21 Settembre 2022

Il sistema della giustizia amministrativa è caratterizzato dal doppio grado del giudizio, che è generalizzato e vede nel Consiglio di Stato l'organo di ultimo grado, le cui sentenze sono impugnabili in Cassazione solo per motivi attinenti alla giurisdizione. Il Codice del processo amministrativo dedica il primo titolo del Libro III alle impugnazioni in generale e, in particolare, gli articoli da 100 a 105 sono dedicati all'appello.
Inquadramento

Contenuto in fase di aggiornamento autorale di prossima pubblicazione

I mezzi di impugnazione vanno distinti tra quelli ordinari, che impediscono il formarsi della cosa giudicata formale (appello, ricorso per cassazione e revocazione ordinaria) e mezzi di impugnazione straordinari, esperibili nei confronti di una sentenza passata in giudicato (opposizione di terzo e revocazione straordinaria).

Altra distinzione è quella tra mezzi di tipo eliminatorio, tendenti solo ad annullare la sentenza (revocazione e ricorso per cassazione) e mezzi rinnovatori, a seguito dei quali si svolge un completo riesame del giudizio (appello e opposizione di terzo).

Non costituisce un vero e proprio mezzo di impugnazione la procedura per la correzione degli errori materiali delle sentenze, disciplinata, infatti, nel libro II dall'art. 86 del Codice.

Il ricorso in appello al Consiglio di Stato è un mezzo di impugnazione ordinario, che preclude il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.

L'appello è caratterizzato dall'effetto devolutivo, che determina che il Consiglio di Stato riesamini l'intera controversia, ovviamente nei limiti di quanto devoluto (principio dispositivo) e del formarsi del giudicato interno (statuizione della sentenza di primo grado non oggetto di contenzioni in appello).

Pertanto, anche una omessa pronuncia del giudice di primo grado su un punto della controversia non ha effetti invalidanti sulla sentenza impugnata, ma comporta solo che la questione debba essere esaminata dal Consiglio di Stato.

Le impugnazioni in generale

Il Codice dedica il primo titolo del Libro III alle impugnazioni in generale.

Il termine per la notificazione di tutte le impugnazioni, salvo espresse norme speciali, è stabilito in 60 giorni decorrenti dalla notificazione della sentenza e, in difetto della notificazione della sentenza, in 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza.

Il termine per depositare le impugnazioni è di 30 giorni dall'ultima notificazione; un diverso termine di 10 giorni è previsto il deposito dell'impugnazione incidentale tardiva proposta ai sensi dell'art. 334 c.p.c.

Nelle cause inscindibili l'impugnazione deve essere notificata a tutte le parti in causa.

Per esigenza di economia processuale, come nel giudizio di primo grado, il giudice dell'impugnazione, quando ritiene l'impugnazione manifestamente priva di un presupposto processuale o manifestamente infondata, può pronunciare la sentenza che definisce la lite senza ordinare l'integrazione del contraddittorio nei confronti delle parti pretermesse che sarebbero interessate a contraddire.

Natura del giudizio di appello

L'effetto devolutivo dell'appello (mezzo di impugnazione ordinaria) lascia aperta la questione della natura rinnovatoria o eliminatoria di tale rimedio.

Secondo la giurisprudenza l'appello ha carattere di gravame e non di rimedio impugnatorio, con la conseguenza che l'eventuale carenza di motivazione della sentenza impugnata è di per sé irrilevante, risultando sufficiente dedurre l'erroneità della decisione perché l'intera materia del contendere passi all'esame del giudice di appello, fatti salvi i soli effetti del giudicato interno eventualmente formatosi sui capi autonomi della decisione che non abbiano formato oggetto di specifici motivi di impugnazione (Cons. Stato, sez. V, n. 1218/2001).

La tesi dell'appello quale mezzo di gravame a carattere rinnovatorio è sostenuta anche dalla prevalente dottrina (Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 2002, 338).

Ovviamente, anche seguendo tale tesi, l'effetto devolutivo opera nei limiti di quanto appunto devoluto al giudice di appello attraverso i motivi di ricorso, non potendo essere genericamente contestata l'erroneità della sentenza o semplicemente riprodotti i motivi proposti in primo grado (v. oltre).

Tale onere dell'appellante di investire puntualmente il «decisum» di prime cure ha condotto altra parte della giurisprudenza ad affermare il carattere impugnatorio dell'appello nel processo amministrativo, atteso che il giudizio di secondo grado non ha per oggetto il provvedimento impugnato in primo grado, ma la sentenza con la quale il ricorso è stato deciso (Cons. Stato, sez. V, n. 6243/2002).

Tale tesi trova supporto nell'art. 101, che prevede l'onere di formulare in sede di appello specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, anche se ciò non esclude di per sé il carattere rinnovatorio dell'appello nei limiti, come detto, di quanto devoluto al giudice di secondo grado con specifiche censure che rispettino il dettato dell'art. 101.

Del resto, in assenza di tale onere il giudizio di primo grado del processo amministrativo diventerebbe una sorta di passaggio obbligato che il soggetto è costretto suo malgrado a percorrere pur di giungere dinanzi al giudice d'appello e ottenere da questi la decisione finale sulla fondatezza della pretesa; così non è e il giudizio di primo grado costituisce una fase essenziale del processo amministrativo, nel corso della quale il giudice adito confronta le opposte tesi e dichiara quale va ritenuta fondata con statuizioni che devono essere oggetto di specifiche critiche e censure in sede di appello.

Interesse all'appello

Il ricorso in appello deve essere sostenuto da un interesse della parte ad ottenere la riforma anche parziale della sentenza di primo grado.

L'interesse al gravame deve sussistere non soltanto al momento della proposizione del ricorso in appello, ma anche a quello della decisione.

Deve ritenersi inammissibile, per difetto d'interesse, la domanda proposta in appello intesa ad ottenere una semplice rettifica della motivazione della sentenza di primo grado priva di effetti sostanziali; mentre il ricorrente vittorioso in primo grado non può ritenersi carente di interesse a proporre appello ove dalla riforma della sentenza non discendano mere rettifiche della sola motivazione bensì anche effetti sostanziali.

Non fa venire meno l'interesse all'appello l'adozione di atti da parte dell'amministrazione per sostituire il provvedimento annullato, al dichiarato fine di dare provvisoria esecuzione ad una pronuncia del Tar avverso la quale è contestualmente proposto gravame, in quanto tali atti non esprimono acquiescenza alla decisione di primo grado. L'efficacia di tali atti viene meno nel caso di eventuale riforma della decisione di primo grado all'esito del giudizio di appello.

Al contrario, costituisce acquiescenza alla sentenza di primo grado e rende inammissibile l'appello proposto contro la stessa l'attività dell'amministrazione che non si limiti alla mera esecuzione del comando proveniente dalla sentenza ma elimini dal mondo giuridico l'atto impugnato adottando, in sostituzione di quello impugnato, una nuova determinazione scevra dei vizi che avevano inficiato il primo.

L'acquiescenza espressa o tacita, contemplata dall' art. 329 c.p.c., opera come preclusione rispetto ad un'impugnazione non ancora proposta, mentre, ove questa sia già intervenuta, la volontà della parte soccombente di accettare la pronuncia del giudice può esprimersi solo mediante una espressa rinuncia all'impugnazione stessa, da compiersi nella forma prescritta dalla legge.

È stato anche aggiunto che l'appellante vittorioso, convenuto in primo grado, non ha interesse a contestare la sussistenza della giurisdizione, chiedendo una pronuncia che potenzialmente gli sarebbe più dannosa, imponendo una translatio davanti al giudice ordinario con conseguente riproponibilità della domanda e, quindi, un possibile esito diverso dell'azione di annullamento intrapresa dal ricorrente di primo grado (Cons. Stato, Sez. V, n. 745/2017). Vedi il commento all'art. 110.

Il contenuto del ricorso in appello

Il ricorso in appello deve contenere l'indicazione del ricorrente, del difensore, delle parti nei confronti delle quali è proposta l'impugnazione, della sentenza che si impugna, nonché l'esposizione sommaria dei fatti, le specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, le conclusioni, la sottoscrizione del ricorrente se sta in giudizio personalmente oppure del difensore con indicazione, in questo caso, della procura speciale rilasciata anche unitamente a quella per il giudizio di primo grado.

Anche alla luce del codice del processo amministrativo, è inammissibile l'appello cumulativamente proposto nei confronti di distinte sentenze (Cons. Stato, sez. V, n. 5554/2011; Cons. Stato, sez. IV, n. 6102/2011).

Tale orientamento, consolidatosi nel corso del tempo, è stato rimesso in discussione da Cons. Stato, sez. V, n. 5385/2018, con cui - sulla base di principi di economia processuale, della regola che impone l'applicazione delle norme del codice di rito, in quanto non incompatibili (art. 39) e della generale possibilità di cumulare domande connesse, prevista all'art. 32 c.p.a., da ritenersi operante anche in appello (art. 38) – è stato ritenuto ammissibile l'appello c.d. cumulativo a condizione che ricorra il requisito soggettivo della identità delle parti e quello oggettivo della comunanza delle questioni o della stretta connessione tra le cause (nel caso di specie, si trattava di impugnazione avverso sentenze pronunziate tra le stesse parti, in relazione alla medesima vicenda procedimentale, in distinta fase processuale, avendo parte appellante impugnato cumulativamente la sentenza revocanda e quella che definisce il giudizio di revocazione).

I motivi di appello

In conformità all' art. 342 c.p.c., l'art. 101 prevede che il ricorso in appello deve contenere specifiche censure contro i capi della sentenza gravata.

Il giudizio d'appello nel processo amministrativo non è un judicium novum e la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall'appellante, attraverso l'enunciazione di specifici motivi, specificità che esige che, alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, siano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza logicamente separabili dall'argomentazione che la sorregge, onde alla parte volitiva dell'appello deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal giudice di prime cure.

Tesi confermata dalla giurisprudenza anche dopo l'entrata in vigore del Codice: la parte appellante è obbligata a formulare specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, con conseguente inammissibilità di una mera riproduzione dei motivi di primo grado, atteso che l'appello non è un iudicium novum; tuttavia, il rispetto della suddetta prescrizione va commisurato alla specificità delle singole vicende processuali ed alla natura dei rilievi mossi dalla parte appellante alla pronuncia contro la quale insorge; in particolare, ove tali rilievi si traducano in un radicale dissenso rispetto al percorso motivazionale seguito dal primo giudice, al quale se ne contrappone uno totalmente alternativo, o, peggio, nell'affermazione del non avere il primo giudice dato realmente riscontro alle censure articolate in ricorso, è naturale che l'atto di impugnazione, pur avendo a proprio oggetto la decisione di primo grado, finisca per sollecitare al giudice di appello un vero e proprio riesame dei motivi originariamente formulati (Cons. Stato, Sez. III, n. 749/2016).

È, quindi, inammissibile il motivo d'appello che si limiti alla mera riproposizione delle doglianze a suo tempo proposte in primo grado, senza svolgere alcuna censura sulla sentenza appellata.

Parimenti è inammissibile l'appello avverso un sentenza che si sorregge su una pluralità di motivi ognuno dei quali è da solo in grado di sostenerla perché fondato su specifici presupposti logico giuridici e l'appellante abbia omesso di contrastarli tutti.

Il principio del limitato effetto devolutivo dell'appello esige che con l'atto di impugnazione vengano specificamente criticate tutte le parti della decisione riferibili alle questioni relative ad ognuna delle domande e che l'omessa esplicita contestazione con l'appello di una o più capi implica, in applicazione dell' art. 329 comma 2 c.p.c. l'acquiescenza alle parti non impugnate.

In sostanza, l'appello deve svolgere una critica della decisione gravata senza limitarsi alla mera riedizione degli originari motivi, disattesi, nel merito, dal giudice di primo grado, sicché l'appello che non specifichi alcuna censura specifica alla sentenza impugnata è inammissibile.

Il rispetto dell'onere di formulare specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, con la conseguente inammissibilità di una mera riproduzione dei motivi di doglianza di primo grado, va commisurato alla specificità delle singole vicende processuali ed alla natura dei rilievi mossi dalla parte appellante alla pronuncia contro la quale insorge; in particolare, ove tali rilievi si traducano in un radicale dissenso rispetto al percorso motivazionale seguito dal primo giudice, al quale se ne contrappone uno totalmente alternativo, o, peggio, nell'affermazione del non avere il primo giudice dato realmente riscontro alle censure articolate in ricorso, è naturale che l'atto di impugnazione, pur avendo a proprio oggetto la decisione di prime cure, finisca per sollecitare al giudice di appello un vero e proprio riesame dei motivi originariamente formulati (Cons. Stato, Sez. VI, n. 1298/2015).

La giurisprudenza ha interpretato in modo rigoroso l'obbligo di indicare specifiche censure contro i capi della sentenza gravati, ritenendo che il mancato assolvimento di tale onere implica l'inammissibilità dell'appello e che l'appellante non può limitarsi ad invocare la riforma della sentenza di primo grado, esponendo una propria ricostruzione giuridica, che non passi attraverso una critica puntuale della motivazione della pronuncia di prime cure (Cons. Stato, Sez. VI, n. 1589/2017; Cons. Stato, Sez. IV, n. 3766/2017). L'oggetto del giudizio di appello è costituito da quest'ultimo decisum, e non dal provvedimento gravato in primo grado e, pertanto, l'assolvimento dell'onere esige la deduzione di specifici motivi di contestazione della correttezza del percorso argomentativo che ha fondato la decisione appellata (Cons. giust. amm. Reg. Sic., n. 364/2017; Cons. Stato, sez. V, n. 2015/2015).

Nel processo amministrativo l'inammissibilità dei motivi di appello non consegue solo al difetto di specificità di cui all'art. 101, comma 1, ma – come imposto dall'art. 40 c.p.a., applicabile a giudizi di impugnazione in forza del rinvio interno operato dall'art. 38 c.p.a. – anche alla loro mancata distinta ;indicazione in apposita parte del ricorso a loro dedicata (giurisprudenza consolidata (Cons. Stato, Sez. IV, n. 4636/2016; Cons. Stato, Sez. IV, n. 4659/2017).

Il regime delle prove e delle eccezioni in appello

Con riferimento al regime delle prove in appello, già sulla base della disciplina previgente nel processo amministrativo in appello non era consentita la proposizione di domande nuove (divieto ius novorum), né di eccezioni nuove (tranne quelle rilevabili di ufficio su cui non si è formato il giudicato interno), mentre per le nuove prove si riteneva ormai applicabile l'art. 345 c.p.c.

Era stato, in particolare, rilevato che l'art. 345 comma 2 c.p.c. è applicabile al processo amministrativo, per cui la prescrizione del credito di lavoro del pubblico dipendente non può essere eccepita, per la prima volta, in appello dalla pubblica amministrazione, non valendo il rilievo che non può incorrere in preclusioni la parte che persegua interessi pubblici sia perché si avallerebbe una evidente disparità di trattamento, sia perché l'art. 2938 c.c. — che vieta al giudice di rilevare la prescrizione non opposta ed alla parte, quindi, di eccepirla per la prima volta in appello — è norma di carattere generale riguardante anche i crediti di lavoro del dipendente pubblico quale posizione di diritto soggettivo, specie a seguito della intervenuta privatizzazione del rapporto di pubblico impiego (Cons. Stato, Ad. plen., 29 dicembre 2004, n. 14).

Il Codice ha consolidato tale processo di avvicinamento tra giudizio amministrativo e processo civile, disponendo espressamente che al processo amministrativo di appello si applicano regole processualcivilistiche.

Con riferimento alle eccezioni rilevabili d'ufficio è stato ribadito che sussiste il potere del giudice di appello di rilevare ex officio la esistenza dei presupposti e delle condizioni per la proposizione del ricorso di primo grado (con particolare riguardo alla condizione rappresentata dalla tempestività del ricorso medesimo), non potendo ritenersi che sul punto si possa formare un giudicato implicito, preclusivo alla deduzione officiosa della questione (Cons. Stato, Ad. Plen., n. 4/2018, che ha quindi optato per la non applicabilità del principio del giudicato implicito in tema di giurisdizione, su cui v. oltre il par. 8.4).

La disciplina sull'ammissione di nuovi mezzi di prova e sulla produzione di nuovi documenti è, quindi, conforme a quella dell'art. 345, comma 3, c.p.c. (vigente al momento di entrata in vigore del Codice): non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.

Al riguardo, la giurisprudenza ha precisato che nel processo amministrativo opera il divieto dello ius novorum sancito dall'art. 345 c.p.c. nella sua interezza, compreso il divieto di nuove produzioni documentali secondo l'interpretazione fornita da Cass. civ., Sez. Un., 20 aprile 2005, nn. 8202 e 8203, per cui il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello riguarda anche le prove cc.dd. precostituite, quali i documenti, la cui produzione è subordinata, al pari delle prove cc.dd. costituende, alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile, che abbia impedito alla parte di esibirli in primo grado, ovvero alla valutazione della loro indispensabilità.

Va rilevato che l'art. 345 c.p.c. è stato modificato in senso ulteriormente restrittivo per l'ammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello a seguito dell'emanazione del d.l. 22 giugno 2012, n. 83 che, limitando l'attività istruttoria in fase di appello civile, ha precluso la possibilità di acquisire nuove prove reputate indispensabili dal collegio ai fini della decisione.

Tale modifica, tuttavia, non si riverbera sul processo amministrativo, in quanto l'art. 104, pur ricalcando il contenuto del previgente art. 345 c.p.c., contiene una autonoma ed espressa disciplina delle nuove prove in appello senza richiamare l'art. 345 c.p.c., la cui novella risulta quindi ininfluente nel processo amministrativo.

Motivi aggiunti in appello

Una deroga alla ammissibilità di nuove domande in appello è costituita dalla riconosciuta ammissibilità della proposizione in tale sede di motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado, da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi già impugnati.

Si risolve così una questione su cui non vi era unanimità in giurisprudenza e i motivi aggiunti in appello possono essere proposti solo per contestare sotto nuovi profili atti già impugnati, ma non anche per impugnare nuovi atti; in tal senso deve essere inteso il riferimento ai “vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati”.

Ovviamente, i motivi aggiunti sono ammissibili solo se il vizio è emerso a seguito della conoscenza di documenti non prodotti in primo grado.

Rinvio in primo grado

Infine, va rilevato che in caso di riforma di una sentenza del TAR sotto il profilo della giurisdizione o per un errore di procedura (ad es., omessa integrazione del contraddittorio), l'appello diventa un mezzo di tipo eliminatorio, limitandosi il giudice ad annullare la sentenza di primo grado (con o senza rinvio); mentre negli altri casi era stato finora ritenuto un mezzo di gravame di tipo rinnovatorio (anche in ipotesi in cui il Tar abbia erroneamente dichiarato irricevibile o inammissibile il ricorso per profili non attinenti alla giurisdizione, il Consiglio di Stato decideva nel merito la controversia, senza la necessità di un ritorno in primo grado, benché il merito della questione venga in questo modo affrontato solo in appello).

A seguito di alcune decisioni di segno diverso tendenti ad ampliare le ipotesi di rinvio al giudice di primo grado è intervenuta la Adunanza Plenaria, che ha confermato l'orientamento tradizionale, secondo cui le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall'art. 105 hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive con la conseguenza che l'erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado non costituisce, di per sé, un caso di annullamento con rinvio, in quanto la chiusura in rito del processo, per quanto erronea, non determina, ove la questione pregiudiziale sia stato oggetto di dibattitto processuale, la lesione del diritto di difesa, né tanto meno un caso di nullità della sentenza o di rifiuto di giurisdizione (Cons. Stato, Ad. Plen. n. 10/2018, n. 11/2018, n. 14/2018 e n. 15/2018, secondo cui anche la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, pure quando si sia tradotta nella mancanza totale di pronuncia da parte del giudice di primo grado su una delle domande del ricorrente, non costituisce un'ipotesi di annullamento con rinvio). Secondo le stesse pronunce, costituisce invece un'ipotesi di nullità della sentenza che giustifica l'annullamento con rinvio al giudice di primo grado il difetto assoluto di motivazione. Esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica oppure obiettivamente incomprensibile: quando, cioè, le anomalie argomentative sono di gravità tale da collocare la motivazione al di sotto del “minimo costituzionale” di cui all'art. 111, comma 5, Cost.

Altro corollario della statuizione della Plenaria è che la disciplina dei rapporti tra giudice di primo grado e giudice d'appello ha natura indisponibile, il che implica che, fermo restando l'onere di articolare specifici motivi di appello e il generale principio di conversione della nullità in motivi di impugnazione, nei casi di cui all'art. 105, il giudice d'appello deve procedere all'annullamento con rinvio anche se la parte omette di farne esplicita richiesta o chiede espressamente che la causa sia direttamente decisa in secondo grado.

L'appello incidentale

Quando l'appellato, pur vincendo il ricorso, risulta soccombente su alcune statuizioni della sentenza del Tar (ad es., con cui si respingono determinate eccezioni), la devoluzione di tali questioni al giudice di appello richiede l'appello incidentale.

Si tratta in questo caso dell'appello incidentale proprio, subordinato e diretto a contestare lo stesso capo della sentenza gravata o un capo connesso; mentre l'appello incidentale improprio è costituito da un appello sostanzialmente autonomo, il cui esame non è subordinato alle sorti dell'appello principale (va tenuto presente che dopo la prima impugnazione, le altre devono essere proposte nello stesso giudizio con la forma dell'appello incidentale, anche se l'eventuale proposizione di un autonomo ricorso comporta solo la necessità di procedere alla riunione dei giudizi).

In caso di più impugnazioni avverso la stessa sentenza, infatti, costituisce principio pacifico quello secondo cui ai sensi dell'art. 333 c.p.c., applicabile anche al giudizio amministrativo, la parte che abbia ricevuto la notificazione dell'appello proposto contro una sentenza ha l'onere di impugnarla in via incidentale se voglia evitare di incorrere nella decadenza nell'ipotesi di mancata riunione dei giudizi, ma ciò non preclude alla parte stessa di proporre un'impugnazione in forma autonoma.

Di conseguenza, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza debbono essere riunite in un solo processo.

In caso di mancata riunione, era stato ritenuto che ciò non incideva sulla validità della pronuncia relativa al primo ricorso, ma rendeva improcedibili gli altri, atteso che, risultando ormai impossibile il simultaneo processo, si verificava un impedimento all'esame di ulteriori gravami, in ragione della decadenza con la quale l'art. 333 c.p.c., sanziona la prescrizione dell'incidentalità delle impugnazioni successive alla prima.

Il Codice ha previsto che in caso di mancata riunione di più impugnazioni ritualmente proposte contro la stessa sentenza, la decisione di una delle impugnazioni non determina l'improcedibilità delle altre.

Il Codice risolve un precedente contrasto di giurisprudenza sul c.d. appello incidentale tardivo, non ammesso dalla prevalente giurisprudenza amministrativa avverso capi autonomi dell'impugnata sentenza.

In precedenza, se una parte riceveva l'ultimo giorno utile la notificazione di una impugnazione avverso una sentenza che la aveva vista soccombente solo per alcuni profili, distinti da quello oggetto dell'impugnazione, poteva proporre appello incidentale tardivo solo avverso lo stesso capo di sentenza oggetto dell'impugnazione principale, ma non avverso capi diversi.

Il Codice ha previsto che l'impugnazione incidentale tardiva, conformemente alla sua natura di “ritorsione”, sia ammessa anche contro capi autonomi della sentenza: essa però, secondo la disciplina propria dell'impugnazione incidentale tardiva, perde efficacia se l'impugnazione principale è dichiarata inammissibile.

In sostanza, quindi, con l'impugnazione incidentale proposta ai sensi dell'articolo 334 del codice di procedura civile possono essere impugnati anche capi autonomi della sentenza e l'impugnazione tardiva deve essere proposta dalla parte entro sessanta giorni dalla data in cui si è perfezionata nei suoi confronti la notificazione dell'impugnazione principale e depositata, unitamente alla prova dell'avvenuta notificazione, entro dieci giorni.

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