adoperato, anche in modo contingente, per lo svolgimento di attività privata di qualsiasi specie: dunque, luogo adibito ad attività che ogni avente diritto ha facoltà di svolgere liberamente e legittimamente, senza turbative da parte di estranei che si ha il diritto di escludere. Alla stregua di tale definizione è evidente che la sala colloqui di un istituto di detenzione, quale pertinenza di questo, ne segue la condizione di luogo lato sensu pubblico, sotto il diretto ed immediato controllo dell'autorità carceraria che su essa esercita la vigilanza e cui soltanto compete lo ius excludendi, mentre al singolo detenuto residua soltanto la facoltà, autorizzata, di ricevere determinate visite. Ne consegue che deve escludersi che l'intercettazione ambientale in detta sala colloqui possa essere consentita solo nel caso in cui si abbia fondato motivo di ritenere che in essa si stia svolgendo l'attività criminosa [Cass. pen., sez. I, 3 marzo 1997, Telese ed altri, CED 207379 nonché Giust. pen., 1998, III, 178].

L'intercettazione con il captatore informatico

L'art. 266, comma 2-bis, c.p.p. disciplina l'intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, stabilendo che «è sempre consentita nei procedimenti per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. e per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata ai sensi dell'articolo 4».

Il captatore informatico opera ubicumque e persino per le intercettazioni ambientali che avvengono all'estero. Infatti, si ammette l'utilizzabilità dei risultati dell'intercettazione di conversazioni avvenute all'estero se il captatore è stato installato in Italia e la captazione, nei suo sviluppi finali e conclusivi è avvenuta in Italia, attraverso le centrali di ricezione facenti capo alla Procura della Repubblica, per cui la sola circostanza che le conversazioni captate siano state (in parte) eseguite all'estero per lo spostamento dell' apparecchio e del suo utilizzatore è ininfluente per ritenere la necessità della rogatoria, non potendosi, nel caso di intercettazione ambientale su strumento mobile conoscere tutti gli spostamenti, così vanificandosi le finalità del mezzo di ricerca della prova [Cass. pen., sez. II, 22 luglio 2020 (dep. 27 ottobre 2020), Cerisano, n. 29362, CED 279815]. In definitiva, la giurisprudenza, anche dopo il recepimento della direttiva sull'O.E.I., continua a seguire la procedura dell'instradamento: Cass. pen., sez. I, 1° marzo 2023, n. 20859; Cass. pen., sez. IV, 15 ottobre 2019 (dep. 10 dicembre 2019), n. 49896, CED 277949; Cass. pen., sez. III, 26 settembre 2019 (dep. 22 novembre 2019), n. 47557, CED 277990; Cass. pen., sez. III, 10 maggio 2019 (dep. 13 settembre 2019), n. 38009, CED 278166. Si ribadisce l'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, effettuate senza rogatoria internazionale, di utenze che si trovano all'estero quando l'attività di captazione sia effettuata in Italia. L'intercettazione ambientale delle conversazioni che avvenga in una autovettura non necessita di rogatoria internazionale nel momento in cui l'autovettura si sposta all'estero. Finanche l'intercettazione ambientale a mezzo di captatore informatico, installato in Italia, non necessita di rogatoria internazionale nel momento in cui il device su cui è installato si sposta all'estero. Ne consegue che deve ritenersi che, a fortiori, anche nel caso del GPS, strumento di ricerca della prova meno invasivo dell'intercettazione telefonica o ambientale o di quella tramite captatore, se, lo stesso viene collocato nel territorio dello Stato su veicolo o altra cosa che poi successivamente si sposta all'estero, l'utilizzazione dei risultati del tracciamento degli spostamenti avvenuti all'estero non necessiti di rogatoria internazionale [Cass. pen., 1° marzo 2023, n. 20859].

Il captatore informatico è divenuto strumento operativo ordinario per la ricerca della prova in materia non solo di criminalità organizzata, terrorismo e delitti contro la pubblica amministrazione, ma di tutti i reati suscettibili di intercettazione.

La insidiosità del captatore informatico emerge prepotentemente su diversi fronti. Il virus trojan infatti non limita soltanto la segretezza, ma talvolta pure la libertà di autodeterminazione della persona da intercettare. Ormai di regola nella prassi si verifica che, quando il portatore del dispositivo elettronico portatile non dà l'input che consente l'accesso al malware (ad es. non accetta l'aggiornamento proposto come “cavallo di Troia), la polizia giudiziaria ricorre ad ulteriori e più insidiosi stratagemmi, non previsti dalla legge, quali, ad esempio, di bloccare le telefonate in uscita dal cellulare per costringere l'ignaro soggetto ad operazioni che comportano l'accesso del virus trojan nel dispositivo, come accaduto nel noto “caso Palamara”. Si è perciò dubitato della legittimità dell'impiego del trojan horse, quale conseguenza della modalità "subdola" di acquisizione della prova attraverso l'induzione del soggetto intercettato alla "autoinstallazione" del virus, con costi a carico del destinatario e in violazione del principio di autodeterminazione di cui all'art. 188 [Cass. pen., sez. V, 30 settembre 2020 (dep. 11 novembre 2020), Palazzo, n. 31604, in Cass. pen., 2021, p. 2133, ha escluso che il captatore informatico possa inquadrarsi tra i “metodi o le tecniche” idonei ad influire sulla libertà di determinazione del soggetto, come tali vietati dall'art. 188 c.p.p. Il trojan horse, infatti, non esercita alcuna pressione sulla libertà fisica e morale della persona, non mira a manipolare o forzare un apporto dichiarativo, ma, nei rigorosi limiti in cui sono consentite le intercettazioni, capta le comunicazioni tra terze persone, nella loro genuinità e spontaneità].

In realtà, il captatore viene inconsapevolmente auto-installato dal soggetto controllato, che viene indotto a farlo con artifici e raggiri: gli si fa credere che è un'operazione che serve a ripristinare o a migliorare la funzionalità del suo device quando, invece, si tratta di un modo subdolo per spingerlo a compiere un atto che altrimenti non avrebbe posto in essere e che, a sua insaputa, inocula il virus trojan nel suo dispositivo e quindi consente l'intercettazione. In questo caso, a nostro parere, il pubblico ministero viene meno al suo dovere di lealtà processuale e viola il principio di autodeterminazione garantito dall'art. 188 c.p.p. a chiunque, e in primis all'indagato. Come noto, tale disposizione vieta l'utilizzazione, neppure con il consenso della persona interessata, di “metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione”, e il divieto non riguarda soltanto il contenuto della dichiarazione, ma anche qualsiasi costrizione, fisica o psichica, ad un facere. Ma non è ammissibile che lo Stato, al fine di reprimere le condotte illecite dei criminali, scenda al loro livello ingannando l'indagato per indurlo a consentire inconsapevolmente l'accesso al “cavallo di Troia”. E siccome l'impiego di tali fraudolente manovre è diventato ormai la regola, il problema non può essere più ignorato. Così come non può essere più ignorato il problema, ancora più grave, dei tempi di accensione e spegnimento del microfono, che è lasciato all'insindacabile opinione della polizia giudiziaria, la quale quindi è libera di scegliere le conversazioni ed i soggetti da intercettare oppure da tenere fuori delle indagini, come è emerso, ancora una volta, nel “caso Palamara”. Ed in effetti, già la denominazione di “cavallo di Troia” dovrebbe far capire che si tratta di una manovra fraudolenta. Infatti, mentre per le tradizionali forme di intercettazione non è mai necessaria una collaborazione della persona da monitorare, per il trojan, salvo i rari casi in cui si riesca ad avere la disponibilità fisica dell'apparecchio per il tempo necessario all'installazione del virus, si deve sempre ricorrere ad una “trappola” per inoculare il malware sull'apparecchio portatile, senza alcun consenso da parte del titolare del dispositivo controllato ed anzi con la sua inconsapevole collaborazione. Di solito si invia al device da monitorare una mail o altro messaggio, apparentemente inoffensivo, aprendo il quale si scarica il virus senza averne alcuna consapevolezza. Inoltre, le modalità di questa “trappola” non sono indicate dalla legge, con conseguente limitazione talvolta anche della libertà domiciliare in plateale violazione della riserva di legge; di conseguenza, tali stratagemmi sfuggono alle prescrizioni ed al controllo sia del P.M. sia del G.i.p. e sono lasciate all'estemporanea e incontrollabile iniziativa della polizia giudiziaria. In fondo, “trappole” del genere sono sempre state praticate: si pensi all'espediente cui ricorre la polizia giudiziaria, per sistemare le microspie, di entrare a casa del sospettato, sotto le mentite spoglie di un operaio del gas o della società elettrica o di accedere all'abitacolo della vettura con i doppioni delle chiavi.

La più moderna tecnologia, per assicurare la segretezza e la inviolabilità della corrispondenza della propria clientela, ha realizzato il “criptofonino”: si tratta di un comune telefono cellulare, con applicazione di messaggistica crittografata incorporata, rispetto al quale risulta tecnicamente impossibile installare il captatore informatico. Esso infatti dispone del servizio di messaggistica crittografata con una serie di modifiche sia nell'hardware sia nel software (di regola, disabilitando le funzioni microfono, fotocamera e GPS).

Le “sentenze gemelle” delle Sezioni unite

In riferimento all'acquisizione di esiti di intercettazioni con il captatore informatico, eseguite all'estero e richieste con Ordine Europeo di Indagine, sono intervenute due sentenze delle S.U.

In sostanza, le due “sentenze gemelle” ammettono come prova le chat acquisite all'estero con il captatore informatico sui server francesi ed escludono la necessità del vaglio preventivo del giudice sull'emissione dell'O.E.I., ammettendo esclusivamente un giudizio di utilizzabilità postumo degli elementi di prova acquisiti all'estero, sul presupposto per cui «rientra nei poteri del P.M. disporre l'acquisizione di atti di altro procedimento penale».

La prima pronuncia (Cass. pen., sez. un., 29 febbraio 2024 (dep. 14 giugno 2024), n. 23755, Gjuzi) ha affermato i seguenti principi di diritto.

La trasmissione, richiesta con ordine europeo di indagine, del contenuto di comunicazioni scambiate mediante criptofonini, già acquisite e decrittate dall'autorità giudiziaria estera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 234-bis c.p.p., che opera al di fuori delle ipotesi di collaborazione tra autorità giudiziarie, bensì nella disciplina relativa alla circolazione delle prove tra procedimenti penali, quale desumibile dagli artt. 238 e 270 c.p.p. e 78 disp. att. c.p.p.

In materia di ordine europeo di indagine, le prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione possono essere legittimamente richieste ed acquisite dal pubblico ministero italiano senza la necessità di preventiva autorizzazione da parte del giudice del procedimento nel quale si intende utilizzarle.

L'emissione, da parte del pubblico ministero, di ordine europeo di indagine diretto ad ottenere il contenuto di comunicazioni scambiate mediante criptofonini, già acquisite e decrittate dall'autorità giudiziaria estera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, non deve essere preceduta da autorizzazione del giudice italiano, quale condizione necessaria a norma dell'art. 6 Direttiva 2014/41/UE, perché tale autorizzazione, nella disciplina nazionale relativa alla circolazione delle prove, non è richiesta per conseguire la disponibilità del contenuto di comunicazioni già acquisite in altro procedimento.

La disciplina di cui all'art. 132 d.lgs. n. 196 del 2003, relativa all'acquisizione dei dati concernenti il traffico di comunicazioni elettroniche e l'ubicazione dei dispositivi utilizzati, si applica alle richieste rivolte ai fornitori del servizio, ma non anche a quelle dirette ad altra autorità giudiziaria che già detenga tali dati, sicché, in questo caso, il pubblico ministero può legittimamente accedere agli stessi senza chiedere preventiva autorizzazione al giudice davanti al quale intende utilizzarli.

L 'utilizzabilità del contenuto di comunicazioni scambiate mediante criptofonini, già acquisite e decrittate dall'autorità giudiziaria estera ln un procedimento penale pendente davanti ad essa, e trasmesse sulla base di ordine europeo di indagine, deve essere esclusa se il giudice italiano rileva che il loro impiego determinerebbe una violazione dei diritti fondamentali, fermo restando che l'onere di allegare e provare i fatti da cui inferire tale violazione grava sulla parte interessata.

L'impossibilità per la difesa di accedere all'algoritmo utilizzato nell'ambito di un sistema dl comunicazioni per criptare il testo delle stesse non determina una violazione dei diritti fondamentali, dovendo escludersi, salvo specifiche allegazioni di segno contrario, il pericolo di alterazione dei dati in quanto il contenuto di ciascun messaggio è inscindibilmente abbinato alla sua chiave di cifratura, ed una chiave errata non ha alcuna possibilità di decriptarlo anche solo parzialmente.   

La seconda pronuncia (Cass. pen., sez. un., 29 febbraio 2024 (dep. 14 giugno 2024), n. 23756/2024, Giorgi e altro) ha affermato i seguenti principi di diritto.

In materia di ordine europeo di indagine, l'acquisizione dei risultati di intercettazioni disposte da un'autorità giudiziaria straniera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, ed effettuate su una piattaforma informatica criptata e su criptofonini, non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 234-bis c.p.p., che opera al di fuori delle ipotesi di collaborazione tra autorità giudiziarie, ma è assoggettata alla disciplina di cui all'art. 270 c.p.p.

In materia di ordine europeo di indagine, le prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione possono essere legittimamente richieste ed acquisite dal pubblico ministero italiano senza la necessità di preventiva autorizzazione da parte del giudice del procedimento nel quale si intende utilizzarle.

L'emissione, da parte del pubblico ministero, di ordine europeo di indagine diretto ad ottenere i risultati di intercettazioni disposte da un 'autorità giudiziaria straniera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, ed effettuate attraverso l'inserimento di un captatore informatico sui server di una piattaforma criptata, è ammissibile, perché attiene ad esiti investigativi ottenuti con modalità compatibili con l'ordinamento italiano, e non deve essere preceduta da autorizzazione del giudice italiano, quale condizione necessaria ex art. 6 Direttiva 2014/41/UE, perché tale autorizzazione non è richiesta nella disciplina nazionale.

L'utilizzabilità dei risultati di intercettazioni disposte da un 'autorità giudiziaria straniera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, ed effettuate su una piattaforma informatica criptata e su criptofonini, deve essere esclusa se il giudice del procedimento nel quale dette risultanze istruttorie vengono acquisite rileva che, in relazione ad esse, si sia verificata la violazione del diritti fondamentali, fermo restando che l'onere di allegare e provare i fatti da cui inferire tale violazione grava sulla parte interessata.

L'impossibilità per la difesa di accedere all'algoritmo utilizzato nell'ambito di un sistema di comunicazioni per criptare il testo delle stesse non determina una violazione dei diritti fondamentali, dovendo escludersi, salvo specifiche allegazioni di segno contrario, il pericolo di alterazione dei dati in quanto il contenuto di ciascun messaggio è inscindibilmente abbinato alla sua chiave di cifratura, ed una chiave errata non ha alcuna possibilità di decriptarlo anche solo parzialmente.

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