Revocazione
21 Settembre 2022
Inquadramento
Contenuto in fase di aggiornamento autorale di prossima pubblicazione
Nel processo amministrativo le norme applicabili sono quelle del c.p.c.(artt. 395 e 396 c.p.c.) e le cause di revocazione sono, dunque: dolo di una parte; sentenza emessa sulla base di prove riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza; ritrovamento di uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario; errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa (vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare); sentenza contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione; sentenza effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato. Si è in presenza di revocazione ordinaria quando la richiesta riguarda una sentenza non ancora passata in giudicato, mentre la revocazione è straordinaria in caso di sentenza passata in giudicato. La revocazione ordinaria è ammessa nei casi di cui ai nn. 4 e 5 dell'art. 395 c.p.c. (errore di fatto e contraddittorietà con un precedente giudicato), mentre la revocazione straordinaria nelle altre ipotesi di cui ai nn. 1, 2, 3, 6 dell'art. 395 c.p.c. quando è scaduto il termine per l'appello (termine che è prorogato se durante il suo corso sopravviene un motivo di revocazione straordinaria). La differenza tra revocazione ordinaria e revocazione straordinaria dipende dal fatto che la revocazione ordinaria inerisce ad aspetti immediatamente rilevabili da una lettura della sentenza (c.d. «motivi palesi»), con la conseguenza che non è giustificato ammettere che tale strumento impugnatorio prevalga sulla definitività del giudicato; al contrario, poiché la revocazione straordinaria si incentra su motivi estrinseci alla sentenza (c.d. «motivi occulti»), non immediatamente rilevabili, si giustifica la possibilità di far rilevare tali vizi anche oltre la definitività della sentenza (Fazzalari, Revocazione, in Enc. dir., XL, Milano, 1989,294). Si ricorda che la sentenza passa in giudicato quando contro di essa non siano esperibili gli ordinari mezzi di impugnazione (appello, ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, revocazione ordinaria nei casi previsti da nn. 4 e 5 dell'art. 395 c.p.c.). Tale stato di immodificabilità non è appunto assoluto, in quanto le sentenze passate in cosa giudicata formale possono essere impugnate con i mezzi di impugnazione straordinari (revocazione per i motivi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6, revocazione del pubblico ministero ex art. 397, opposizione di terzo); tuttavia, l'esperibilità di tali gravami straordinari non impedisce il passaggio in giudicato. Deve ritenersi che non sussista alcun rapporto di pregiudizialità tra il giudizio di revocazione e quello di ottemperanza, che peraltro è possibile sulla base dell'art. 112 anche per le sentenze non definitive emesse dal giudice amministrativo; il problema può porsi in termini diversi per il giudizio di ottemperanza per sentenze di altre giurisdizioni: in quanto caso l'art. 112 richiede il giudicato e la pendenza di un giudizio di revocazione straordinaria, che non impedisce il formarsi del giudicato, potrebbe essere ritenuto pregiudiziale rispetto al giudizio di ottemperanza. Al processo amministrativo si applica sia la revocazione straordinaria che quella ordinaria e ciò costituiva dato pacifico anche prima dell'entrata in vigore del Codice, nonostante l'art. 36 legge Tar citasse la revocazione nei confronti delle decisioni del Consiglio di Stato solo con riferimento all' art. 396 c.p.c. (e dunque con riferimento alla revocazione straordinaria). Con la finalità di ampliare le ipotesi di revocazione, è stata sollevata una questione di costituzionalità, in relazione agli artt. 117 comma 1, 111 e 24 della Costituzione, delle disposizioni processuali che non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Cedu (Cons. St.Ad. plen., n. 2/2015). La Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 106 del Codice e degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, par. 1, della Cedu, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte cost. n. 123/2017). A seguito di tale sentenza il Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione, in quanto proposto per una ipotesi non contemplata dall' ordinamento giuridico, considerato che, attesa la loro eccezionalità, i casi di revocazione della sentenza, tassativamente previsti dall'art. 395 c.p.c. sono di stretta interpretazione, ai sensi dell'art. 14 delle preleggi (Cons. St. Ad. Plen., n. 12/2017, che ha anche escluso la rilevanza nel giudizio di revocazione di una questione di costituzionalità sollevata con riferimento al merito del giudizio concluso con la sentenza di cui si chiede la revocazione, in quanto la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma rileva anche nei processi in corso, ma non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi, in quanto la retroattività degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità incontra un limite negli effetti che la stessa, ancorché successivamente rimossa dall'ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto qualora resi intangibili dalla preclusione nascente o dall'esaurimento dello specifico rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta dall'ordinamento giuridico oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze ovvero, ancora, dalla formazione del giudicato; l'astratta esperibilità della revocazione straordinaria o la mera proposizione della relativa domanda avverso le sentenze passate in giudicato, laddove non seguita dalla pronuncia rescindente di revocazione”, non incide sul giudicato formatosi). In un precedente la Consulta aveva preso una decisione diversa in una fattispecie avente ad oggetto la possibile revisione di un processo penale a seguito di una pronuncia della Corte Edu, dichiarando costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 117, comma 1, Cost. in relazione all' art. 46, par. 1, Cedu, l'art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo» (Corte cost. n. 113/2011). I principi affermati in ambito penalistico erano stati comunque limitati ai casi in cui i soggetti interessati, una volta esauriti i ricorsi interni, si erano rivolti al sistema di giustizia della Cedu e non erano stati estesi a coloro che, al contrario, non si erano avvalsi di tale facoltà, con la conseguenza che la loro vicenda processuale, definita ormai con la formazione del giudicato, non è più suscettibile del rimedio convenzionale» (Corte cost. n. 210/2013). L'ampliamento dei casi di revocazione civile ed amministrativa è escluso, in quanto nei processi civili e amministrativi non è in gioco la libertà personale e non vi è quindi un obbligo di riapertura del processo. Decisioni revocabili
Possono essere oggetto di revocazione tutte le sentenze, comprese quelle della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. È stata ammessa la revocazione anche avverso i decreti del Presidente della Repubblica che decidono i ricorsi straordinari al Capo dello Stato ai sensi dell'art. 15, d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, secondo il procedimento indicato in tale testo normativo (Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., n. 37/2015); avverso le ordinanze cautelari (Cons. St.Ad. plen., n. 1/1978; Cons. St. IV, n. 2707/2007); avverso l'ordinanza di rigetto dell'opposizione al decreto di perenzione (Cons. St. IV, n. 6237/2004) ed avverso tutte le decisioni che hanno sostanzialmente natura di sentenza. L' art. 395, comma 1, n. 1), c.p.c. prevede la revocabilità delle sentenze se sono l'effetto del dolo di una delle parti in danno dell'altra. Ricorre l'ipotesi di revocazione di una sentenza passata in giudicato per «dolo di una delle parti in danno dell'altra», di cui all' art. 395 n. 1 c.p.c., allorquando si sia realizzata un'attività deliberatamente fraudolenta, concretatasi in artifici e raggiri, idonea a paralizzare o sviare la difesa avversaria e ad impedire al giudice l'accertamento della verità, non essendo sufficiente la semplice allegazione di fatti non veritieri favorevoli alla propria tesi difensiva e/o la mera violazione del dovere di lealtà e probità, di cui all' art. 88 c.p.c. Il dolo processuale, quale motivo di revocazione della sentenza presuppone un comportamento artificioso e scorretto, subiettivamente diretto ed obiettivamente idoneo ad ostacolare la difesa avversaria o ad impedire al giudice l'accertamento della verità, violando il principio di lealtà cui si è tenuti durante il processo, Cons. St. II, n. 1155/2002, dove si precisa che questi requisiti sono ravvisabili anche nel mendacio o nel silenzio su fatti decisivi della causa. Cons. St. VI, n. 718/1989. Non è idonea a realizzare la fattispecie di cui all' art. 395 n. 1 c.p.c. la semplice allegazione di fatti non veritieri, favorevoli alla propria tesi, o l'avvenuto deposito di documenti attraverso la stessa Amministrazione piuttosto che tramite il difensore di quest'ultima (Cons. St. VI, n. 3228/2002). La falsità delle dichiarazioni rese in giudizio non configura il dolo processuale, ma un semplice mendacio irrilevante ai fini dell'ammissibilità del giudizio di revocazione (Cons. St. V, n. 117/1994; Cons. St. IV, n. 546/1996). La mancanza della prescritta abilitazione professionale del difensore o la falsità della sottoscrizione di quest'ultimo non sono validi motivi di revocazione della sentenza, in quanto tutti i motivi di revocazione straordinaria previsti dall' art. 395 c.p.c. sono diretti a garantire la genuinità della decisione e non a fornire un rimedio tardivo contro le irregolarità processuali (Cons. St. V, n. 312/1988). Prove riconosciute o dichiarate false
L'art. 395, comma 1, n. 2), c.p.c. prevede la revocabilità delle sentenze se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza. Solo la falsità non rilevata prima della sentenza revocanda consente la revocazione, mentre qualora la falsità sia riscontrata in corso di processo, essa dovrà essere ivi rilevata e non potrà essere alla base di una futura revocazione. È necessario che la falsità sia stata determinante sulla decisione nel senso che la sentenza sarebbe diversa se il giudice ne avesse conosciuto la falsità» (Cons. Stato, sez. V, n. 990/1993); al momento dell'instaurazione del giudizio la sentenza dichiarativa della falsità delle prove debba essere irrevocabile (Cons. Stato, sez. IV, n. 406/1990; Cass. sez. lav., n. 9834/2002; Cass. I, n. 8650/1998). Ritrovamento di documenti decisivi
L'art. 395, comma 1, n. 3), c.p.c. prevede la revocabilità delle sentenze se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario. La decisività del documento ritrovato non è di per sé sufficiente a dare ingresso al giudizio di revocazione ma è altresì necessario che si tratti di un documento che non era potuto essere prodotto in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario, ed incombe al ricorrente sia l'onere di provare tali circostanze che quello di provare la data di ritrovamento del documento stesso; né è sufficiente un generico accenno al rinvenimento dei documenti dopo la sentenza, ma è necessario indicare quali indagini siano state esperite per il ritrovamento, al fine di consentire la valutazione della diligenza con la quale esse siano state compiute e, quindi, l'accertamento dell'assenza di colpa in cui si concreta il concetto di forza maggiore di cui all'art. 395, n. 3, ed è necessario altresì indicare la data del recupero del documento (Cons. St. V, n. 3909/2000). In tema di revocazione ai sensi dell' art. 395 n. 3 c.p.c. (ritrovamento di documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per fatto dell'avversario), il termine per proporre ricorso decorre dal giorno in cui l'interessato ha avuto notizia dell'esistenza del documento ritenuto decisivo, e non già dalla data di materiale apprensione del documento stesso; è comunque onere della parte indicare specificamente e, quindi, dimostrare la data di verificazione dell'evento cui si correla la proposizione del ricorso, con una prova che deve essere particolarmente rigorosa quando si tratta di documenti esistenti presso la P.A. ( Cons. St. IV, n. 2816/2006). Ricorre l'ipotesi di revocazione di una sentenza passata in giudicato prevista dall' art. 395 n. 3, c.p.c., per ritrovamento di un documento decisivo nel giudizio che non si era potuto produrre per causa di forza maggiore allorquando vi sia ignoranza incolpevole dell'esistenza del documento già esistente da parte del soggetto che non lo ha prodotto nel precedente giudizio, considerato che a tutte le parti processuali è richiesto un comportamento diligente al fine di meglio tutelare le proprie ragioni nell'ambito di un procedimento giurisdizionale, espressione dell'onere di attivarsi per dimostrare l'infondatezza del ricorso proposto, eseguendo tutte le indagini opportune, che possano provare l'inammissibilità o l'infondatezza della pretesa azionata, cioè volte all'acquisizione di documenti decisivi per l'esito della controversia ( T.A.R. Puglia (Lecce) II, n. 5366/2004). Errore di fatto revocatorio
L'art. 395, comma 1, n. 4), c.p.c. prevede la revocabilità delle sentenze se la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare. L'errore di fatto che consente la proposizione del ricorso per revocazione della sentenza ex art. 395 n. 4 c.p.c. deve consistere nell'affermazione o supposizione dell'esistenza o inesistenza di un fatto la cui verità risulti, invece, in modo indiscutibile esclusa o accertata in base al tenore degli atti e documenti di causa; deve essere decisivo e non cadere su un punto controverso sul quale il giudice si sia pronunciato, e presentare i caratteri dell'evidenza e dell'obiettività. È inammissibile nel ricorso per revocazione di una sentenza per errore di fatto la censura tendente al riesame di una tesi di diritto o alla rivalutazione di un punto controverso sul quale si è pronunciata la sentenza, L'errore di fatto revocatorio deve rispondere a tre distinti requisiti, consistenti: a) nel derivare esso da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l'organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto; b) nell'attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente pronunciato; c) nell'essere, infine, stato elemento determinante della decisione adottata. Pertanto, è inammissibile ed esorbita dall'ambito della revocazione, configurandosi come errore di diritto, quello che attiene alle attività valutative del giudice, ed in particolare quello che si estrinseca in un'errata applicazione di norme sostanziali e processuali Cons. giust. amm. Sicilia, n. 419/2000; Cons. St. VI, n. 304/1995; Cons. St. VI, n. 3152/2002). L'errore di fatto revocatorio può essere configurabile anche quando cade sull'esistenza o sul contenuto di atti processuali e determina una omissione di pronuncia, purché essa sia identificabile attraverso la motivazione della sentenza (Cons. St. VI, n. 4675/2000; Cons. St. Ad. plen., n. 3/1997). Costituisce motivo di revocazione la mancata comunicazione al difensore della data dell'udienza per la trattazione dell'appello (Cons. St. V, n. 3860/2000; Cons. St. IV, n. 695/1999; Cons. St. IV, 29 gennaio 1998, n. 107/1998). Al contrario, l'erronea od omessa indicazione della presenza del difensore nell'intestazione della decisione sono semplici irregolarità materiale, eventualmente emendabili con la particolare procedura di correzione, ma non possono assurgere ad errore di fatto revocatorio, non avendo in alcun modo inciso sul contenuto decisorio della sentenza (Cons. St. IV, n. 3486/2001). La giurisprudenza ha in alcuni casi allargato le maglie dell'ammissibilità del ricorso per revocazione per errore di fatto, probabilmente allo scopo di porre rimedio a sentenze palesemente erronee; tale tendenza non corrisponde tuttavia alla tassatività ed eccezionalità dei motivi di revocazione. È stato ritenuto che l'omesso esame di un motivo di ricorso può dar ingresso al giudizio di revocazione della sentenza, in quanto costituisce errore di fatto di tipo revocatorio e non già errore di diritto attinente al difetto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (Cons. giust. amm. Sicilia, 25 febbraio 1994, n. 54); l'omessa pronuncia deve risultare evidente dalla lettura della sentenza e sia chiaro che in nessun modo il giudice ha preso in esame la censura medesima (Cons. St. IV, n. 5292/2004). L'errore di fatto revocatorio è stato anche configurato quando riguarda la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e ciò risulti dalla motivazione della sentenza (Cons. St. VI, n. 5813/2001). Un orientamento maggiormente restrittivo sulla qualificazione dell'omessa pronuncia come errore di fatto è stato fornito da Cons. St. Ad. plen, 27 luglio 2016 n. 21, secondo cui non costituisce errore revocatorio il fatto che il giudice, nell'esaminare la domanda di parte, non si sia espressamente pronunciato su tutte le argomentazioni poste dalla parte medesima a sostegno delle proprie conclusioni. È stato, quindi, affermato che nel processo amministrativo, rileva come errore di fatto revocatorio l'omessa pronuncia su un vizio dedotto in appello solo qualora la ragione di tale omissione risulti causalmente riconducibile alla mancata percezione dell'esistenza e del contenuto di atti processuali (Cons. St. IV, n. 4099/2015). Altre decisioni della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato hanno fornito alcune precisazione sulla revocazione per errore di fatto. L'errore di fatto che consente di rimettere in discussione il decisum del giudice con il rimedio straordinario della revocazione è solo quello che non coinvolge l'attività valutativa dell'organo decidente ma tende invece ad eliminare l'ostacolo materiale frapposto fra la realtà del processo e la percezione che di questa il giudice abbia avuto, ostacolo promanante da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, sempre che il fatto oggetto dell'asserito errore non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza impugnata per revocazione abbia pronunciato, dovendosi escludere che il giudizio revocatorio, in quanto rimedio eccezionale, possa essere trasformato in un ulteriore grado di giudizio ( Cons. St. Ad. plen., n. 2/2010). In sostanza, l'errore di fatto che legittima il ricorso per revocazione debba consistere nel c.d. «abbaglio dei sensi», ossia in un travisamento dovuto a mera svista, che induca a considerare inesistenti circostanze indiscutibilmente esistenti o viceversa. Detto in altri termini, l'errore di fatto revocatorio consiste in una falsa percezione della realtà processuale e cioè in una svista — obiettivamente ed immediatamente rilevabile — che abbia portato ad affermare o soltanto supporre (purché tale supposizione non sia implicita, ma sia espressa e risulti dalla motivazione, in quanto «un abbaglio dei sensi è incompatibile con l'omissione di motivazione, perché è la motivazione che rivela l'abbaglio») l'esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti di causa ovvero la inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti risulti invece positivamente accertato. Occorre in ogni caso, però, come si è detto, che tale fatto non abbia costituito un punto controverso sul quale sia intervenuta la pronuncia del giudice, perché in tal caso sussiste semmai un errore di diritto e con la revocazione si verrebbe in sostanza a censurare la valutazione e l'interpretazione delle risultanze processuali. Deve, pertanto, ritenersi inammissibile la domanda di revocazione che si fondi sull'erroneo apprezzamento delle risultanze del fatto stesso. Tale errore, oltre a riguardare un fatto sul quale la sentenza (nella specie, revocanda) non si è pronunciata, deve essere essenziale e decisivo (nel senso che tra l'erronea percezione del giudice e la pronuncia da lui emessa deve sussistere un rapporto causale tale che senza l'errore la pronuncia medesima sarebbe stata diversa) e deve risultare sulla sola base della sentenza, nel senso che in essa sussista una rappresentazione della realtà in contrasto con gli atti e i documenti processuali regolarmente depositati. Tale causalità va intesa in senso non già storico ma logico-giuridico, perché non si tratta di stabilire se il giudice autore del provvedimento da revocare si sarebbe, in concreto, determinato in maniera diversa ove non avesse commesso l'errore di fatto, bensì di stabilire se la decisione della causa avrebbe dovuto essere diversa, in mancanza di quell'errore, per necessità, appunto, logico-giuridica. La falsa rappresentazione in cui si sostanzia l'errore revocatorio può avere ad oggetto tanto un fatto sostanziale quanto un fatto processuale, cioè tanto il dato storico quanto l'atto che lo immette all'interno del processo. Relativamente ad un documento, l'errore può riguardare, pertanto, il suo contenuto dichiarativo - fatto sostanziale. ovvero la sua avvenuta produzione in giudizio secondo le norme di rito - fatto processuale (Cass. S.U., n. 21869/2019). Mentre l'errore di fatto revocatorio è configurabile nell'attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al significato letterale (senza coinvolgere la successiva attività d'interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento, così che rientrano nella nozione dell'errore di fatto di cui all'art. 395 n. 4), c.p.c.), i casi in cui il giudice, per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo, sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo, esso non ricorre nell'ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione ( Cons. St. Ad. plen. n. 1/2013, secondo cui le eventuali difficoltà di fatto di esecuzione del giudicato o più in generale di attuazione di un principio di diritto, sollecitano il corretto esercizio della potestas iudicandi del giudice investito della relativa problematica, ma non possono essere evidentemente considerate come manifestazione o come prova di un presunto errore di fatto revocatorio, tanto più che, a tutto voler concedere, esse sarebbero piuttosto il frutto o meglio la prova di un errore di giudizio o di valutazione che, com'è noto, non legittima il ricorso per revocazione. Non è possibile chiedere la revocazione di una sentenza per errore di fatto, ai sensi dell'art. 395 bis e dell'art. 395 n. 4 cod. proc. civ., nel caso di: a) errori formatisi sulla base di un'assunta errata valutazione o interpretazione di fatti, documenti e risultanze processuali che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico, perché siffatto tipo di errore, ove pure in astratta ipotesi fondato, costituirebbe un errore di giudizio e non un errore di fatto; b) erronea comprensione del contenuto giuridico-concettuale delle difese; c) inesatta qualificazione dei fatti ivi esposti; d) errato apprezzamento di un motivo di ricorso (Cass., S.U., n. 26674/2020). È stato evidenziato come la Corte di cassazione e il Consiglio di Stato utilizzano la revocazione esperibile avverso le proprie sentenze come strumento per far valere gli errores in procedendo relativi al giudizio di appello, posto che altrimenti non vi sarebbe alcun mezzo di impugnazione idoneo a far fronte alla nullità (Luiso, 894). A conferma di ciò, è stato affermato che sussiste l'errore di fatto previsto quale requisito-presupposto dell'eccezionale rimedio revocatorio dall' art. 395 n. 4 c.p.c. (e art. 36 l. n. 1034/1971- l. T.A.R.), quando si verifichino gravi carenze procedimentali-processuali che abbiano determinato l'effetto di compromettere l'esercizio compiuto del diritto di difesa; la mancata irregolare comunicazione al difensore regolarmente costituito della data dell'udienza di trattazione dell'appello, impedendo l'effettivo esercizio delle varie modalità di difesa (presentazione di documenti, memorie, partecipazione alla stessa udienza di trattazione, ecc.) costituisce l'integrazione dell'errore di fatto (erronea percezione del giudice circa la irregolare costituzione del contraddittorio), idoneo al positivo esperimento del rimedio revocatorio (Cons. St. VI, n. 811/2005). Non può invece essere utilizzato il ricorso per revocazione per contestare elementi contenuti nel verbale di udienza che è atto pubblico che fa fede fino a querela di falso, in quanto il rimedio della revocazione non può sopperire al fine di ottenere un analogo risultato visto che per superare il carattere fide facente degli atti pubblici la querela di falso è necessaria anche qualora si ritenga che l'immutazione del vero non sia ascrivibile a dolo ma soltanto ad imperizia, leggerezza o a negligenza del pubblico ufficiale, con la sola eccezione del caso in cui dallo stesso contesto dell'atto risulti in modo evidente l'esistenza di un mero errore materiale compiuto da questi nella redazione del documento (Cons. St. VI, n. 6421/2021). L'art. 395, comma 1, n. 5), c.p.c. prevede la revocabilità delle sentenze se la sentenza è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione. Il contrasto dei giudicati che legittima la revocazione ex art. 395 n. 5 c.p.c., si ha allorché la precedente sentenza ha un contenuto antitetico a quello della successiva, si ché il rapporto tra le medesime parti risulti regolato in modo inconciliabile, e sempre che, in questo caso, il giudice non abbia pronunciato sulla relativa eccezione. Il motivo di revocazione per contrasto tra giudicati è ammissibile solo se la eccezione di cosa giudicata non è stata né proposta, né presa in esame dalla sentenza La fattispecie del contrasto tra giudicati, descritta dall' art. 395 n. 5 c.p.c., si configura quando vi sia un contrasto tra la decisione contro la quale si agisce e una precedente decisione pronunciata in un processo diverso, ormai passata in giudicato, intervenuta tra le stesse parti ed avente lo stesso oggetto, al fine di consentire ad una parte, già risultata vincitrice in una lite, di proporre una exceptio rei iudicatae tardiva. Deve trattarsi, quindi, di una sentenza antecedente a quella revocanda, di cui il giudice non ebbe la possibilità di avere conoscenza, mentre non può parlarsi di contrasto tra giudicati nel caso in cui si tratti del rapporto intercorrente tra una sentenza di primo grado e quella resa in appello (Cons. Stato, Ad. plen., n. 3/2001). Nel caso di ricorso per revocazione ex art. 395, n. 5, c.p.c. (contrasto con precedenti giudicati), perché una sentenza possa considerarsi contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata occorre che tra i due giudizi vi sia identità di soggetti e di oggetto, tale che sussista un'ontologica e strutturale concordanza tra gli estremi, su cui debba esprimersi il secondo giudizio, e gli elementi distintivi della decisione emessa per prima, avendo questa accertato lo stesso fatto o un fatto ad esso antitetico, e non anche un fatto costituente un possibile antecedente logico (Cons. St. IV, n. 4712/2013; Cons. St. V, n. 5968/2011). Ovviamente non si ha contrasto di giudicati nel caso in cui la discordanza sussiste tra una sentenza di primo grado e quella resa in appello. Ai fini dell'ammissibilità del ricorso in revocazione per contrasto tra giudicati, il contrasto è ipotizzabile soltanto con riferimento a sentenze di merito, in quanto non può riconoscersi autorità di cosa giudicata in senso sostanziale ad una sentenza che, avendo dichiarato la perenzione, ha omesso di pronunciare sulla legittimità dell'atto impugnato (Cons. St. Ad. plen., 30 luglio 1980, n. 36); allo stesso modo non è configurabile come vizio di revocazione il contrasto di giudicati tra la decisione che definisce la lite in sede cognitoria e quella che pronuncia sull'esecuzione del giudicato, essendo quel contrasto configurabile solo tra pronunce aventi lo stesso oggetto e non tra la decisione di ottemperanza e la decisione della cui ottemperanza si tratta (Cons. St. VI, n. 974/1999; Cons. St. IV, n. 848/1994). I confini del vizio di cui all' art. 395, n. 5), c.p.c. sono stato ulteriormente chiariti dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che ha ribadito che tale vizio revocatorio non è configurabile in caso di contrasto della sentenza di ottemperanza con la sentenza di cognizione e con altre precedenti sentenze di ottemperanza intervenute nel medesimo giudizio. Infatti, qualora le sentenze poste a raffronto costituiscano l'esito, rispettivamente, del giudizio di ottemperanza e di quello di cognizione, ciò che viene dedotto come contrasto fra giudicati è l'interpretazione che il giudice dell'ottemperanza ha dato dell'ambito della statuizione della sentenza da eseguire, onde la richiesta di revocazione si risolve, in realtà, nel chiedere il riesame delle conclusioni, cui detto giudice è pervenuto, non nell'assenza di consapevolezza dell'esistenza di un giudicato contrario; difetta, inoltre, in radice il presupposto del contrasto tra giudicati, che non può che riguardare giudicati tra loro «esterni» e non sentenze rese all'interno di un processo, funzionalmente unitario, vòlto a dare ottemperanza a una originaria sentenza di cognizione (Cons. St. Ad. plen., n. 1/2017). Va ricordato che anche la Cassazione ha affermato che l'istanza di revocazione, prevista dall' art. 395, n. 5, c.p.c., per essere la sentenza da revocare contraria ad altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata, è ammissibile solo quando si tratta di giudicato risultante da un giudizio separato e sempre che, con la sentenza da revocare, il giudice non abbia pronunciato sulla eccezione di giudicato esterno; quando il contrasto con un precedente giudicato si riferisce ad una sentenza pronunciata nell'ambito dello stesso giudizio, il rimedio contro la violazione del giudicato interno è quello del ricorso per cassazione ai sensi dell' art. 360, 1º comma, n. 4, c.p.c. (Cass. II, n. 155/2014). Di conseguenza, il ricorso per revocazione non è proponibile in presenza del c.d. giudicato interno, come in caso di contrasto tra sentenza definitiva e sentenza parziale (Cons. St., IV, n. 2137/2020). Al riguardo, è stata posta la questione della idoneità del principio di diritto enunciato dalla Plenaria ai sensi dell'art. 99, comma 4 ad assumere valore di cosa giudicata e fungere così da parametro per l'ipotesi revocatoria di cui all'art. 395 n. 5 c.p.c. La stessa Adunanza plenaria ha precisato che ai princìpi di diritto enunciati dall'Adunanza plenaria non può essere riconosciuta l'autorità della cosa giudicata e che l'attività di contestualizzazione e di sussunzione del principio di diritto enunciato dall'Adunanza plenaria in relazione alle peculiarità del caso concreto spetta alla Sezione cui è rimessa la decisione del ricorso (Cons. St. Ad. Plen., n. 2/2018). Pertanto, l'enunciazione da parte dell'Adunanza plenaria di un principio di diritto non determina nei confronti della Sezione remittente un vincolo di giudicato; infatti, l'enunciazione da parte dell'Adunanza plenaria di un principio di diritto nell'esercizio della propria funzione nomofilattica non integra l'applicazione alla vicenda per cui è causa della regula iuris enunciata e non assume quindi i connotati tipicamente decisori che caratterizzano le decisioni idonee a far stato fra le parti con l'autorità della cosa giudicata con gli effetti di cui all'articolo 2909 c.c. e di cui all'articolo 395, n. 5) c.p.c. Il vincolo del giudicato può pertanto formarsi unicamente sui capi delle sentenze dell'Adunanza plenaria che definiscono – sia pure parzialmente – una controversia, mentre tale vincolo non può dirsi sussistente a fronte della sola enunciazione di princìpi di diritto la quale richiede – al contrario – un'ulteriore attività di contestualizzazione in relazione alle peculiarità della vicenda di causa che non può non essere demandata alla Sezione remittente, ad eccezione di quanto coperto dal giudicato formatosi sui capi definiti (anche con sentenza parziale) dall'Adunanza plenaria. Nel caso di insanabile contrasto fra dispositivo depositato nella segreteria ai sensi dell'art. 19, comma 3, d.l. 67/1997 e quello della decisione successivamente pubblicata è esperibile il ricorso per revocazione ex art. 395, n. 5, c.p.c. (Cons. St. IV, n. 1347/1999). Dolo del giudice
L'art. 395, comma 1, n. 5), c.p.c. prevede la revocabilità delle sentenze se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato. La revocazione richiede in tale ipotesi che il dolo sia stato accertato con sentenza passata in giudicato e che esso consista in un intento fraudolento, ovvero in una collusione che hanno falsato la corretta formazione della decisione, costituendo causa diretta e determinante del provvedimento ingiusto. Il ricorso per revocazione si svolge davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza da revocare. Per stesso giudice non si intende la persona fisica ma lo stesso ufficio giudiziario e di conseguenza non soltanto non è necessariamente investito dell'impugnazione il giudice persona fisica, ma neppure lo è la sezione. Si pone il problema se un giudice (persona fisica) che ha composto ilo collegio che ha condotto alla sentenza di cui si chiede la revocazione possa comporre il collegio che deve decidere sulla revocazione stessa. Il Codice nulla prevede sulla necessità di cambiare il Collegio giudicante in caso di ricorso per revocazione; nel corso dei lavori della Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato era stato ipotizzato di codificare il nuovo principio affermato dalla Plenaria, ma è stato poi scelto di non intervenire sul punto. Al riguardo, relativamente alla revocazione, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. sez. lav., n. 19498/2006), salvo il caso in cui la sentenza sia effetto del dolo del giudice, le ipotesi di revocazione sono fondate sull'idea che il processo non abbia potuto trovare un esito conforme al diritto, senza che si possa imputare al giudice un qualche errore di giudizio (se vi fosse quest'ultimo, la revocazione non sarebbe ammissibile), per cui proprio perché non vi sono errori di giudizio non vi può nemmeno essere un pre-giudizio che possa essere addebitato al giudice e che gli possa impedire, quando egli sia chiamato nuovamente a giudicare della materia controversa, di assumere una decisione senza essere condizionato da quella precedentemente resa, con l'ulteriore conseguenza che non sussiste per i magistrati che avevano pronunciato la sentenza impugnata per revocazione alcuna incompatibilità a partecipare alla decisione sulla domanda di revocazione. Aveva, invece, ritenuto l'Adunanza Plenaria, che, ancorché il ricorso per revocazione possa fondarsi anche solo su errore dei sensi, non di apprezzamento, sussistano le ragioni che inducono ad escludere che di tale giudizio possa conoscerne la stessa persona fisica che ha pronunciato la sentenza impugnata, ben potendo la cd. forza della prevenzione svolgere un ruolo decisivo nella fase rescindente (Cons. St. Ad. plen., n. 2/2009). In realtà, il caso deciso dalla Plenaria non riguardava una ipotesi di revocazione, ma il diverso caso della regressione del processo al giudice di primo grado, per il quale è stato affermato che il dovere di astensione previsto dall' art. 51, n. 4, c.p.c., sussiste anche nei confronti del giudice chiamato a partecipare alla decisione della causa su cui si sia già pronunciato nello stesso grado di giudizio, e non solo nel caso in cui la seconda pronuncia intervenga in un nuovo e diverso grado di giudizio, in quanto le ragioni di garanzia della imparzialità e della terzietà del giudice valgono, allo stesso modo, in entrambi i casi; sebbene la materia del contendere vertesse solo sul giudizio a seguito di annullamento con rinvio, tuttavia la decisione n. 2/2009 ha affermato che il dovere di astensione si estende anche all'ipotesi in cui il giudice sia chiamato a pronunciarsi nuovamente sulla vertenza in seguito di ricorso per revocazione della precedente sentenza, riconoscendo che il dovere di astensione deve valere ad assicurare anche l'«immagine» dell'imparzialità del giudice, così da evitare che egli possa sembrare condizionato dalla precedente pronuncia resa nella medesima controversia. Tale orientamento è stato successivamente superato dalla Adunanza plenaria, che ha affermato che l'indirizzo interpretativo espresso dalla decisione dell'Adunanza plenaria n. 2 del 2009, nella parte in cui, sia pure con un obiter dictum — atteso che la materia del contendere verteva solo sul giudizio a seguito di annullamento con rinvio — ha stabilito un principio di diritto comunque capace di orientare la futura attività dei giudici amministrativi, escludendo che del giudizio di revocazione possa conoscere la stessa persona fisica — o le stesse persone fisiche, quali componenti del Collegio — che ha pronunciato la sentenza impugnata, a parte la sua condivisibilità o meno, appare, comunque, superato dal nuovo codice del processo amministrativo; infatti, salva ovviamente l'ipotesi di dolo del giudice, non sussiste per i magistrati che hanno pronunciato la sentenza revocanda alcuna incompatibilità a partecipare alla decisione sulla domanda di revocazione, atteso che essa non comporta, per sua natura, un errore di giudizio ( Cons. St. Ad. plen., n. 5/2014). I termini per la revocazione
L'art. 92 disciplina i termini di tutte le impugnazioni e anche della revocazione, stabilendo che il termine è: a) per la revocazione ordinaria di sessanta giorni decorrenti dalla notifica della sentenza, ovvero sei mesi dal deposito della sentenza non notificata; b) per la revocazione straordinaria di sessanta giorni decorrenti dalla conoscenza dell'evento che determina la revocazione. L'onere di dimostrare la data in cui l'evento che fonda la revocazione straordinaria si è verificato spetta alla parte, conformemente all' art. 398 c.p.c. (Cons. St. V, n. 3909/2000; Cons. St. IV, n. 3036/2001); in senso conforme, la giurisprudenza civile, secondo cui l'esatta individuazione della data in cui si è verificato l'evento indicato dall'art. 395, n. 2, (scoperta del dolo o della falsità o recupero di documenti), rilevante agli effetti della decorrenza del termine di impugnazione per revocazione e prescritta a pena di inammissibilità della domanda dall'art. 398, comma 2, deve essere sin dall'inizio di chiara ed immediata percezione, in guisa da consentire la possibilità di accertare l'osservanza o meno del termine perentorio di impugnazione e costituisce, pertanto, un onere di allegazione della parte istante, oggetto di un preciso thema probandum, in quanto consente di dare ingresso al giudizio rescindente (Cass. n. 11451/2011). Il termine ordinario per la notificazione delle impugnazioni, compresa la revocazione c.d. ordinaria di cui ai numeri 4 e 5 dell'art. 395 c.p.c., è di 60 giorni decorrenti dalla notificazione della sentenza e di sei mesi dalla pubblicazione della stessa. Tuttavia, nei giudizi (come quelli in materia di appalti) assoggettati al rito abbreviato, tutti i termini processuali sono dimezzati, salvo, nei giudizi di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti (art. 119, comma 2, c.p.a.); tale previsione è espressamente applicabile ai giudizi di appello, revocazione e opposizione di terzo ai sensi dell'art. 119, comma 7, c.p.a. Pertanto, il termine c.d. lungo per proporre la revocazione, in assenza della notificazione della sentenza, è di tre mesi decorrenti dalla pubblicazione della sentenza, essendo la deroga al dimezzamento limitata ai soli giudizi di primo grado (Cons. St. V, n. 6946/2011; Cons. St. V, n. 28/2012). Il procedimento di revocazione
La revocazione si compone di una fase rescindente (diretta a verificare se il ricorso è ammissibile e a far accertare la sussistenza di vizi revocatori della sentenza) e una fase rescissoria, meramente eventuale (una volta ritenuta fondata la domanda di revocazione e tendente a rinnovare il giudizio, emendandolo del vizio o dei vizi che avevano afflitto quello precedente; v. Cass., S.U., n. 21869/2019). La distinzione tra il giudizio rescindente, relativo alla legittimità dei motivi di revocazione e il giudizio rescissorio, che riguarda il merito della controversia e tiene conto degli elementi emersi nella fase rescindente non impedisce che le due fasi siano trattate e risolte contestualmente con una sola sentenza. Sono legittimate a proporre il ricorso per revocazione le sole parti formali del processo che ha dato luogo alla sentenza da revocare, purché parti soccombenti; non sono legittimati i terzi. La giurisprudenza ha chiarito che solo chi è parte in senso sostanziale è legittimato a proporre il ricorso per revocazione, e non chi riveste la qualità di parte meramente processuale (Cons. St., sez. IV, n. 1320/2003). È inapplicabile al processo amministrativo l'art. 398 c.p.c. nella parte in cui prevede «la possibilità per il giudice davanti a cui è proposta la revocazione, di sospendere il termine, per la proposizione del ricorso per Cassazione fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla revocazione (Cons. giust. amm. Sicilia, 21 ottobre 2011 n. 912). L'art. 98 ha generalizzato la possibilità di chiedere la sospensione della sentenza per tutte le impugnazioni, confermando il precedente orientamento che già riteneva possibile chiedere in sede di revocazione la sospensione della sentenza revocanda. In applicazione del principio della prevalenza dell'appello, in quanto rimedio a critica libera, sulla revocazione, l'art. 106, comma 3 chiarisce che contro la sentenza di primo grado la revocazione è proponibile se i motivi non possono essere dedotti con l'appello (revocazione straordinaria nei casi in cui il fatto revocatorio è stato conosciuto dopo la scadenza dei termini per l'appello). Il comma 3 dell'art. 106 stabilisce definitivamente l'applicazione del principio della prevalenza dell'appello. Per il principio devolutivo dell'appello, per cui il giudice di secondo grado è investito dell'intera cognizione della causa, non si configura nemmeno astrattamente un contrasto tra giudicati nel caso in cui la sentenza di primo grado sia stata integralmente appellata ed i resistenti in appello abbiano riproposto, con appello incidentale, tutti i motivi dichiarati assorbiti dal giudice di primo grado (Cons. St. Ad. plen., n. 3/2001). Vi è invece autonomia tra il ricorso per revocazione avverso una sentenza del Consiglio di Stato e il ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione avverso la stessa sentenza (Cass. S.U., n. 14437/2018). |