Astreinte - Penalità di mora

Raffaele Tuccillo
21 Settembre 2022

L'art. 114, comma quarto, lett. e), c.p.a. ha introdotto nell'ambito del giudizio amministrativo le penalità di mora, c.d. astreintes, consistenti in una somma di denaro da pagare da parte del debitore inadempiente in favore del creditore, qualora questo si rifiuti di ottemperare all'ordine del giudice di eseguire la prestazione dovuta.
Inquadramento

Contenuto in fase di aggiornamento autorale di prossima pubblicazione

Il titolo I del libro IV del codice del processo amministrativo, nel disciplinare il giudizio di ottemperanza, regolamenta i poteri del giudice riprendendo quanto era già desumibile dall'evoluzione giurisprudenziale dell'istituto.

Carattere innovativo presenta, tuttavia, la lettera e) del quarto comma dell'art. 114 c.p.a., mediante la quale il legislatore ha introdotto un mezzo di coazione indiretta, simile alle astreintes previste in altri ordinamenti giuridici. Le astreintes consistono in una somma di denaro da pagare da parte del debitore inadempiente in favore del creditore, qualora questo si rifiuti di ottemperare all'ordine del giudice di eseguire la prestazione dovuta (CHIEPPA R. Il codice del processo amministrativo. Commento a tutte le novità del giudizio amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104), Milano, 2010, 492; si vedano altresì AA.VV., Codice del processo amministrativo, diretto da R. CHIEPPA, Milano, 2017, 621 s.; R. DE NICTOLIS, Codice del processoamministrativo commentato, Milano, 2017, IV ed., 1749 ss.). Pertanto, l'astreinte costituisce un mezzo di coazione indiretta, mentre la nomina del commissario ad acta, che provvede in luogo dell'amministrazione, comporta una misura attuativa del giudicato ispirata ad una logica surrogatoria.

Funzione

L'introduzione della penalità di mora, sotto il profilo sistematico, consiste in una importante innovazione che ha imposto una rimeditazione che attenuta le differenze esistenti tra l'ordinamento giuridico interno e l'evoluzione giurisprudenziale e normativa di altri ordinamenti.

Il modello italiano dell'ottemperanza attribuisce al giudice amministrativo in sede di giurisdizione di merito il compito di sostituirsi all'amministrazione, differenziandosi dal differente modello che affida le esigenze di tutela dell'interesse del privato all'esecuzione delle decisioni giurisdizionali emesse nei confronti della pubblica amministrazione da parte del giudice per la violazione o il ritardo nell'esecuzione del giudicato, in alcune ipotesi, rafforzando l'effetto di coazione con la denuncia alle autorità giurisdizionali competenti in materia di danno erariale, previsto ad esempio nel modello francese.

La nuova previsione dell'art. 114, quarto comma, lett. e), c.p.a. assume pertanto un'importanza storica, permettendo la trasposizione nell'ordinamento italiano, ad istanza di parte, del modello compulsorio prevalentemente seguito da altri ordinamenti europei; è stata quindi confermata la tradizione del sistema dell'esecuzione surrogatoria, ma con il contemperamento della possibile adozione di un meccanismo di coercizione indiretta.

L'art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a., prevede che il giudice, in caso di accoglimento del ricorso, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo. Nei giudizi di ottemperanza aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, la penalità di mora di cui al primo periodo decorre dal giorno della comunicazione o notificazione dell'ordine di pagamento disposto nella sentenza di ottemperanza; detta penalità non può considerarsi manifestamente iniqua quanto è stabilita in misura pari agli interessi legali.

Nel codice di procedura civile, l'art. 614-bis, comma 1, c.p.c., introdotto dall'art. 49, comma 1, della l. n. 68 del 2009, con riferimento ad alcuni obblighi di fare infungibili o di non fare, ha previsto la possibilità per il giudice civile di disporre la condanna dell'obbligato alla corresponsione di una somma di denaro dovuta per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento.

Secondo la giurisprudenza amministrativa, l'istituto costituisce una misura coercitiva indiretta a carattere pecuniario, che mira a vincere la resistenza del debitore inducendolo ad adempiere all'obbligazione posta a suo carico dal giudice (Cons. Stato, sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688).

Più in particolare è stato osservato che “La penalità di mora (c.d. astreinte) è una misura esecutiva indiretta a carattere pecuniario che mira a vincere la resistenza del debitore e assolve ad una funzione coercitivo-sanzionatoria e non ad una funzione riparatoria” (Cons. Stato, Ad. plen., 25 giugno 2014, n. 15, in Foro it., 2016, III, 99; in senso conforme Cons. St., Ad. plen. 9 maggio 2019, n.7). L'astreinte non ha carattere risarcitorio, in quanto non è diretta a ristorare il pregiudizio subìto per la mancata esecuzione della pronuncia. Si tratta di uno strumento di pressione sulla volontà dell'obbligato e, quindi, di esecuzione civile indiretta: con tale misura viene sanzionato l'inadempimento della sentenza del giudice, spronando il debitore ad adempiere. Pertanto, il creditore insoddisfatto, qualora sussistano i presupposti richiesti dalla legge, potrà chiedere al giudice dell'ottemperanza l'applicazione della misura sanzionatoria, senza alcuna esclusione o riduzione della tutela risarcitoria.

Secondo una ricostruzione giurisprudenziale, la penalità di mora ha una natura sanzionatoria, perché assolve ad una funzione deterrente e general-preventiva (Cons. Stato, sez. IV, 21 agosto 2013, n. 4216), come emerge anche dal tenore della norma che nel dettare i criteri guida per la quantificazione dell'ammontare della sanzione, considera la misura del danno quantificato e prevedibile solo uno dei

parametri di commisurazione in quanto prende in considerazione anche altri profili, estranei alla logica riparatoria, quali il valore della controversia, la natura della prestazione e ogni altra circostanza utile, tra cui si può annoverare il profitto tratto dal creditore per effetto del suo inadempimento.

Sulla ricostruzione delle astreintes si veda anche Cons. giust. amm. reg. sic., 22 gennaio 2013, n. 26 secondo cui, in prospettiva generale, occorre distinguere: n1) l'azione di risarcimento del danno legato all'inadempimento di un'obbligazione (c.d. responsabilità contrattuale) o all'esistenza di un danno ingiusto cagionato da un fatto doloso o colposo ex art. 2043 c.c. (c.d. responsabilità aquiliana) che deve essere allegato e provato; n2) le pene private che sono quelle minacciate e applicate dai privati nei confronti di altri privati e che trovano la loro fonte o in un contratto oppure in uno status; n3) le sanzioni civili indirette che sono misure afflittive di carattere patrimoniale previste dalla legge ed applicate dall'autorità giudiziaria; n4) i danni punitivi che negli ordinamenti di stampo anglosassone hanno lo scopo di punire il danneggiante per un fatto grave e riprovevole aggiungendosi alle somme riconosciute al danneggiato per risarcire il pregiudizio effettivamente subito; n5) e pertanto, “a fronte delle tesi che qualificano l'istituto disciplinato dall'art. 114, c. 4, lett. e), c.p.a. o come forma di risarcimento forfettario e anticipato del danno da quantificare sempre con riferimento all'accertamento di un effettivo pregiudizio subito dal danneggiante o come eccezionale previsione di danni punitivi, è preferibile la tesi che lo inquadra tra le sanzioni civili indirette (anche perché in tema di esecuzione di giudicato è pacifico che la posizione è di diritto soggettivo) così conseguentemente permettendo (ed imponendo) al giudice di riferirsi nella sua determinazione anche alla posizione vantata dal ricorrente”.

Presupposti

L'art. 114, quarto comma, lett. e), c.p.a. individua tre presupposti per l'applicazione della misura: uno positivo, rappresentato dalla richiesta di parte, e due negativi consistenti nell'insussistenza di profili di manifesta iniquità e nella non ricorrenza di altre ragioni ostative.

La penalità di mora non può essere applicata d'ufficio come per gli altri poteri di esecuzione del giudicato, ma presuppone una richiesta di parte, a differenza di quanto previsto nell'ordinamento francese.

La misura può essere disposta ove ciò non sia manifestamente iniquo, ovvero non sussistano altre ragioni ostative.

Sul punto, la giurisprudenza (Tar Campania, Salerno, sez. I, 5 novembre 2018, n. 1580) ha ritenuto idonea al fine di escludere la misura l'esiguità del debito tale da far apparire l'invocata penalità di mora eccessivamente afflittiva, e in alcuni casi anche lo stato della finanza pubblica (Tar Marche, sez. I, 15 ottobre 2018, n. 664). Si tratta di una valutazione rimessa, in ogni caso, alla valutazione discrezionale dell'autorità giudiziaria.

In particolare, ferma restando l'assenza di preclusioni astratte sul piano dell'ammissibilità e l'esigenza di supportare la decisione con adeguata motivazione (Cons. Stato, sez. IV, 24 dicembre 2015, n. 5831), spetterà al giudice dell'ottemperanza, dotato di un ampio potere discrezionale sia in sede di scrutinio delle ricordate esimenti che in sede di determinazione dell'ammontare della sanzione, verificare se le circostanza addotte dal debitore pubblico assumano rilievo al fine di negare la sanzione o di mitigarne l'importo (Cons. Stato, sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1444). La giurisprudenza ha precisato che la considerazione delle peculiari condizioni del debitore pubblico, al pari dell'esigenza di evitare locupletazioni eccessive o sanzioni troppo afflittive, costituiscono fattori da valutare non ai fini di un'astratta inammissibilità della domanda relativa a inadempimenti pecuniari, ma in sede di verifica concreta della sussistenza dei presupposti per l'applicazione della misura nonché al momento dell'esercizio del potere discrezionale di graduazione dell'importo; la necessità di contemperare il diritto dei creditori con le previsioni e le esigenze di bilancio giustificano, in concreto, la mancata condanna della parte pubblica al pagamento dell'astreinte (Tar Lazio, sez. II, 31 agosto 2018, n. 9108).

Si è ancora rilevato che il giudizio di manifesta iniquità deve essere svolto in due differenti momenti. In particolare, il giudice dell'ottemperanza è chiamato a svolgere una duplice valutazione discrezionale, riguardante dapprima la verifica concreta della sussistenza dei presupposti per l'applicazione della detta misura e, dunque, lo scrutinio in ordine all'eventuale ricorrere di circostanze atteggiantesi quali fondamento di manifesta iniquità, ovvero altrimenti ostative, ai sensi della prima parte della lett. e) dell'art. 114 c.p.a. e, successivamente, la graduazione dell'importo la quale, incontra il limite negativo della manifesta iniquità, oggi normativamente individuato in misura corrispondente agli interessi legali. Ne discende che la misura degli interessi legali non può ritenersi manifestamente iniqua (Tar Campania, sez. VIII, 28 agosto 2018, n. 5284; Tar Lazio, sez. II bis, 19 giugno 2017, n. 7144).

I presupposti richiesti dal codice del processo amministrativo sono differenti da quelli previsti per la concessione della misura dal codice di procedura civile. Mentre la sanzione di cui al 614-bis c.p.c. è adottata con la sentenza di cognizione che definisce il giudizio di merito, la penalità è irrogata dal giudice amministrativo, in sede di ottemperanza, con la sentenza che accerta il già intervenuto inadempimento dell'obbligo di contegno imposto dal comando giudiziale. Di conseguenza, nel processo civile la sanzione è ad esecuzione differita, in quanto la sentenza che la commina si atteggia a condanna condizionata (o in futuro) al fatto eventuale dell'inadempimento del

precetto giudiziario nel termine all'uopo contestualmente fissato; al contrario, nel processo amministrativo l'astreinte, salva diversa valutazione del giudice, può essere di immediata esecuzione, in quanto è sancita da una sentenza che, nel giudizio d'ottemperanza di cui agli artt. 112 ss. c.p.a., ha già accertato l'inadempimento del debitore. Le astreintes disciplinate dal codice del processo amministrativo presentano, almeno sul piano formale, una portata applicativa più ampia rispetto a quelle previste nel processo civile, in quanto non si è riprodotto nell'art. 114, comma quarto, lett. e, c.p.a., il limite della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare o un fare infungibile.

La norma del codice del processo amministrativo non richiama i parametri di quantificazione dell'ammontare della somma fissati dall'art. 614 bis c.p.c. (anche se spesso la giurisprudenza fa comunque riferimento a questi al fine di quantificare l'ammontare della misura). Il codice del processo amministrativo prevede, accanto al requisito positivo dell'inesecuzione della sentenza e al limite negativo della manifesta iniquità, l'ulteriore presupposto negativo consistente nella ricorrenza di ragioni ostative.

(Segue): la manifesta iniquità sopravvenuta

In tema di presupposti della misura in esame occorre evidenziare che l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 7 del 9 maggio 2019, ha chiarito che è possibile, in sede di ottemperanza di chiarimenti, modificare la statuizione relativa alla penalità di mora contenuta in una precedente sentenza di ottemperanza, ove siano comprovate sopravvenienze fattuali o giuridiche che dimostrino la manifesta iniquità della sua applicazione. Salvo il caso di sopravvenienze, non è possibile revisionare con effetti ex tunc i criteri di determinazione delle astreinte dettati in sede di ottemperanza, tuttavia, ove il giudice dell'ottemperanza non abbia fissato il tetto massimo della penalità e la vicenda successiva alla determinazione abbia fatto emergere, a causa della mancanza del tetto, la manifesta iniquità della misura, questo può essere individuato in sede di chiarimenti.

Il giudizio di ottemperanza presenta un contenuto composito, entro il quale convergono azioni diverse, talune riconducibili all'attuazione del comando giudiziale e alla concretizzazione dei suoi effetti conformativi, altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei confronti della pubblica amministrazione, altre ancora aventi natura di cognizione. Il regime di stabilità della decisione adottata in sede di ottemperanza non può che seguire la natura composita dei relativi contenuti e differenziarsi in relazione ad essi. Le statuizioni accessorie di carattere meramente strumentale alla materiale esecuzione del precetto, cristallizzatosi a seguito della fase di cognizione e di attuazione, attivano strumenti surrogatori o compulsori, la cui unica funzione è di garantire il principio di effettività della tutela consacrato all'art. 1 c.p.a. ne discende che tutte le volte in cui le misure strumentali, surrogatorie o compulsorie, siano incise nella loro efficacia da fatti o circostanze sopravvenute, esse debbano poter essere ricalibrate dal giudice dell'ottemperanza in modo da preservarne il nesso di strumentalità, come ad esempio in ipotesi di temporanea o definitiva inesigibilità della prestazione secondo l'ordinaria diligenza. L'ordinamento non tollera spostamenti patrimoniali in assenza di una valida causa, anche qualora la fonte di tale spostamento sia una sentenza. Ne discende che l'autorità giudiziaria è competente a svolgere un controllo successivo del precetto ove le sopravvenienze rendano lo sviluppo della condanna nel tempo non più coerente con la sua funzione, in senso sostanzialmente analogo a quanto previsto dall'art. 1384 c.c. in tema di clausola penale. L'insediamento del commissario ad acta, integrando una ipotesi di impossibilità soggettiva sopravvenuta che rende non più funzionale e utile l'astreinte, ne impone la soppressione ex nunc. Ne discende che “l'esigenza di una modifica in itinere dell'astreinte è insita nei principi dell'ordinamento, nella peculiare configurazione del processo di ottemperanza, ed è il frutto del carattere necessariamente condizionato della condanna, del novero e della modulazione degli strumenti attuativi a disposizione del giudice”.

Per quanto concerne la possibilità di riformare con effetto ex tunc l'astreinte, tale da travolgere gli atti di esecuzione forzata nelle more avviati dal creditore, la Plenaria osserva che deve essere, in primo luogo, escluso che la misura possa essere oggetto di un atipico gravame, idoneo a condurre a un riesame sotto il profilo dell'equità dei contenuti della condanna, nonché a una revisione della stessa. La misura è proiettata al futuro, condizionata al comportamento inadempiente del debitore e può logicamente scomporsi in una fase in cui vige una minaccia in funzione compulsoria, a prevenzione di un ipotetico adempimento, e in una seconda fase in cui la minaccia diviene, sulla base della constatazione del comportamento concretamente manifestato dal debitore, una sanzione. Anche se non previste espressamente dal legislatore è quindi necessaria una doppia fase di valutazione, quando gli eventi successivi abbiano determinato una sopravvenuta iniquità della sanzione. “La sanzione, a differenza della minaccia, necessita di controllo e rivalutazione al fine di assicurarne la correlazione all'effettivo e colposo inadempimento e scongiurarne la non manifesta iniquità in concreto. Quando da tale nuova valutazione, fatta ex post, derivi la necessità di una riduzione o di una parziale elisione della sanzione, le conseguenze possono ben incidere sull'efficacia del titolo esecutivo già formatosi, posto che l'efficacia di titolo esecutivo non è affatto incompatibile con il carattere precario dello stesso”. I chiarimenti sono la sede naturale ove valutare le sopravvenienze.

Anche a prescindere dalle sopravvenienze, in alcuni specifici e circoscritti casi in cui è mancata la valutazione di non manifesta iniquità e la fissazione di un tetto massimo cui riferire la valutazione suddetta, è necessario un presidio di garanzia e controllo del giudice dell'ottemperanza, utile a evitare che l'evoluzione del meccanismo di calcolo provochi uno snaturamento dell'astreinte privandolo di ogni collegamento con i parametri oggettivi di cui agli artt. 614 bis c.p.c. e 114 c.p.a. e, di fatto, trasformandola in un trasferimento coattivo di ricchezza senza causa. Una condanna ipotetica che non fissi l'ammontare massimo diviene fonte di sproporzionata e iniqua locupletazione del privato in danno della controparte e si pone in contrasto con i principi cardine di garanzia in materia sanzionatoria, applicabili anche all'astreinte, mutuabili da quelli penali. Nel giudizio amministrativo, l'esigenza della fissazione del tetto massimo e della sua ponderata valutazione è ancora più avvertita in quanto il ricorrente insoddisfatto ha comunque a disposizione l'alternativa del commissario ad acta, un rimedio surrogatorio potenzialmente idoneo a conferirgli lo specifico bene della vita cui effettivamente aspira; “la fissazione del tetto massimo della penalità e la valutazione, da parte del giudicante, della relativa non manifesta iniquità, è dunque, nell'ottica sopradetta, elemento assolutamente necessario ed ineludibile”.

Astreinte e giudicato

In base all'art. 112, secondo comma, lett. b), c.p.a. possono essere oggetto del giudizio di ottemperanza anche le sentenze del giudice amministrativo non passate in giudicato e non sospese dal Consiglio di Stato ai sensi degli artt. 98 e 111 c.p.a.

Se tale principio risulta pacifico in base al tenore letterale delle disposizioni richiamate, è invece dibattuta in giurisprudenza l'individuazione degli strumenti ammessi per l'ottemperanza di una sentenza non ancora passata in giudicato, discutendosi in particolare se possa essere applicato l'istituto della penalità di mora.

Secondo un orientamento, l'istituto può essere applicato solo per l'ottemperanza delle sentenze passate in giudicato (Cons. Stato, sez. IV, 10 maggio 2018, n. 2815; Tar Lazio, sez. II, 7 agosto 2017, n. 9233; Tar Lazio, sez. III bis, 5 agosto 2016, n. 9158; Cons. Stato, sez. V, 18 marzo 2014, n. 1335; Tar Basilicata, sez. I, 21 luglio 2011, n. 416) con conseguente esclusione dall'ambito di applicazione della penalità di mora delle ipotesi di mancata attuazione delle sentenze non definitive o delle ordinanze.

La conclusione in questione muove dal tenore letterale dell'art. 114, quarto comma, lett. e), c.p.a. che fa espresso riferimento al giudicato, con la conseguenza che in mancanza di passaggio in giudicato l'istituto non potrebbe trovare applicazione. Inoltre, si evidenzia che se la sentenza non è passata in giudicato non sussiste certezza in ordine al buon fine della domanda e alla concreta soddisfazione della pretesa, ragione per cui non può dirsi maturato un effettivo diritto al riconoscimento del danno da ritardo rispetto a un provvedimento futuro che ancora non si sa se sarà favorevole.

Un diverso orientamento (Tar Campania, sez. II, 16 novembre 2017, n. 5408; Tar Campania, sez. V, 30 agosto 2017, n. 4217) ritiene che la penalità di mora, su istanza di parte, possa essere applicata anche dal giudice dell'ottemperanza chiamato a dare esecuzione ad un provvedimento giurisdizionale esecutivo ma non definitivo.

Si osserva, effettivamente (M. LIPARI, L'effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, in www.federalismi.it, 2010), che non vi sarebbe ragione per escludere l'applicazione delle penalità di mora rispetto alle sentenze amministrative esecutive, in quanto l'istituto ha una funzione di deterrente dell'ottemperanza ed è quindi idoneo ad assicurare l'esecuzione anche di pronunce solo esecutive. L'art. 114, quartocomma, lett. e), c.p.a. andrebbe letto alla luce del principio generale dell'esecutività delle sentenze amministrative di primo grado. Il giudice amministrativo, inoltre, potrebbe applicare l'astreinte anche per dare esecuzione alle ordinanze cautelari ai sensi dell'art. 59 c.p.a., in quanto il codice richiama i poteri attribuiti al giudice dell'ottemperanza.

Termine di decorrenza e termine dilatorio

Sul termine di decorrenza delle astreintes applicate dal giudice amministrativo in caso di inottemperanza di una sentenza sono presenti in giurisprudenza diversi orientamenti.

In base a una prima ricostruzione, gli effetti dell'astreinte decorrono dal giorno della notifica del ricorso per l'ottemperanza e, quindi, in sostanza retroattivamente rispetto alla pronuncia (Tar Lazio, sez. I quater, 21 agosto 2015, n. 10912; Trga Trentino-Alto Adige, 12 febbraio 2015, n. 61; Tar Lazio, sez. I, 15 gennaio 2015, n. 629, e Tar Lazio, sez. I, 15 dicembre 2014, n. 12647).

Una diversa ricostruzione ritiene che i relativi effetti decorrano dalla notifica del provvedimento giurisdizionale da ottemperare; in questo caso l'amministrazione dovrebbe dare esecuzione alla pronuncia giurisprudenziale immediatamente (Tar Lazio, sez. II, 18 febbraio 2015, n. 2763, e Tar Lazio, sez. II, 4 febbraio 2015, n. 3054).

Altro orientamento individua invece il passaggio in giudicato della sentenza di merito come parametro temporale per individuare la decorrenza delle penalità di mora (Cons. Stato, sez. IV, 10 maggio 2018, n. 2815; Tar Puglia, sez. II, 27 giugno 2018, n. 939).

Un diverso orientamento ritiene ancora che gli effetti dell'astreinte decorrono dal giorno della comunicazione o notificazione della sentenza di ottemperanza, poiché non si può far decorrere la penalità di mora da un momento antecedente rispetto alla pronuncia di ottemperanza. La penalità di mora, avendo natura sanzionatoria, decorre dal giorno della comunicazione in via amministrativa o dalla notificazione del provvedimento contenente l'ordine di pagamento formulato dal giudice (Cons. Stato, sez. IV, 5 febbraio 2016, n. 469, in Foro it., 2016, III, 154; Cons. Stato, sez. IV, 24 dicembre 2015, n. 5831; Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 2015, n. 5580; Cons. Stato, sez. IV, 21 settembre 2015, n. 4414).

La l. 28 dicembre 2015, n. 208, ha modificato l'art. 114, quartocomma, lett. e), c.p.a., introducendo la previsione secondo cui nei giudizi di ottemperanza aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro la penalità di mora decorre dal giorno della comunicazione o notificazione dell'ordine di pagamento disposto dalla sentenza di ottemperanza. Il legislatore ha così avallato l'interpretazione secondo la quale la penalità di mora decorre dal giorno della comunicazione o notificazione del provvedimento contenente l'ordine di pagamento formulato dal giudice. In teoria si potrebbe ritenere che la nuova disposizione si applichi ai soli giudizi di ottemperanza aventi ad oggetto l'esecuzione di sentenze concernenti obbligazioni pecuniarie, argomentando dal tenore letterale degli enunciati linguistici utilizzati dal legislatore, tuttavia, si osserva che gli effetti dell'astreinte non possono retroagire al momento della notificazione o comunicazione della sentenza di merito, dato che la ragione stessa dell'istituto in esame è quella di stimolo all'adempimento. Inoltre, il dato letterale presuppone che la penalità di mora venga applicata per ogni successivo giorno di ritardo, con la conseguenza che dovrebbe poter operare solo per il futuro.

Il ruolo delle astreinte nel giudizio di cognizione

Una delle principali differenze che emergono tra la disciplina del codice di procedura civile e quella del codice del processo amministrativo in tema di penalità di mora riguarda la fase processuale nel corso della quale può essere applicato l'istituto. Mentre nel giudizio civile la somma è applicabile per tutte le tipologie di sentenze, nel giudizio amministrativo la condanna in oggetto è apponibile alle sole sentenze pronunciate in sede di ottemperanza.

Secondo un orientamento, al giudice amministrativo competerebbero, già in sede di sentenza di merito, sulla base dell'art. 34, primo comma, lett. c) ed e), c.p.a., i poteri che generalmente gli competono in sede di ottemperanza. L'art. 34, lett.e), c.p.a., nel descrivere i possibili contenuti delle sentenze di merito, contempla anche l'adozione delle misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione.

Una diversa ricostruzione sostiene invece che l'assegnazione di un potere del genere nel giudizio di cognizione non potrebbe desumersi dall'art. 34, lett. e), c.p.a. che richiama espressamente solo il potere di nominare un commissario ad acta. Inoltre, l'art. 114, quarto comma, lett. e), c.p.a. non potrebbe comunque essere interpretato estensivamente. Infatti solo il giudice dell'ottemperanza è in grado di conoscere i fatti avvenuti dopo il provvedimento di condanna e può perciò calibrare la misura della penalità di mora alla luce delle vicende successive alla sentenza di merito.

Le decisioni di condanna pecuniaria

In passato, era discussa in giurisprudenza l'applicabilità della penalità di mora alle sentenze di condanna pecuniaria.

Secondo un orientamento maggioritario, la penalità di mora era applicabile anche alle sentenze di condanna pecuniaria, in quanto l'istituto avrebbe un ambito di applicazione non limitato ai soli obblighi infungibili (tra le altre: Cons. Stato, sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 462; Cons. Stato, 21 agosto 2013, n. 4216, n. 1176; Cons. Stato, sez. V 15 luglio 2013, n. 3781).

Un diverso indirizzo riteneva non applicabile l'astreinte alle sentenze di condanna pecuniaria per due ordini di ragioni. In primo luogo, si evidenziava una sorta di parallelismo tra l'astreinte prevista dall'art. 114, quarto comma, lett. e), c.p.a. e quella prevista dall'art. 614-bis c.p.c. che ne limita l'applicabilità ai soli obblighi di fare infungibili. In secondo luogo, si sottolineava che l'obbligo oggetto di domanda giudiziale di adempimento, in caso di obbligazione pecuniaria, è già assistito, per il caso di ritardo nel suo adempimento, dall'obbligo accessorio degli interessi legali, cui la somma dovuta a titolo di astreinte andrebbe ulteriormente ad aggiungersi( tra le altre: Tar Lazio, sez. II, 17 giugno 2014, n. 6401; Tar Marche, sez. IV, 13 giugno 2014, n. 238; Tar Puglia, sez. I, 10 gennaio 2014, n. 82; Cons. Stato, sez. III, 6 dicembre 2013, n. 5819).

L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 15 del 2014, ha precisato che nell'ambito del giudizio di ottemperanza la comminatoria delle penalità di mora è ammissibile per tutte le decisioni di condanna di cui all'art. 113 c.p.a. ivi comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni di natura pecuniaria.

La penalità di mora ha un ambito di applicazione generale e nell'art.114 c.p.a. non vi è alcun riferimento esplicito o implicito alla misura esecutiva indiretta processualcivilistica, nonostante che la relazione governativa di accompagnamento al codice del processo amministrativo facesse esplicito rinvio all'art. 614-bis c.p.c. Infatti, il richiamo alla disposizione del codice di procedura civile deve essere inteso come richiamo della fisionomia dell'istituto e non come recepimento della sua disciplina puntuale. Il legislatore del c.p.a. ha adottato una tecnica legislativa diversa da quella del legislatore del c.p.c. in quanto non ha riprodotto il limite dell'applicazione dell'istituto in esame al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi per oggetto un non fare o un fare infungibile. Occorre comunque segnalare che la l. 6 agosto 2015 n. 132, ha modificato l'art. 614-bis c.p.c. oggi rubricato misure coercitive indirette, prevedendone l'ammissibilità in presenza di qualunque provvedimento di condanna rimasto ineseguito, ad eccezione soltanto dei provvedimenti di condanna all'obbligo di pagamento di somme di denaro. L'astreinte, nel processo amministrativo, costituisce uno degli strumenti di cui dispone il giudice dell'ottemperanza per far sì che vengano eseguiti i provvedimenti giurisdizionali. Al giudice amministrativo spetta, ai sensi dell'art. 114, quarto comma, c.p.a., sia il potere sostitutivo, il quale può essere esercitato in forma diretta o indiretta attraverso un commissario ad acta, sia il potere di applicare, qualora sussistano i requisiti di legge, la penalità di mora.

La diversità delle scelte del legislatore per il processo civile e per quello amministrativo si giustifica in ragione della diversa struttura delle tecniche di esecuzione in cui trova collocazione il rimedio in esame. Nel processo civile, stante la distinzione tra sentenze eseguibili in forma specifica e pronunce non attuabili, la previsione della penalità di mora per le sole pronunce non eseguibili in modo forzato mira a introdurre una tecnica di coercizione indiretta che colmi l'assenza di una forma di esecuzione diretta. Nel processo amministrativo, invece, la norma si cala in un archetipo processuale in cui, grazie alle peculiarità del giudizio di ottemperanza, caratterizzato dalla nomina di un commissario ad acta con poteri sostitutivi, tutte le prestazioni sono surrogabili, senza che sia dato distinguere a seconda della natura delle condotte imposte. La penalità di mora, assumendo una più marcata matrice sanzionatoria che completa la veste di strumento di coazione indiretta, consiste in una tecnica compulsoria che si aggiunge alla tecnica surrogatoria del giudizio di ottemperanza. Questa fisionomia impedisce di distinguere a seconda della natura della condotta ordinata dal giudice, posto che anche per le condotte di facere o non facere vige il requisito della surrogabilità della prestazione e, quindi, l'esigenza di prevedere un rimedio integrativo di quello surrogatorio.

Criteri di commisurazione

I parametri oggettivi per la sua fissazione (come evidenziato anche da Cons. Stato, Ad. plen., 9 maggio 2019, n. 7) possono ricavarsi dall'art. 614 bis c.p.c., disposizione che esprime regole e criteri comunque ricavabili dai principi generali dell'ordinamento e quindi applicabili anche al giudizio amministrativo.

Ai sensi di tale disposizione “il giudice determina l'ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”. Gli indici individuati nella norma costituiscono un limite alla discrezionalità del giudice e conferiscono alla sanzione i caratteri della predeterminabilità e prevedibilità, contribuendo a prevenire possibili arbitri nell'esercizio della funzione giudicante e sono espressione di un principio generale.

L'assenza di un puntuale richiamo della disposizione processualcivilistica nell'art. 114 c.p.a. non si traduce nella inapplicabilità dei criteri ivi previsti nel processo amministrativo, ma discende dal fatto che l'impregiudicata possibilità della nomina di un commissario ad acta, abilitato a conferire al privato interessato la specifica utilità che la sentenza gli ha riconosciuto, sottende una limitazione della tutela compulsoria oltre quanto necessario alla ragionevole cura dell'interesse creditorio. In ciò sta l'essenza del criterio della non manifesta iniquità, da considerarsi ulteriore e peculiare rispetto agli indici operanti in via generale a limitazione della discrezionalità del giudicante, quando essi portino all'applicazione di un astreinte che, proprio in relazione alla sempre percorribile e risolutiva alternativa surrogatoria, potrebbe rilevarsi in concreto iniqua.

Tale orientamento è confermato dall'art. 1, comma 781, lett. a), l. 28 dicembre 2015, n. 208, ai sensi del quale “Nei giudizi di ottemperanza aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, la penalità di mora di cui al primo periodo decorre dal giorno della comunicazione o notificazione dell'ordine di pagamento disposto nella sentenza di ottemperanza; detta penalità non può considerarsi manifestamente iniqua quando è stabilita in misura pari agli interessi legali”. Il riferimento agli interessi legali, quale esempio di penalità di mora non manifestamente iniqua, è dunque illuminante anche per le obbligazioni di facere diverse da quelle pecuniarie, indicando un criterio guida che è selezionato in via prioritaria tra quelli enucleati dall'art. 614 bis c.p.c., costituito dal riferimento al danno da ritardo nell'acquisizione della disponibilità del bene della vita, sebbene a titolo di mero parametro stante la natura pacificamente sanzionatoria dell'astreinte, e ferma restando, naturalmente, la possibile concorrenza di un diverso e maggior danno (anche) da ritardo.

Il potere discrezionale del giudice è indubbiamente assai ampio, con l'unico limite della manifesta iniquità previsto dall'art. 114, quarto comma, lett. e), c.p.a.; limite che appare destinato ad esplicare operatività proprio con riferimento alle ipotesi in cui, avuto riguardo alla consistenza patrimoniale e non patrimoniale del bene della vita sotteso alla vicenda amministrativa e alla gravità dell'inadempimento dell'obbligo di esecuzione, l'astreinte disposta dal giudice possa risultare manifestamente sproporzionata o iniqua; è quindi presente nel sistema una “valvola di riequilibrio” interna che permette sostanzialmente una ricalibrazione e il controllo giudiziale dell'applicazione di una misura di coazione indiretta.

La misura della somma è comunque rimessa alla valutazione del giudice che incontra il limite della proporzionalità e dell'equità, da valutarsi anche alla luce dell'esigenza che la misura abbia un effetto deterrente effettivo.

In questo senso, la giurisprudenza ha ritenuto che la misura della sanzione pecuniaria quale astreinte è determinata e liquidata dal giudice dell'ottemperanza in misura discrezionale rispondente a criteri di ragionevolezza e proporzionalità (Cons. Stato, sez. IV, 9 ottobre 2017, n. 4670).

Sono stati, talvolta, ritenuti utilizzabili i criteri di quantificazione della somma indicati nell'ultimo comma dell'art. 614-bis c.p.c., secondo cui il giudice civile tiene conto, oltre che del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile.

La giurisprudenza (Cons. Stato, sez. IV, 25 luglio 2016, n. 3321) ha ritenuto che “ai fini della commisurazione dell'astreinte concessa per l'esecuzione di una sentenza di condanna all'equa riparazione per l'eccessiva durata del processo (la cosiddetta legge Pinto), è conforme a equità il parametro dell'interesse legale, peraltro ora esplicitamente indicato dall'art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a., così come modificato dalla legge n. 208 del 2015. Poiché la penalità di mora non deve risolversi in una ragione di ingiustificato arricchimento per il creditore, è eccessivo e non conforme a equità il parametro dell'interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea, aumentato di tre punti percentuali, previsto nella pronuncia di primo grado, dovendosi sostituirlo con quello dell'interesse legale”.

Secondo una ricostruzione giurisprudenziale (Tar Campania, sez. II, 25 giugno 2018, n. 4242) in tema di ottemperanza, “la quantificazione della penalità di mora deve essere effettuata in una misura percentuale rispetto alla somma di cui alla condanna, prendendo a riferimento il tasso legale di interesse. Quindi, l'astreinte verrà calcolata, nella misura indicata dell'interesse legale, sulla somma di cui alla condanna in aggiunta agli interessi legali dovuti ex lege o, come in questo caso, disposti nella medesima condanna, stante la funzione sanzionatoria della stessa (e non compensativa del danno subito), che deve anche costituire un elemento di coazione indiretta all'adempimento” (nel medesimo senso Tar Campania, sez. VIII, 5 giugno 2018, n. 3682).

In generale, con riferimento alla sua quantificazione è stato osservato (Tar Campania, sez. VII, 22 gennaio 2018, n. 443) che la stessa deve essere ancorata sia al dato temporale relativo all'inosservanza del giudicato, sia all'ammontare della somma di cui alla condanna rimasta ineseguita, e ciò in ragione della funzione sanzionatoria cui risponde l'astreinte, la quale è presidiata dal principio di proporzionalità della sanzione rispetto all'inadempimento dell'obbligo. Quindi, la quantificazione va effettuata in una misura percentuale rispetto alla somma di cui alla condanna (che nel caso concreto è stabilita in una somma capitale e una somma accessoria pari agli interessi legali al saldo), prendendo a riferimento il tasso legale di interesse quale criterio di commisurazione della penale da ritardata corresponsione al creditore della somma di denaro di cui alla pronuncia da ottemperare.

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