Azioni di statoFonte: Cod. Civ. Articolo 236
30 Dicembre 2024
Inquadramento Con la locuzione “azioni di stato” si intende fare riferimento alle azioni giudiziali volte ad attribuire ad un soggetto lo status filiationis nei confronti di uno, ovvero di entrambi i genitori, piuttosto che ad espungere uno stato acquisito, ma non veritiero. Con il termine “stato”, a sua volta, il legislatore ha inteso fare riferimento al rapporto giuridico che lega un figlio ai suoi genitori e, in forza del vincolo di parentela, ai componenti del nucleo familiare di costoro; nel contempo, lo status filiationis è espressione riassuntiva per indicare l'insieme di diritti e doveri propri del figlio. Le azioni di stato sono tipiche, in conformità ad un elenco tassativo che l'ordinamento contempla; di esse si darà atto specificamente, differendo tra loro quanto all'oggetto, ai presupposti e ai soggetti legittimati. Tradizionalmente le azioni di stato sono strutturate sull'accertamento dell'esistenza o inesistenza di un vincolo di discendenza biologica (una volta rappresentato dal “sangue” ed ora dal DNA) tra coloro che si professano, rispettivamente, genitore e figlio. In questi ultimi tempi, peraltro, si sta valorizzando un tipo di genitorialità diverso rispetto a quello basato sulla genetica: genitori, e quindi figli, si può diventare in forza di un progetto e di un impegno a farsi carico di tutte le esigenze di un minore, anche al di fuori di un legame biologico. Si sviluppa quindi una genitorialità c.d. “sociale”, nella quale è il ruolo di assistenza e cura di un minore che può strutturare una relazione giuridicamente rilevante, in funzione del preminente interesse del minore stesso ad una crescita in un ambiente per lui accudente. L'esame delle azioni di stato non può esaurirsi nella specifica disciplina positiva, ma deve tenere conto necessariamente del supremo interesse del minore, criterio ispiratore di tutta la normativa, prima ancora che interna, convenzionale ed eurounitaria. Stato unico di filiazione L'art. 315 c.c., introdotto con l. n. 219/2012, prevede che «tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico». Seguendo l'esempio di altre legislazioni a noi vicine, il legislatore italiano ha superato la tradizionale distinzione dello status filiationis, a seconda che il concepimento fosse avvenuto o meno in costanza di matrimonio. Preme rammentare che la riforma del diritto di famiglia del 1975, sulla scorta dei precetti costituzionali, aveva già introdotto, da un lato, una sensibile modifica terminologica (“filiazione naturale”, in luogo dell'arcaica “filiazione illegittima”) e dall'altro realizzato una tendenziale equiparazione, dal punto di vista dei diritti, tra figli legittimi e figli naturali, quantomeno nella relazione con i loro genitori, a cominciare dall'eliminazione del divieto di riconoscimento dei figli c.d. “adulterini”. Sta di fatto che quella riforma aveva mantenuto il dualismo dello status e con esso il primato della filiazione legittima su quella naturale, confortata anche dall'art. 30 Cost., che assicura ai figli nati fuori del matrimonio «ogni tutela giuridica e sociale compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima». Il favor legislativo (se pur ridimensionatosi) nei confronti della filiazione legittima giustificava così l'istituto della legittimazione, avente funzione premiale: il figlio naturale, una volta legittimato, acquistava infatti uno status del tutto identico a quello del figlio legittimo. La presenza nel nostro ordinamento di norme che contemplavano un differente regime, a seconda delle categorie di figli, in funzione dell'esistenza o meno di un matrimonio tra i genitori, strideva peraltro sia con il precetto di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost., sia con gli obblighi assunti dall'Italia in sede internazionale. Si deve richiamare in primo luogo l'art. 21 della Carta di Nizza, vincolante per gli Stati membri dell'Unione europea a seguito del Trattato di Lisbona, ove è vietata ogni discriminazione fondata, fra l'altro, sulla nascita; per parte sua la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), pur non contemplando misure specifiche in tema di filiazione, all'art. 8 protegge la vita privata e familiare, e all'art. 14 pone il divieto di qualsiasi discriminazione. La l. n. 219/2012ha completato il percorso segnato dalla Costituzione e dai documenti internazionali citati, con l'introduzione dello status unico della filiazione, tanto che è scomparsa (anche a seguito del d.lgs. n. 154/2013e del d.P.R. 30 gennaio 2015, n. 26) ogni distinzione terminologica fra figli legittimi e naturali, dovendosi fare riferimento solo ai “figli” tout court, ovvero, se necessario, ai figli nati nel o fuori del matrimonio. Coerentemente è stato abrogato l'istituto della legittimazione, ormai privo di significato. Criteri di attribuzione dello stato L'esistenza di un matrimonio fra i genitori continua a mantenere la sua rilevanza ai fini dell'attribuzione dello status dei figli: il concepimento, come pure la nascita del figlio in costanza di matrimonio, insieme con l'operare della presunzione di maternità, legittimano, salvo contraria dichiarazione, la formazione di un atto di nascita quale figlio matrimoniale (e conseguente attribuzione automatica dello stato di figlio nato nel matrimonio). Di contro se il concepimento e la successiva nascita, avvengono al di fuori del matrimonio, lo status filiationis continua ad essere acquisito, in forza di atto di riconoscimento da parte di uno (o entrambi i genitori), ovvero dell'azione di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità. In altri termini, il matrimonio continua ancora ad incidere sull'attribuzione dello status, con la previsione che, comunque, i figli hanno gli stessi diritti e doveri, a prescindere dalle circostanze che hanno accompagnato il concepimento o la nascita. L'equiparazione dello status non significa, dunque, equiparazione dei criteri attributivi dello status stesso; il matrimonio mantiene tutta la sua rilevanza quale strumento volto, di regola, ad attribuire ai figli nati dalla moglie lo status di figli coniugali, con attribuzione della paternità al marito della madre (fatto salvo il diritto della donna coniugata, ai sensi dell'art. 250 c.c., di dichiarare che il figlio è stato concepito con persona diversa dal marito); ciò però non assurge ad elemento di discriminazione, capace di incrinare la raggiunta unicità dello stato di filiazione. La mancanza di un vincolo formale non poteva giustificare l'estensione della regola anche al convivente della madre. Nel contempo è stato “sdoganato” lo stretto rapporto esistente tra matrimonio e parentela, a fronte del nuovo testo dell'art. 74 c.c., che valorizza la nozione biologica di parentela, come legame di persone che discendono da un medesimo stipite, a prescindere dal matrimonio tra i genitori. In altri termini, il matrimonio non si configura più come fattore di differenziazione del rapporto giuridico intercorrente fra figli, genitori e parenti di questi ultimi, che, per l'appunto è stato unificato. Titolo di stato Anche dopo la riforma della filiazione, attuata con l. n. 219/2012 e d.lgs. n. 154/2013, vige il principio per cui la formazione di un titolo (ossia l'atto di nascita) è sempre necessaria perché possa parlarsi di stato di filiazione. Così dispone l'art. 236 c.c., che pure fa riferimento alle prove della filiazione. Il differente sistema di formazione del titolo di stato ha un notevole significato sostanziale: ancora oggi, l'ordinamento dispone che il titolo di stato del figlio matrimoniale si formi d'ufficio, mentre lascia agli interessati la formazione del corrispondente titolo di figlio nato fuori del matrimonio. In mancanza di un atto di nascita, la filiazione può essere provata con il possesso continuo dello stato di figlio; prima della recente riforma, la prova della filiazione nei termini suddetti riguardava solo quella “legittima”; ciò nel presupposto che l'atto di nascita provasse legalmente tutti gli elementi che lo costituivano: maternità, matrimonio, concepimento in costanza di matrimonio e paternità. Le azioni di stato dopo la riforma della filiazione. Classificazione Rimasta inalterata la disciplina dell'attribuzione dello stato, a seconda che la nascita sia avvenuta all'interno o al di fuori del matrimonio, si rende necessario esaminare la nuova regolamentazione delle azioni di stato. Ovviamente, dopo la riforma del 2012/2013, non è più prospettabile, quantomeno sul piano della terminologia, la contrapposizione fra azioni di stato legittimo (che in precedenza avevano ad oggetto il conseguimento o la perdita dello stato di figlio legittimo) e azioni di stato riferite alla filiazione naturale. Tuttavia, benché sia venuta meno ogni espressa qualificazione delle singole azioni in base ai presupposti della filiazione, la predetta dicotomia nella sostanza perdura. Infatti continuano ad essere in concreto riferibili alla prima categoria e, dunque, esercitabili in caso di filiazione matrimoniale, le azioni di disconoscimento della paternità, di reclamo e di contestazione dello stato di figlio; per la filiazione fuori del matrimonio, saranno operative invece le azioni di dichiarazione giudiziale di genitorialità e di impugnativa del riconoscimento. In dottrina si discute peraltro se l'azione di contestazione dello stato possa riguardare anche la filiazione nata fuori del matrimonio. Al riguardo dunque non può che riproporsi l'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale precedente. La sistematica del codice non brilla peraltro oggi per coerenza: il capo III del Titolo VII del primo Libro del codice civile è infatti rubricato «Dell'azione di disconoscimento e delle azioni di contestazione e di reclamo dello stato di figlio» (artt. 243-bis - 249 c.c.); i presupposti dell'azione di reclamo e di quella di contestazione sono invece contemplati negli artt. 238 c.c. («Irreclamabilità di uno stato di figlio contrario a quello attribuito dall'atto di nascita»), art. 239 c.c. («Reclamo dello stato di figlio»), art. 240 c.c. («Contestazione dello stato di figlio»),tutti inseriti nel capo II, rubricato «Delle prove della filiazione».La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità si trova disciplinata negli artt. 269 -278 c.c., contenuti nell'omonimo capo V, ed infine quella di impugnativa del riconoscimento negli artt. 263 – 268 c.c., contenuti bel capo IV, rubricato «Del riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio». Pare dunque opportuno, per ogni singola azione che si intendesse esperire, andare a ricercarne la specifica disciplina. La riforma Cartabia ed i correttivi Con la riforma della filiazione del 2012/2013, di cui si è detto, le azioni di stato tutte erano state attribuite alla competenza funzionale del Tribunale ordinario, da individuarsi, quanto al territorio, sulla base dei principi generali di cui all'art. 18 c.p.c.; il rito era quello generale di cognizione. Il d.lgs. 149/2022 ha assoggettato al rito unitario in materia di persone, minorenni e famiglie, di cui al titolo IV bis del secondo libro del c.p.c., anche le azioni di stato. Trovano in oggi pertanto applicazione le norme di cui agli artt. 473-bis ss. c.p.c.; la domanda si propone non più con atto di citazione, bensì con ricorso. Quanto alla competenza territoriale, occorre aver riguardo all'art. 473-bis.11 c.p.c.: in tutti i procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che riguardano un minore, è competente il tribunale del luogo dell'ultima residenza abituale del minore stesso. Viene così sancito il principio di prossimità tra il giudice e il minorenne, già utilizzato nei procedimenti riguardanti la regolamentazione circa l'affidamento e il mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio. La previsione in questione trova corrispondenza anche nell'art. 9, Reg. UE 25 giugno 2019, n. 2019/1111 Da quanto sopra consegue che le azioni di stato, promosse nell'interesse di un minore, ovvero nei confronti di un minore, dovranno essere radicate nel luogo di residenza abituale di costui. La nozione di “residenza abituale” è di origine comunitaria ed è stata ampiamente sviluppata nella giurisprudenza della Corte di giustizia di Lussemburgo prima che di quella interna, specie in fattispecie di sottrazione internazionale di minore. La “residenza abituale” consiste in buona sostanza nel luogo dove il minore trova e riconosce, anche grazie a una permanenza tendenzialmente stabile, il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, originati dallo svolgersi della sua vita di relazione; ai fini del relativo accertamento, rilevano una serie di circostanze che vanno valutate in relazione alla peculiarità del caso concreto, quali ad es. la scuola frequentata, la presenza del medico di riferimento o del gruppo amicale; le certificazioni anagrafiche hanno un ruolo meramente indiziario. La competenza del Tribunale come sopra individuato permane per il periodo di un anno dopo che il minore sia stato trasferito in altro luogo senza il consenso di entrambi i genitori, ovvero dell'unico genitore esercente la responsabilità genitoriale (ci si trova di fronte a quello che si definisce come “trasferimento illecito”). In caso contrario, sarà competente il giudice della nuova residenza La competenza territoriale è inderogabile in forza del combinato disposto degli artt. 28 e 70 c.p.c. atteso che nelle azioni di stato l'intervento del pubblico ministero è imposto a pena di nullità Il decreto legislativo n. 164/2024 ha modificato l'art. 473-bis c.p.c., prevedendo espressamente che il rito unitario di cui al citato capo IV bis trovi applicazione anche alle domande di risarcimento del danno conseguente a violazione dei doveri familiari. Il correttivo ha così confermato che all'interno di un procedimento di stato possa essere introdotta una domanda risarcitoria di illecito endofamiliare che sia ad essa connessa; il principio peraltro era stato già affermato quando le azioni di stato dovevano essere introdotte con il rito contenzioso ordinario, ossia con lo stesso rito proprio delle cause di danno. In oggi, l'assoggettamento di entrambe le domande ad un rito unitario (se pur diverso da quello ordinario contenzioso) non può che condurre alle medesime conclusioni. Casistica
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