Azioni di statoFonte: Cod. Civ. Articolo 236
07 Maggio 2024
Inquadramento Con la locuzione “azioni di stato” si intende fare riferimento alle azioni giudiziali volte ad attribuire ad un soggetto lo status filiationis nei confronti di uno, ovvero di entrambi i genitori, piuttosto che ad espungere uno stato acquisito, ma non veritiero. Con il termine “stato”, a sua volta, il legislatore ha inteso fare riferimento al rapporto giuridico che lega un figlio ai suoi genitori e, in forza del vincolo di parentela, ai componenti del nucleo familiare di costoro; nel contempo, lo status filiationis è espressione riassuntiva per indicare l'insieme di diritti e doveri propri del figlio. Le azioni di stato sono tipiche, in conformità ad un elenco tassativo che l'ordinamento contempla; di esse si darà atto specificamente, differendo tra loro quanto all'oggetto, ai presupposti e ai soggetti legittimati. Tradizionalmente le azioni di stato sono strutturate sull'accertamento dell'esistenza o inesistenza di un vincolo di discendenza biologica (una volta rappresentato dal “sangue” ed ora dal DNA) tra coloro che si professano, rispettivamente, genitore e figlio. In questi ultimi tempi, peraltro, si sta valorizzando un tipo di genitorialità diverso rispetto a quello basato sulla genetica: genitori, e quindi figli, si può diventare in forza di un progetto e di un impegno a farsi carico di tutte le esigenze di un minore, anche al di fuori di un legame biologico. Si sviluppa quindi una genitorialità c.d. “sociale”, nella quale è il ruolo di assistenza e cura di un minore che può strutturare una relazione giuridicamente rilevante, in funzione del preminente interesse del minore stesso ad una crescita in un ambiente per lui accudente. L'esame delle azioni di stato non può esaurirsi nella specifica disciplina positiva, ma deve tenere conto necessariamente del supremo interesse del minore, criterio ispiratore di tutta la normativa, prima ancora che interna, convenzionale ed eurounitaria. Stato unico di filiazione L'art. 315 c.c., introdotto con l. n. 219/2012, prevede che «tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico». Seguendo l'esempio di altre legislazioni a noi vicine, il legislatore italiano ha superato la tradizionale distinzione dello status filiationis, a seconda che il concepimento fosse avvenuto o meno in costanza di matrimonio. Preme rammentare che la riforma del diritto di famiglia del 1975, sulla scorta dei precetti costituzionali, aveva già introdotto, da un lato, una sensibile modifica terminologica (“filiazione naturale”, in luogo dell'arcaica “filiazione illegittima”) e dall'altro realizzato una tendenziale equiparazione, dal punto di vista dei diritti, tra figli legittimi e figli naturali, quantomeno nella relazione con i loro genitori, a cominciare dall'eliminazione del divieto di riconoscimento dei figli c.d. “adulterini”. Sta di fatto che quella riforma aveva mantenuto il dualismo dello status e con esso il primato della filiazione legittima su quella naturale, confortata anche dall'art. 30 Cost., che assicura ai figli nati fuori del matrimonio «ogni tutela giuridica e sociale compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima». Il favor legislativo (se pur ridimensionatosi) nei confronti della filiazione legittima giustificava così l'istituto della legittimazione, avente funzione premiale: il figlio naturale, una volta legittimato, acquistava infatti uno status del tutto identico a quello del figlio legittimo. La presenza nel nostro ordinamento di norme che contemplavano un differente regime, a seconda delle categorie di figli, in funzione dell'esistenza o meno di un matrimonio tra i genitori, strideva peraltro sia con il precetto di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost., sia con gli obblighi assunti dall'Italia in sede internazionale. Si deve richiamare in primo luogo l'art. 21 della Carta di Nizza, vincolante per gli Stati membri dell'Unione europea a seguito del Trattato di Lisbona, ove è vietata ogni discriminazione fondata, fra l'altro, sulla nascita; per parte sua la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), pur non contemplando misure specifiche in tema di filiazione, all'art. 8 protegge la vita privata e familiare, e all'art. 14 pone il divieto di qualsiasi discriminazione. La l. n. 219/2012ha completato il percorso segnato dalla Costituzione e dai documenti internazionali citati, con l'introduzione dello status unico della filiazione, tanto che è scomparsa (anche a seguito del d.lgs. n. 154/2013e del d.P.R. 30 gennaio 2015, n. 26) ogni distinzione terminologica fra figli legittimi e naturali, dovendosi fare riferimento solo ai “figli” tout court, ovvero, se necessario, ai figli nati nel o fuori del matrimonio. Coerentemente è stato abrogato l'istituto della legittimazione, ormai privo di significato. Criteri di attribuzione dello stato L'esistenza di un matrimonio fra i genitori continua a mantenere la sua rilevanza ai fini dell'attribuzione dello status dei figli: il concepimento, come pure la nascita del figlio in costanza di matrimonio, insieme con l'operare della presunzione di maternità, legittimano, salvo contraria dichiarazione, la formazione di un atto di nascita quale figlio matrimoniale (e conseguente attribuzione automatica dello stato di figlio nato nel matrimonio). Di contro se il concepimento e la successiva nascita, avvengono al di fuori del matrimonio, lo status filiationis continua ad essere acquisito, in forza di atto di riconoscimento da parte di uno (o entrambi i genitori), ovvero dell'azione di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità. In altri termini, il matrimonio continua ancora ad incidere sull'attribuzione dello status, con la previsione che, comunque, i figli hanno gli stessi diritti e doveri, a prescindere dalle circostanze che hanno accompagnato il concepimento o la nascita. L'equiparazione dello status non significa, dunque, equiparazione dei criteri attributivi dello status stesso; il matrimonio mantiene tutta la sua rilevanza quale strumento volto, di regola, ad attribuire ai figli nati dalla moglie lo status di figli coniugali, con attribuzione della paternità al marito della madre (fatto salvo il diritto della donna coniugata, ai sensi dell'art. 250 c.c., di dichiarare che il figlio è stato concepito con persona diversa dal marito); ciò però non assurge ad elemento di discriminazione, capace di incrinare la raggiunta unicità dello stato di filiazione. La mancanza di un vincolo formale non poteva giustificare l'estensione della regola anche al convivente della madre. Nel contempo è stato “sdoganato” lo stretto rapporto esistente tra matrimonio e parentela, a fronte del nuovo testo dell'art. 74 c.c., che valorizza la nozione biologica di parentela, come legame di persone che discendono da un medesimo stipite, a prescindere dal matrimonio tra i genitori. In altri termini, il matrimonio non si configura più come fattore di differenziazione del rapporto giuridico intercorrente fra figli, genitori e parenti di questi ultimi, che, per l'appunto è stato unificato. Titolo di stato Anche dopo la riforma della filiazione, attuata con l. n. 219/2012 e d.lgs. n. 154/2013, vige il principio per cui la formazione di un titolo (ossia l'atto di nascita) è sempre necessaria perché possa parlarsi di stato di filiazione. Così dispone l'art. 236 c.c., che pure fa riferimento alle prove della filiazione. Il differente sistema di formazione del titolo di stato ha un notevole significato sostanziale: ancora oggi, l'ordinamento dispone che il titolo di stato del figlio matrimoniale si formi d'ufficio, mentre lascia agli interessati la formazione del corrispondente titolo di figlio nato fuori del matrimonio. In mancanza di un atto di nascita, la filiazione può essere provata con il possesso continuo dello stato di figlio; prima della recente riforma, la prova della filiazione nei termini suddetti riguardava solo quella “legittima”; ciò nel presupposto che l'atto di nascita provasse legalmente tutti gli elementi che lo costituivano: maternità, matrimonio, concepimento in costanza di matrimonio e paternità. Le azioni di stato dopo la riforma. Classificazione Rimasta inalterata la disciplina dell'attribuzione dello stato, a seconda che la nascita sia avvenuta all'interno o al di fuori del matrimonio, si rende necessario esaminare la nuova regolamentazione delle azioni di stato. Ovviamente, dopo la riforma del 2012/2013, non è più prospettabile, quantomeno sul piano della terminologia, la contrapposizione fra azioni di stato legittimo (che in precedenza avevano ad oggetto il conseguimento o la perdita dello stato di figlio legittimo) e azioni di stato riferite alla filiazione naturale. Tuttavia, benché sia venuta meno ogni espressa qualificazione delle singole azioni in base ai presupposti della filiazione, la predetta dicotomia nella sostanza perdura. Infatti continuano ad essere in concreto riferibili alla prima categoria e, dunque, esercitabili in caso di filiazione matrimoniale, le azioni di disconoscimento della paternità, di reclamo e di contestazione dello stato di figlio; per la filiazione fuori del matrimonio, saranno operative invece le azioni di dichiarazione giudiziale di genitorialità e di impugnativa del riconoscimento. In dottrina si discute peraltro se l'azione di contestazione dello stato possa riguardare anche la filiazione nata fuori del matrimonio. Al riguardo dunque non può che riproporsi l'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale precedente. La sistematica del codice non brilla peraltro oggi per coerenza: il capo III del Titolo VII del primo Libro del codice civile è infatti rubricato «Dell'azione di disconoscimento e delle azioni di contestazione e di reclamo dello stato di figlio» (artt. 243-bis - 249 c.c.); i presupposti dell'azione di reclamo e di quella di contestazione sono invece contemplati negli artt. 238 c.c. («Irreclamabilità di uno stato di figlio contrario a quello attribuito dall'atto di nascita»), art. 239 c.c. («Reclamo dello stato di figlio»), art. 240 c.c. («Contestazione dello stato di figlio»),tutti inseriti nel capo II, rubricato «Delle prove della filiazione».La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità si trova disciplinata negli artt. 269 -278 c.c., contenuti nell'omonimo capo V, ed infine quella di impugnativa del riconoscimento negli artt. 263 – 268 c.c., contenuti bel capo IV, rubricato «Del riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio». Pare dunque opportuno, per ogni singola azione che si intendesse esperire, andare a ricercarne la specifica disciplina. In questi anni si assiste sempre più all'emersione del desiderio di genitorialità nelle coppie dello stesso sesso, fisiologicamente impossibilitate a procreare. Diverse sono le tecniche con le quali questo desiderio condiviso può essere realizzato, in ragione del genere degli aspiranti genitori. Occorre peraltro premettere che la l. 40/2004 ammette alla procreazione assistita (anche eterologa, dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 162/2014) solo le coppie di persone di sesso diverso, coniugate o conviventi (art. 5) e che è penalmente vietato il ricorso alla surrogazione di maternità (art. 12). Da tanto consegue come le coppie italiane same sex debbano rivolgersi necessariamente a strutture di Paesi stranieri. Più specificamente, nella coppia femminile si procederà alla fecondazione in vitro di ovocita di una delle due donne con seme di donatore anonimo e al successivo impianto dell'embrione così formato in utero: ovviamente, questa tecnica può soddisfare il desiderio di maternità anche della donna single (pure eterosessuale), senza alcuna condivisione di un progetto riproduttivo con altra persona; per rafforzare invece un sussistente progetto, una delle due donne può mettere a disposizione un proprio ovocita, che, dopo la fecondazione, verrà impiantato nell'utero dell'altra, che affronterà la gravidanza e poi partorirà. Se il parto dovesse avvenire all'estero, ben potrebbe essere formato un atto di nascita, indicante una doppia maternità, se previsto dalla legge del posto, idoneo alla trascrizione nei registri dello stato civile italiano, come affermato dalla Corte di Cassazione. Se invece il parto avvenisse in Italia, l'attribuzione della maternità sarebbe da attribuire alla sola partoriente, anche in difetto di legame genetico con il nato, giusta il disposto del richiamato art. 269 c.c.. Più complessa è la situazione per la coppia maschile, che dovrà necessariamente ricorrere alla surrogazione di maternità (o gestazione per altri), che diversi ordinamenti (tra i quali quelli di alcuni Stati del Canada e dell'America) disciplinano in modo rigoroso: il seme di uno dei due uomini verrà utilizzato per fecondare l'ovocita di donna anonima e l'embrione verrà poi impiantato nell'utero di una diversa donna, la c.d. madre portante. Dopo il parto costei non figurerà nell'atto di nascita, che riporterà invece solo la paternità; è prevista poi sovente dalle leggi locali una possibile integrazione dell'atto con le generalità del compagno del genitore biologico. Il nato acquisirà dunque una doppia paternità, che non potrà essere però riconosciuta in Italia, stante l'affermata contrarietà all'ordine pubblico dell'atto di stato civile, in ragione delle modalità con cui era avvenuto il concepimento. La giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che l'unico strumento per riconoscere un rapporto di filiazione con il genitore d'intenzione (donna o uomo che sia) è il ricorso all'adozione in casi particolari ex art. 44 l. 184/1983. Sta di fatto che negli anni diversi Comuni italiani hanno ritenuto di poter formare atti di nascita di figli nati in Italia da coppie dello stesso sesso, ammettendo anche il riconoscimento da parte del genitore intenzionale ex art. 250 c.c. (Cfr. Trib. Brescia 16 febbraio 2023, nota di I. Parisi, Doppia maternità e rettifica dell'atto di nascita con indicazione della madre intenzionale: il Tribunale di Brescia dice sì ancora una volta, in Ius Famiglie che ha dichiarato illegittimo il rifiuto avanzato dall'ufficiale di stato civile). In questi ultimi tempi, a fronte di una rigorosa presa di posizione da parte del Ministro dell'interno, si è assistito, da parte delle Procure, a numerose richieste di rettifica di tali atti, per lo più frutto di progetti genitoriali all'interno della coppia omoaffettiva femminile, invocando le specifiche norme di cui l d.P.R. 396/2000. Si è per lo più esclusa l'ammissibilità di tale procedimento, dovendosi se mai azionare, in sede contenziosa, specifica azione di stato (impugnazione del riconoscimento), per la quale la Procura, a differenza del Ministero, è priva di legittimazione. L'esperimento di detta azione ha condotto alla declaratoria di parziale nullità di atti di nascita, anche se qualche pronuncia è andata di contrario avviso, in nome del superiore interesse del minore. Per superare questa situazione di incertezza, si rende allora quantomai urgente una disciplina normativa in materia, che il Parlamento non ha ancora adottato, malgrado anche i fermi moniti della Corte costituzionale, di cui alle pronunce n. 32 e 33 del 2021, tanto che lo stesso Presidente della Consulta, nella sua relazione, ha di recente nuovamente sollecitato un intervento legislativo. Casistica
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