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Errore (diritto penale)

20 Luglio 2015

Con il termine “errore”, nel diritto penale, ci si riferisce alla falsa rappresentazione della realtà normativa o naturalistica da parte del soggetto agente. Esso rileva, sotto molteplici aspetti, in primis come causa di esclusione della colpevolezza.
Inquadramento

Con il termine “errore”, nel diritto penale, ci si riferisce alla falsa rappresentazione della realtà normativa o naturalistica da parte del soggetto agente.

Esso rileva, sotto molteplici aspetti, in primis come causa di esclusione della colpevolezza.

L'errore penalmente rilevante può essere suscettibile di diverse classificazioni in base al profilo che si prenda in considerazione di volta in volta: sulla base della fase/momento di incidenza dell'errore, si distingue il c.d. errore-motivo, in cui la falsa rappresentazione si inserisce nel processo di formazione della volontà dell'autore, dal c.d. errore-inabilità, nel quale l'error, invece, viene a manifestarsi nella fase di realizzazione di un proposito, che si è correttamente formato; sulla base dell'oggetto immediato della falsa rappresentazione si distingue l'errore di diritto, che cade sulla norma giuridica (penale o extrapenale), dall'errore di fatto, che invece ha ad oggetto gli elementi fattuali della realtà extragiuridica; infine, l'errore sul precetto dall'errore sul fatto a seconda che la falsa rappresentazione si ripercuota definitivamente sulla conoscenza/conoscibilità della fattispecie legale astratta (descritta nel precetto penale) ovvero sulla fattispecie concreta.

Errore, ignoranza e dubbio: analogie e differenze

Come osservato da autorevoledottrina (Fiandaca-Musco, Diritto penale, parte generale) all'errore deve equipararsi l'ignoranza, in quanto sia la mancanza di conoscenza sia l'erronea conoscenza di un dato elemento provocano il medesimo effetto sull'agente, cioè quello di impedire che egli si renda conto di commettere un fatto integralmente corrispondente ai requisiti previsti da una fattispecie incriminatrice.

Dal concetto di “errore” deve, invece, tenersi assolutamente distinto quello di “dubbio”: mentre chi versa in errore (o ignoranza) si forma pur sempre un convincimento, sebbene erroneo, chi versa in stato di dubbio – definibile come un conflitto di rappresentazioni con incertezza su quali di essa sia la vera – al contrario, non si forma alcun convincimento.

A tali insopprimibili differenze ontologiche, l'ordinamento ricollega importanti ricadute pratiche: infatti, l'errore (e l'ignoranza), a determinate condizioni, rilevano come cause di esclusione della colpevolezza; il dubbio, invece, rappresentando un atteggiamento psicologico di incertezza, può essere rimproverato all'agente, integrando (rectius, potendo integrare) l'elemento soggettivo della colpa, se non addirittura quello del c.d. dolo eventuale (Corte Cost. 24 luglio 2007, n. 322; Cass. pen., Sez. III, 6 maggio 2014, n. 37837).

Sulla scorta della distinzione tra errore scusabile e lo stato di mero dubbio/incertezza, la giurisprudenza di legittimità ha correttamente negato rilevanza scusante, con riferimento ai reati contro la P.A., alle c.d. prassi illegittime diffuse (Cass. pen., Sez. VI, 27 giugno 2007, n. 35813).

Errore sul precetto penale

L'art. 5 c.p., rubricato “Ignoranza della legge penale”, disponendo che “Nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale”, recepisce nell'ordinamento penale il noto principio error vel ignorantia legis non excusat.

Per come letteralmente formulata, la norma pone una regola di totale irrilevanza dell'errore o ignoranza sul precetto penale introducendo, in definitiva, una presunzione assoluta, juris et de jure, di conoscenza (rectius, conoscibilità) della fattispecie penale.

La norma, tuttavia, è stata oggetto di una nota pronuncia della Corte costituzionale (24 marzo 1988, n. 364) che ha relativizzato la presunzione contemplata dall'art. 5 c.p., ritagliando una (seppur limitata) rilevanza dell'ignoranza della legge penale (o errore nella sua interpretazione e comprensione) da parte del soggetto agente.

Muovendo dall'idea del principio di colpevolezza come garanzia di libere scelte di azione del cittadino (c.d. calcolabilità delle conseguenze giuridico-penali delle azioni ed omissioni), attuativo del principio di legalità vigente in ogni Stato di diritto, la Corte ha concluso che il comma primo dell'art. 27 Cost. – interpretato in relazione al comma terzo dello stesso articolo ed agli artt. 2, 3, commi 1 e 2, 73, comma 3, e 25, comma 2, Cost. – non soltanto richiede la "colpevolezza" dell'agente rispetto agli elementi più significativi della fattispecie tipica (e, cioè, una relazione psichica tra il soggetto e il fatto) ma anche l'“effettiva possibilità di conoscere la legge penale” (e, cioè, un rapporto tra soggetto e legge), “possibilità” che rappresenta ulteriore necessario presupposto della rimproverabilità dell'agente e, dunque, della responsabilità penale. Ne consegue che l'art. 5 c.p., disconoscendo – secondo diritto vivente – ogni collegamento tra l'obbligo penalmente sanzionato e la sua "riconoscibilità" ed equiparando all'ignoranza evitabile della legge penale l'ignoranza non colpevole, e, pertanto, inevitabile, viola lo spirito dell'intera Costituzione ed i suoi essenziali principi ispiratori, che pongono la persona umana al vertice della scala dei valori. La sentenza 364/1988 precisa, nella parte sua motiva, che “il nuovo testo dell'art. 5 c.p. derivante dalla parziale incostituzionalità dello stesso articolo..., risulta così formulato: “L'ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti d'ignoranza inevitabile”.".

In evidenza

La Corte Costituzionale ha precisato che al fine di qualificare l'ignoranza della legge penale (o l'errore sul divieto) come inevitabile, occorre far riferimento a criteri oggettivi, c.d. "puri" o "misti" (obiettiva oscurità del testo, gravi contrasti interpretativi giurisprudenziali, "assicurazioni erronee", ecc.), tenendo conto, peraltro, di quelle particolari condizioni e conoscenze del singolo soggetto, tali da rendere l'ignoranza inescusabile, pur in presenza di un generalizzato errore sul divieto. Sul punto sono intervenute anche le Sezioni unite della S.C. (Cass. pen., Sez. un., n. 8154/1994), che hanno distinto la posizione del comune cittadino rispetto ai soggetti professionalmente qualificati: per il primo, la condizione di inevitabilità è sussistente ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell'ordinaria diligenza, al cosiddetto "dovere di informazione", attraverso l'espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia; per i soggetti professionalmente qualificati, invece, l'affermazione della scusabilità dell'ignoranza, richiede che essa dipenda e derivi da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale.

Secondo la giurisprudenza di legittimità costante, successiva alla pronuncia delle Sezioni unite, la valutazione dell'inevitabilità dell'errore di diritto, rilevante ai fini dell'esclusione della colpevolezza, deve tenere conto tanto dei fattori esterni che possono aver determinato nell'agente l'ignoranza della rilevanza penale del suo comportamento, quanto delle conoscenze e delle capacità del medesimo (cfr., ex multis, Cass., Sez. VI, 22 giugno 2011, n. 43646).

Inoltre, la Cassazione ha ormai definitivamente chiarito – per quanto attiene all'incidenza dei mutamenti e contrasti giurisprudenziali in una data materia – che ciò che rileva ai fini dell'esclusione della colpevolezza ex art. 5 c.p. è solo la sussistenza in subjecta materia di un orientamento giurisprudenziale granitico (in grado di ingenerare un errore di diritto inevitabile), mentre nel diverso caso di giurisprudenza contrastante o di oscurità del dettato normativo non è possibile invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile, atteso che, in caso di dubbio, si determina un obbligo di astensione dall'intervento, con l'espletamento di qualsiasi utile accertamento volto a conseguire la corretta conoscenza della legislazione vigente in materia (Cass. pen., Sez. VI, 25 gennaio 2011, n. 6991).

Errore sul fatto costituente reato

L'art. 47 c.p., rubricato “Errore di fatto”, testualmente dispone al suo primo comma che “L'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell'agente. Nondimeno, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.

Dunque, l'ordinamento penale detta una disciplina dell'errore sul fatto che costituisce reato profondamente diversa da quella che regola l'errore sul precetto: mentre quest'ultimo è sostanzialmente irrilevante ai fini della colpevolezza e della punibilità dell'agente (salva l'ipotesi, invero eccezionale, introdotta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 364/1988), l'errore sul fatto, invece, esclude il dolo e, dunque, la colpevolezza dell'autore del fatto.

Di regola, l'errore sul fatto non esclude la colpa: proprio per questo il primo comma dell'art. 47 c.p. afferma che se l'errore era evitabile (e, dunque, dovuto a colpa dell'agente) la punibilità non può essere esclusa (sempre che, ovviamente, l'ordinamento preveda il fatto come reato anche nella forma colposa), ribadendosi, sotto questo peculiare aspetto, il principio di legalità in ordine all'elemento soggettivo del reato enunciato, in via generale, all'art. 42, comma 2, c.p.

Inoltre, “L'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso” (art. 47, comma 2, c.p.) con ciò significando che l'error (o l'ignoranza) esauriscono i loro effetti solo con specifico riferimento al fatto in relazione al quale si riferiscono (ad es. l'errore sulla qualità di pubblico ufficiale del soggetto offeso con frasi ingiuriose, esclude il dolo del reato di oltraggio a pubblico ufficiale ma lascia impregiudicata la punibilità dell'ingiuria).

Il comma 3 dell'art. 47 c.p. (“L'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato”) prevede espressamente l'ipotesi di c.d. errore sul fatto determinato da ignoranza/errata interpretazione della legge extrapenale.

Una particolare categoria di errore è quello ricadente sull'identità e le qualità della persona offesa. Tale tipo di errore, rilevante ex art. 47 c.p. ove l'identità e la qualità rappresentino elementi costitutivi del reato, trova una specifica disciplina nell'art. 60 c.p., nel caso in cui tali condizioni rilevino, invece come circostanze del fatto.

Norme specifiche sull'errore/ignoranza sono previste in ordine all'età della persona offesa, laddove questa rilevi come elemento costituivo dei reati in materia di reati di pornografia e violenza sessuale commessi in danno di minori (artt. 609-sexies c.p. e art.602-quater c.p.).

L'errore nei reati contravvenzionali: la buona fede dell'agente

Un ruolo del tutto peculiare è riconosciuto in caso di errore in ordine alle contravvenzioni che, come noto, possono essere punite indifferentemente a titolo di dolo o di colpa (art. 42, comma 4, c.p.).

Proprio a causa della più estesa punibilità degli illeciti contravvenzionali (sotto il profilo soggettivo), la rilevanza dell'error vel ignorantia subisce una decisa contrazione, potendosi riconoscere efficacia scusante alla sola buona fede dell'agente, atteggiamento soggettivo proprio di chi abbia commesso un fatto sulla base di un convincimento formato su elementi obiettivi esterni, non potendosi invece riconoscere ove determinata dalla mera non conoscenza della legge (Cass., Sez. III, n. 172/2008; conf. Cass., Sez. III, n. 42021/2014). In quanto tale, la buona fede esclude nei reati contravvenzionali la punibilità del fatto anche a titolo di colpa (Cass. pen., Sez. III, 4 novembre 2009, n. 49910).

Errore per induzione mediante inganno

L'art. 48 c.p. prevede l'estensione dell'ambito applicativo delle norme sull'errore sul fatto che costituisce il reato (art. 47 c.p.) anche all'ipotesi in cui tale errore sia “determinato dall'altrui inganno”.

In sostanza, il codice prevede che il soggetto ingannato, ove agisca sulla base di una falsa rappresentazione della realtà normativa o giuridica indotta da altri, non sia punibile per i reati eventualmente commessi (difettando l'elemento soggettivo), salvo che tali illeciti siano punibili anche a titolo di colpa e l'agente, usando la ordinaria diligenza, si sarebbe potuto accorgere dell'altrui inganno.

Ad avviso di un'autorevole dottrina (Fiandaca-Musco, diritto penale, parte generale) l'inganno consisterebbe in veri e propri “artifizi e raggiri”, non dissimili da quelli contemplati dall'art. 640 c.p. per la configurazione della truffa, non ritenendosi sufficiente un qualsiasi sviamento della conoscenza altrui.

La giurisprudenza di legittimità ha individuato un ulteriore requisito per la configurazione di un errore indotto ex art. 48 c.p., ovvero l'idoneità causale dell'inganno posto in essere dal decipiens ad indurre in errore il deceptus,attitudineda valutarsi in concreto tenendo conto degli elementi e delle circostanze fattuali, avuto riguardo soprattutto alle capacità e alle qualità del deceptus (Cass. pen., Sez. VI, 29 ottobre 1997, n. 537).

Trattandosi di una ipotesi di dolosa induzione in errore del soggetto agente “del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l'ha determinata a commetterlo”. Riferendosi al soggetto ingannatore si parla, non a caso, di c.d. “autore mediato”.

L'ingannatore risponderà, in particolare:

a) a titolo di concorso nel reato doloso eventualmente commesso dal soggetto ingannato, che andrà invece esente da pena per difetto di dolo;

b) a titolo di concorso doloso nel reato colposo, laddove l'ingannato abbia colpevolmente commesso un fatto previsto dalla legge come reato colposo.

La punibilità dell'autore mediato trova applicazione soprattutto (se non esclusivamente) nei reati di falso, laddove la falsa attestazione dell'esistenza di un fatto o di una condizione integra ed esaurisce l'essenza stessa dell'illecito (ex multis, Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 2014, n. 48389 “È configurabile il reato di falso ideologico per induzione nella condotta di colui che, mediante la falsificazione di un titolo di credito, induca il giudice ad emettere un decreto ingiuntivo, in quanto in esso il pubblico ufficiale attesta, in modo non conforme al vero, l'esistenza di una situazione costituente il presupposto indispensabile per il compimento dell'atto”).

L'errore in relazione alle circostanze del reato e alle scriminanti

All'art. 59, il codice penale detta una disciplina particolare in ordine all'errore penalmente rilevante, laddove la falsa rappresentazione investa non già direttamente il precetto penale o gli elemento costitutivi richiesti dalla fattispecie, bensì:

a) gli elementi circostanzianti del fatto di reato;

b) gli elementi negativi del fatto (le c.d. cause di giustificazione o scriminanti).

Errore e circostanze del reato

Con riferimento alle circostanze attenuanti il codice prevede che esse “sono valutate a favore dell'agente, anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti”: dunque, l'errore che investa l'esistenza di una circostanza attenuante è del tutto irrilevante, operandosi comunque la riduzione di pena in forza di una imputazione oggettiva delle circostanze favorevoli al colpevole.

Con riferimento alle circostanze aggravanti, invece, il codice prevede che esse siano “valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa”. Con tale disposizione si codifica il principio della necessaria imputazione per dolo o, quantomeno, per colpa delle circostanze aggravanti: in tal caso, la falsa rappresentazione della realtà naturalistica e giuridica (o l'ignoranza) dell'agente rileva, escludendo il previsto aumento della pena, solo nell'ipotesi in cui l'errore (o l'ignoranza) sia incolpevole.

Il comma 3 dell'art. 59 c.p., sancisce la totale irrilevanza delle c.d. circostanze putative, ovvero quelle circostanze (attenuanti o aggravanti) insussistenti nella realtà, ma ritenute, per errore, ricorrenti dal soggetto agente (Cass. pen., Sez. I, n. 5342/1993, sentenza resa in ordine all'attenuante della c.d. provocazione di cui all'art. 62, n. 2 c.p.).

Una disciplina parzialmente diversa è posta dall'art. 60 c.p., già sopra richiamato, in relazione al caso di errore/ignoranza dell'agente che ricada su condizioni o qualità della persona offesa che rilevino come circostanze del reato: “Nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell'agente le circostanze aggravanti, che riguardano le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole” mentre, invece, sono “valutate a suo favore le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, che concernono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti”. Tali principi non valgono, tuttavia, se si tratta di circostanze che riguardano l'età o altre condizioni o qualità fisiche o psichiche, della persona offesa.

Errore e cause di giustificazione

L'ultimo comma dell'art. 59 c.p. testualmente dispone che “Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.”

Occorre, anzitutto, precisare che con la formula “circostanze di esclusione della pena” il codice intende riferirsi, secondo l'interpretazione di autorevole dottrina (Mantovani, Diritto penale-Parte generale), alle sole cause di giustificazione (c.d. scriminanti) e non anche alle mere cause di esclusione della colpevolezza (c.d. scusanti) o della pena (c.d. esimenti).

In ordine alle scriminanti – contrariamente a quanto previsto per le circostanze (attenuanti e aggravanti) – il codice afferma il principio di rilevanza della loro sussistenza putativa: le scriminanti ritenute dall'agente, per errore, sussistenti saranno comunque idonee ad escludere la colpevolezza e la punibilità di questi.(Cass., Sez. VI, n. 14037/2015, resa in ordine allo stato di necessità putativo; Cass. pen., Sez. I, 27 settembre 2013, n. 40930; Cass. pen.,Sez. V, 11 marzo 2005, n. 15643, pronunce rese, rispettivamente, in ordine al diritto di critica e di cronaca putativo; Cass. pen., Sez. I, 5 marzo 2013, n. 13370, resa in ordine alla legittima difesa putativa; Cass. pen., Sez. 6, 15 aprile 2011, n. 20944 resa con riferimento al consenso dell'avente diritto putativo).

A tale regola il legislatore pone un'eccezione, ovvero quella della punibilità dell'agente laddove ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni:

a) il fatto sia previsto dalla legge penale come reato colposo;

b) l'errore sia determinato da colpa dell'agente.

Dunque, di quanto sopra, letto a contrario il disposto dell'art. 59, comma 4, c.p. può concludersi che:

  • l'errore incolpevole in ordine alla ritenuta sussistenza di una scriminante rileva sempre;
  • l'errore colpevole in ordine alla ritenuta sussistenza di una scriminante rileva, escludendo la colpevolezza e la punibilità, solo quando abbia ad oggetto un fatto previsto dalla legge solo come reato doloso.

In evidenza

La valutazione della sussistenza di requisiti e condizioni legittimanti la sussistenza di una scriminante putativa ex art. 59, comma 4 c.p. deve essere fatta mediante giudizio ex ante ed in concreto, ponendosi cioè idealmente al momento in cui il soggetto agente ha agito e tenendo conto di tutte le variabili e circostanze concrete del fatto da lui conosciute (Cass. pen., Sez. I, 5 marzo 2013, n. 13370).

Reato putativo

Nell'alveo dell'errore, può essere ricondotto anche il c.d. reato putativo di cui all'art. 49, comma 1, c.p. secondo cui “non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato”.

In tale ipotesi, infatti, il soggetto agente, per errore, si forma una volontà criminosa, essendosi rappresentato (ed avendo voluto) un fatto che in realtà non si è mai verificato o che, comunque, non integra alcuna fattispecie di reato.

Tale disposizione rappresenta evidentemente una diretta espressione del principio garantista cogitationis poenam nemo patitur.

In evidenza

Al di là di ipotesi di scuola, decisamente poco frequenti e realistiche, il reato putativo può configurarsi frequentemente in ordine ai reati che vedano tra i loro elementi costitutivi la sussistenza di un illecito presupposto (ad. es. ricettazione o riciclaggio). Ove tale illecito sia ritenuto – per errore – esistente dall'agente ma in realtà non sia configurabile nel caso di specie, troverà applicazione l'istituto del reato putativo (Cass. pen., Sez. II, 19 novembre 2013, n. 7795).

Errore-inabilità: la c.d. aberratio – artt. 82-83 c.p.

Dall'errore in senso stretto (id est l'errore-motivo di cui agli artt. 5 e 47 c.p.) deve essere tenuto distinto il diverso istituto dell'errore-inabilità (c.d. aberratio; artt. 82 e 83 c.p.), che, al di là del nomen, non ha molti punti di contatto col primo: nell'aberratio, infatti, la falsa rappresentazione della realtà viene a manifestarsi nella fase di realizzazione di un reato, frutto di una volontà criminosa che si è correttamente formata.

Si suole distinguere tre diverse ipotesi di errore-inabilità, due delle quali espressamente disciplinate dal codice, mentre la terza di matrice giurisprudenziale-dottrinale:

1) la c.d. aberratio deliciti (art. 83 c.p.), che si ha nel caso in cui il reato (“evento”) effettivamente commesso sia diverso da quello voluto dall'agente (ad es. l'agente voleva sparare al proprio avversario ad una gamba per ferirlo ma a causa di un errato uso dell'arma lo colpisce al cuore e lo uccide).

Stando alla norma e alla interpretazione datane dalla S.C., l'evento non voluto è valutabile ai sensi dell'art. 83 c.p. ed è, quindi, addebitabile all'agente a solo titolo di colpa, soltanto quando esso sia materialmente ed essenzialmente diverso da quello voluto. Qualora, invece, si tratti di un evento dolosamente voluto, anche se verificatosi con modalità diverse, il colpevole risponde a titolo di dolo dell'evento cagionato, al quale abbia comunque partecipato (Cass. pen., Sez. I, 2 febbraio 2010, n.21955).

In caso di aberratio delicti bioffensiva (ovvero quando l'autore commette il reato voluto e anche quello diverso, non voluto) troveranno applicazione le norme sul concorso dei reati. Visto, tuttavia che per l'evento diverso l'agente risponde a titolo di colpa non pare potersi configurare una continuazione tra i diversi reati (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 23 marzo 2004, n. 21746; contra Cass. pen., Sez. II, 28 ottobre 1998, n. 323; sentenze rese in ordine all'ipotesi di cui all'art. 586 c.p. che costituisce un'ipotesi speciale di aberratio delicti).

2) la c.d. aberratio ictus (art. 82 c.p.) prevede, invece, il diverso caso in cui l'errore-inabilitàcada sull'oggetto materiale (persona o cosa) del reato, nel senso che il reato, invece di offendere il bene-interesse cui l'offesa era diretta, lede lo stesso bene-interesse di altra persona. In rapporto alla persona offesa per errore sussiste ugualmente il dolo, perché, se questo era l'originario elemento soggettivo, l'offesa di una persona invece di un'altra (oppure l'offesa per errore anche di un'altra persona) non vale a mutare la direzione della volontà (Cass. pen., Sez. I, 6 aprile 2006, n. 15990).

Anche per questa diversa ipotesi di aberratio è prevista la forma bioffensiva, che si ha quando l'agente offende sia il soggetto avuto di mira, sia il soggetto diverso: in tale ipotesi l'art. 82, comma 2, c.p. prevede l'applicazione di un cumulo giuridico temperato (aumento fino alla metà della pena da irrogare per il reato più grave), non dissimile da quello previsto in tema di concorso formale di reati (art. 81, comma 1, c.p.).

3) la c.d. aberratio causae: in tale caso si ha uno svolgimento della catena causale diversa da quello prevista dall'autore (ad es. Tizio spinge Caio giù da un'alta scogliera per ucciderlo ma Caio, anziché morire per le lesioni conseguenti alla caduta, come previsto dall'agente, perisce per annegamento). Tale forma di aberratio non trova alcun espresso riferimento normativo, essendo stata elaborata dalla dottrina con riferimento ai reati a forma vincolata, in relazione ai quali potrebbe configurarsi un'esclusione del dolo per errata rappresentazione del nesso causale (per i reati a forma libera o causalmente orientati, essendo indifferente la modalità di realizzazione dell'evento, tale istituto non troverà applicazione). Tale forma di aberratio non pare trovare accoglimento in giurisprudenza (Cass. pen., Sez. IV, n. 1673/1986).

In evidenza

Occorre precisare che in caso di realizzazione di un reato diverso per titolo, rispetto a quello voluto e, per di più, commesso in danno di persona diversa da quella avuta di mira la giurisprudenza propende per una soluzione di tipo sostanziale, dando rilievo dirimente alla diversità effettiva o meno dell'evento cagionato (evento da intendersi in senso lato). Sulla base di questa accezione ampia di evento la S.C. ha affermato che “Integra un'ipotesi di aberratio ictus, disciplinata dall'art. 82 c.p., e non di "aberratio delicti", prevista dall'art. 83 c.p., la condotta consistita nel compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte di una persona, quando tale condotta, per errore, è indirizzata nei confronti di una vittima diversa da quella che si intendeva attingere, cagionandosene il ferimento, poiché l'errore non determina la realizzazione di un evento di natura diversa da quello che l'agente si proponeva ma, cadendo sull'oggetto materiale del reato, dà luogo ad un'azione che, pur non offendendo il bene-interesse specificamente preso di mira, lede lo stesso bene-interesse di altra persona, e che, sotto il profilo soggettivo, è sorretta da una volontà la cui direzione non muta” (Cass. pen., Sez. VI, 2 luglio 2014, n. 45065).

Inoltre, in ordine alla c.d. aberratio ictus, valorizzato il suo carattere doloso, si è evidenziata la sua compatibilità tra la circostanza aggravante della premeditazione (Cass. pen., Sez. I, 17 gennaio 2014, n. 16711).

Nonostante l'espresso richiamo dell'art. 60 c.p. contenuto nell'art. 82 c.p., l'aberratio ictus deve tenersi nettamente distinta da quella particolare ipotesi di errore-motivo che investe l'identità e le qualità proprie della persona offesa (art. 60 c.p., artt.609-sexies e 602-quater c.p.), di cui si è già parlato. Infatti – mentre nell'ipotesi contemplata dall'art. 82 c.p. l'agente si è correttamente determinato in ordine al soggetto da offendere ma, per errore-inabilità o per altre circostanze, incidenti nella fase esecutiva del reato, l'offesa viene poi arrecata ad altro soggetto – nel diverso caso di errore sulle qualità della persona offesa (artt. 47 e 60 c.p.) la falsa rappresentazione (o l'ignoranza) si manifesta nella fase ideativa del reato, viziando la volontà e la determinazione dell'autore del fatto.

Aspetti processuali

L'errore (sul precetto o sul fatto), rappresentando un istituto di diritto penale sostanziale che, al contempo, investe il dolo (rectius, l'elemento soggettivo del reato) e le cause di esclusione della colpevolezza, pone seri e delicati problemi di ordine processuale in relazione al riparto dell'onere della prova.

Sul punto, in giurisprudenza si sono formati due orientamenti, uno più garantista, l'altro più rigoroso.

In base al primo orientamento, affermatosi in risalenti pronunce, mentre è onere della difesa fornire la prova dell'errore di fatto addotto per l'applicazione di una esimente (legittima difesa, stato di necessità, ecc.), sull'imputato non grava anche l'onere della prova per l'errore di fatto che inficia la coscienza della volontà dell'azione, cioè il necessario rapporto volontaristico tra il fatto ed il suo agente (Cass. pen., Sez. V, n. 915/1970).

Per il secondo orientamento, invece, rappresentando l'errore una causa di esclusione della colpevolezza, sussisterebbe, invece, a carico dell'imputato che la invochi (quantomeno) un onere di allegazione di elementi e circostanze fattuali che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore(Cass. pen., Sez. II, n. 2157/1970; Cass. pen., Sez. II, 7 febbraio 2013, n. 20171; Cass. pen., Sez. III, 7 ottobre 2014, n. 949).

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