Controversie di lavoro

Alessandro Corrado
14 Febbraio 2019

Quando l'impresa è assoggettata al fallimento, le questioni relative ai rapporti di lavoro subordinato implicano spesso la necessità di risolvere potenziali conflitti tra le norme del rito speciale del lavoro, cui esse sono di norma soggette, e quelle, altrettanto peculiari, riguardanti l'accertamento endofallimentare dei crediti.
Inquadramento

Avvertenza – Bussola in aggiornamento.



Quando l'impresa è assoggettata al fallimento, le questioni relative ai rapporti di lavoro subordinato implicano spesso la necessità di risolvere potenziali conflitti tra le norme del rito speciale del lavoro, cui esse sono di norma soggette, e quelle, altrettanto peculiari, riguardanti l'accertamento endofallimentare dei crediti.

Il diritto processuale è l'area in cui più che altrove si pone l'esigenza di conciliare i due ambiti normativi, quello concorsuale e quello della disciplina dei rapporti di lavoro, entrambi caratterizzati da spiccati caratteri di specialità.

La disamina si concentra sui rapporti tra cause di lavoro e fallimento: partendo dalla distinzione tra cause pendenti e cause già concluse alla data di dichiarazione del fallimento, si delineano le differenze di rito tra azioni di accertamento e azioni costitutive. Viene inoltre illustrata la diversità tra azioni di mero accertamento e di accertamento funzionale, e le conseguenze che da esse devono trarsi sul piano processuale, alla luce della giurisprudenza di legittimità.

Cause pendenti alla data di dichiarazione del fallimento e vis attractiva del tribunale fallimentare

Principio cardine in materia è l'art. 52 l.fall. (principio di esclusività), secondo il quale ogni credito, salvo diverse disposizioni di legge, deve essere accertato secondo le norme del capo V. Tutti i creditori che intendano quindi partecipare al riparto delle somme ricavate dalla liquidazione dell'attivo, devono proporre domanda di ammissione al passivo al giudice delegato ai sensi degli artt. 93 ss. l.fall. Tale rito garantisce un contraddittorio allargato a tutti i creditori, la concentrazione di tutte le questioni attinenti la formazione dello stato passivo avanti al giudice delegato e il rispetto delle esigenze di celerità e speditezza che informano di sé tutta la procedura fallimentare.

Detto principio implica inoltre che, se al momento della dichiarazione di fallimento sia già pendente un giudizio nei confronti del fallito, tendente all'accertamento di una pretesa creditoria nei suoi confronti, chi intenda partecipare al concorso (e non semplicemente munirsi di un titolo da far valere nei confronti del fallito tornato in bonis) non potrà riassumere o proseguire il giudizio nelle forme ordinarie nei confronti del curatore, ma dovrà necessariamente osservare le disposizioni del procedimento concorsuale: è questa la cosiddetta vis attractiva del foro fallimentare, per cui a norma dell'art. 24 l.fall. “il tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore”.

La formulazione dell'art. 24 l.fall. precedente l'entrata in vigore del d.lgs. n. 5/2006 indicava esplicitamente, tra quelle attratte alla competenza del tribunale fallimentare, le cause di lavoro. Tale riferimento espresso è venuto meno con la riforma del 2006, ma ciò non ha comportato modifiche sostanziali sotto questo punto di vista, vista la portata generale del comma 1 della norma citata.

Non tutte le azioni inerenti cause di lavoro, tuttavia, “derivano dal fallimento”, come la stessa Corte Costituzionale ha avuto modo di precisare in una sentenza in cui ha affermato che la vis attractiva opera, appunto, solo rispetto alle azioni che “derivano dal fallimento” come quelle relative alla verifica dei crediti, ma non rispetto ad azioni proposte dai dipendenti e dirette ad ottenere ad es. il riconoscimento di qualifiche superiori: per queste continuerà ad applicarsi pacificamente l'art. 413 c.p.c., che affida al giudice del lavoro le cause previste dall'art. 409 c.p.c., tra le quali si annoverano appunto quelle relative al lavoro subordinato (cfr. Corte Cost., 7 luglio 1988, n. 778).

Occorre dunque distinguere tra i vari tipi di azioni proposte dal dipendente, nei confronti delle quali la disciplina legislativa si atteggia in maniera diversa: la giurisprudenza più recente, come vedremo, le suddivide in azioni di accertamento, azioni costitutive e azioni con cui vengono avanzate pretese creditorie.

Mero accertamento e accertamento funzionale nelle cause di lavoro

Vi sono cause di lavoro in cui il dipendente domanda al giudice l'accertamento del rapporto o di alcuni suoi aspetti, come ad esempio la qualifica in concreto rivestita. Qualora si tratti di mero accertamento, non finalizzato cioè ad avanzare in seguito altre pretese, anche dopo la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore continua ad essere competente il giudice del lavoro.

Più spesso, tuttavia, il dipendente che chieda l'accertamento del rapporto di lavoro agisce al fine di ottenere una sentenza che accolga anche le sue pretese creditorie da far valere contro la massa. In questi casi la competenza è del tribunale fallimentare, poiché si considerano azioni “derivanti dal fallimento” tutte quelle idonee a incidere sul patrimonio del fallito; e tali sono ritenute anche le azioni di accertamento, se costituiscono la premessa di una pretesa nei confronti della massa(cfr. F.M. GIORGI, Interferenza lavoristica sulla “vis attractiva” del foro fallimentare, in www.fondazioneforense-firenze.it, 5 maggio 2014, 2).

La distinzione tra azione di mero accertamento e accertamento funzionale è stata tracciata in più occasioni dalla giurisprudenza, che ha costantemente affermato il principio secondo cui “esula dalla competenza funzionale del tribunale fallimentare ed è, invece, devoluta alla cognizione del giudice del lavoro, la controversia instaurata dal lavoratore che, senza avanzare pretese creditorie, chieda solo l'accertamento del proprio rapporto di lavoro alle dipendenze della società dichiarata fallita, dovendo, per contro, essere fatta valere in sede fallimentare una siffatta domanda, quando essa costituisca solo la premessa per ottenere, nello stesso giudizio, vantaggi patrimoniali di natura retributiva o risarcitoria” (Cass. civ. sez. lav., 18 giugno 2004, n. 11439).

L'orientamento ora riportato è da condividere: se infatti il lavoratore, celando una pretesa creditoria in una domanda di mero accertamento, potesse sfuggire al contraddittorio incrociato del giudizio di verifica, per poi utilizzare la decisione ottenuta in sede ordinaria nei confronti del curatore, a fondamento della domanda di ammissione al passivo, ciò svuoterebbe di contenuto il procedimento di verificazione dello stato passivo, che si risolverebbe in un mero “guscio vuoto”, semplice “registrazione contabile del quantum delle pretese, accertate altrove nei loro fatti costitutivi” (cfr. M. MACCHIA, Azione di mero accertamento del rapporto di lavoro e competenza del tribunale fallimentare, in Fall., 1988). Ciò sarebbe in contrasto con il principio che impone il simultaneus processus ed il controllo incrociato di tutti i partecipanti al concorso.

A fronte della linearità di tale distinzione, tuttavia, non è raro nella prassi il verificarsi di problemi procedurali, in particolare quando il lavoratore abbia già avviato l'azione di accertamento funzionale davanti al giudice del lavoro, non potendo magari prevedere il successivo fallimento del proprio datore. In questi casi, come esplicitato dalla Cassazione, si pone un problema non già di competenza del giudice del lavoro, bensì di rito, poiché la domanda è stata proposta con un rito diverso rispetto a quello previsto come necessario dalla legge. Pertanto il giudice erroneamente adito è tenuto a dichiarare non la propria incompetenza, ma l'inammissibilità, l'improcedibilità o l'improponibilità della domanda (Cass. civ. sez. lav., 2 agosto 2011, n. 16867; concorde anche Cass. civ. sez. lav., 2 febbraio 2010, n. 2411), che dovrà essere invece indirizzata al tribunale fallimentare. Da ciò consegue che il giudice dovrà procedere ai sensi dell'art. 427 c.p.c. e non dovrà pronunciare l'ordinanza di cui all'art. 38 c.p.c (F. APRILE e R. BELLÈ, Diritto concorsuale del lavoro,Milano, 2013, p. 121).

Inoltre, quand'anche il lavoratore ottenesse una sentenza di accoglimento delle proprie pretese creditorie, tale titolo risulterebbe inopponibile alla massa del fallimento, in ossequio al principio di esclusività del giudizio di verifica dei crediti sancito dall'art. 52 l.fall. Come detto, esso potrà essere semmai opposto all'imprenditore una volta che questi sia tornato in bonis.

Le azioni costitutive: impugnazioni del licenziamento e richieste di reintegrazione

Le azioni volte ad ottenere dal giudice del lavoro sentenze di tipo costitutivo, come quelle in cui si chiede l'annullamento del licenziamento e la reintegrazione nel posto di lavoro (cfr. Trib. Bari sez. lav., 22 ottobre 2014, n. 7781), soggiacciono alle medesime regole viste per le azioni di mero accertamento. Ciò significa che, anche dopo che sia intervenuto il fallimento dell'imprenditore, il dipendente potrà proseguire la causa davanti al giudice del lavoro. Ancora una volta, infatti, non si tratta di ipotesi che vanno ad incidere sulla massa fallimentare e quindi sfuggono alla vis attractiva.

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito questo principio, statuendo in una di queste occasioni che la giurisdizione del giudice del lavoro sopravvive nella sole ipotesi dell'impugnativa del licenziamento (Cass. civ. sez. lav. 2 febbraio 2010, n. 2411, nonché Cass. civ. sez. lav. 14 settembre 2007, n. 19248). Anche in questo caso, tuttavia, per la quantificazione di eventuali consequenziali diritti di natura patrimoniale (quale il risarcimento del danno previsto dall'art. 18 legge 300/1970 – anche dopo la novella della legge n. 92/2012 – e dall'art. 2, d.lgs. n. 23/2015) sarà competente il giudice fallimentare, e dovrà pertanto seguirsi la procedura di insinuazione al passivo (Trib. Brescia, 1 settembre 2003).

In sostanza, il lavoratore licenziato, una volta dichiarato il fallimento, si trova davanti ad una scelta. Egli può innanzitutto promuovere o proseguire il giudizio davanti al giudice del lavoro, se si limita a chiedere l'accertamento dell'esistenza del rapporto e/o dell'illegittimità del licenziamento, con eventuale reintegrazione nel posto di lavoro (Cass. civ. sez. lav. del 29 marzo 2011, n. 7129).

Il lavoratore licenziato deve, invece, rivolgersi necessariamente al giudice delegato, in osservanza al principio di esclusività della verifica, con i modi e le forme stabilite dalla legge fallimentare, se intende far valere nei confronti della massa le conseguenze dell'accertamento stesso sul piano patrimoniale. Qualora la domanda di ammissione dei crediti connessi al licenziamento fosse rigettata, questa pronuncia avrebbe un'efficacia solo endofallimentare, che peraltro non precluderebbe un'eventuale decisione del giudice del lavoro in ordine alla richiesta di reintegrazione (cfr. Cass. civ. sez. lav. 15 maggio 2002, n. 7075).

Vero è che le riforme che si sono succedute in materia di licenziamenti (prima la legge “Fornero”, n. 92/2012, poi il d.lgs. n. 23/2015, di attuazione del Jobs Act), hanno ristretto le ipotesi di tutela c.d. reale. Di conseguenza sono molto circoscritti i casi in cui, dopo la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore, sarà possibile per il lavoratore licenziato proseguire la causa davanti al giudice del lavoro per ottenere la reintegrazione: essi riguardano ormai i soli licenziamenti intimati in forma orale, nulli o discriminatori (cfr. art. 2 d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23), per i quali tale possibilità è ancora ammessa. In tutti gli altri casi, spettando la sola tutela indennitaria, la competenza spetterà al tribunale fallimentare.

Inoltre, rilevato come il rito fallimentare sia incentrato sul credito (art. 93 l.fall.), mentre ciò che rileva nel giudizio di lavoro è il “rapporto” di lavoro e la sua “natura”, è pacifico che il rito fallimentare si rilevi adeguato alla situazione allorché il rapporto di lavoro si manifesti privo di patologie: regolarmente assicurato, inquadrato, correttamente definito nel suo momento costitutivo, esecutivo o estintivo, esclusa solo la “patologia” del credito insoddisfatto per effetto dell'insolvenza del fallito. Mentre manifesta evidenti limiti allorché – ed è la maggioranza dei casi di controversie di lavoro – il rapporto stesso risulti affetto da vizi, come ad esempio nei casi di licenziamento illegittimo, di errato inquadramento del lavoratore, di apprendistato nullo, di contratto a termine nullo, di accertamento di prestazioni non riconosciute. Tutte questioni che si pongono del tutto “a monte” del mero accertamento del credito, ma ne condizionano profondamente la riconoscibilità ed ammissibilità; tutte questioni rispetto alle quali il rito endofallimentare si manifesta profondamente inadeguato.

Un esempio, estremamente attuale, può essere rappresentato dalla tesi – sostenuta in giurisprudenza ed in dottrina – del carattere “obbligatorio” del c.d. “procedimento Fornero” (art. 1, commi 47 e ss., L. n. 92/2012) per il caso di licenziamento illegittimo, laddove si applichi il nuovo art. 18 L. n. 300/1970. L'obbligatorietà del “rito Fornero”, infatti, da un lato renderebbe necessario ricorrervi anche per l'accertamento dell'illegittimità nei confronti dell'impresa del fallito. Ma, dall'altro, il procedimento non si limita alla declaratoria dell'illegittimità del licenziamento, essendo il giudice del lavoro chiamato altresì a scegliere – non senza ampi spazi di discrezionalità – il “tipo” di sanzione, all'interno dell'articolato ventaglio di possibilità rappresentato dall'art. 18 del novellato Statuto dei Lavoratori, il che però gli sarebbe precluso dal principio di esclusiva competenza del tribunale fallimentare a pronunziarsi con effetti sul patrimonio del fallito (tale è l'ipotesi che potrebbe verificarsi nel caso in cui l'accoglimento della domanda proposta dal lavoratore avvenga sulla base del comma 5 dell'art. 18, ai sensi del quale “il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto”). Ne deriverebbe così la necessità di far luogo a un procedimento secondo il “rito Fornero”, tuttavia monco di una parte, privato anzi di uno degli aspetti più qualificanti dell'intervento del giudice del lavoro, e con notevoli ripercussioni anche sulla necessità di “trasferire” poi la pronunzia sul licenziamento illegittimo nel procedimento fallimentare, ai fini dell'accertamento del quantum, il tutto con gravi problemi di compatibilità anche rispetto ai tempi dei due processi.

Accertamento dei crediti di lavoro in sede fallimentare e sospensione feriale dei termini

Un caso particolare di modifiche alle ordinarie norme del processo del lavoro in caso di fallimento dell'imprenditore è quanto si osserva con riferimento alla sospensione feriale dei termini. Come regola generale, essa decorre dall'1 al 31 agosto di ogni anno, ma vi sono alcune eccezioni previste dalla L. 7 ottobre 1969, n. 742 e successive modifiche, come quella relativa appunto alle cause di cui all'art. 409 c.p.c. e, dunque, alle controversie di lavoro. In ambito fallimentare essa normalmente opera per la presentazione delle domande di ammissione al passivo fallimentare, tempestive e non (cfr. Cass. civ. sez. VI, 7 marzo 2016, n. 4408: Il termine perentorio per la presentazione delle domande di insinuazione al passivo fallimentare è soggetto alla sospensione feriale dei termini, in quanto si tratta di termine processuale entro il quale il giudizio deve necessariamente essere proposto, non essendo concessa altra forma di tutela del diritto”), per la fissazione dell'udienza di verifica dello stato passivo e per il deposito del progetto ad opera del curatore. Per quanto concerne il caso particolare della verifica dei crediti di lavoro, si è posto il problema se la sospensione decorresse in modo analogo a quanto avviene per la verifica delle altre tipologie di crediti, oppure se, data l'urgenza e la necessità di garantire i diritti patrimoniali dei lavoratori, la si dovesse escludere, con la conseguente anticipazione dell'esame al periodo estivo, proprio in ossequio alla deroga vista poco sopra. Quest'ultima tesi, tuttavia, non è parsa convincente, proprio in considerazione del fatto che la sua applicazione avrebbe portato ad una inevitabile compromissione del contraddittorio incrociato, che caratterizza la verifica del passivo ex art. 95 l.fall. e che impone una trattazione unitaria e contestuale delle diverse domande di ammissione al passivo, al fine di non intaccare le ragioni dei vari creditori (cfr. L.D'ORAZIO, La sospensione dei termini feriali nella verifica del passivo, tra diritto di difesa ed esigenze di celerità, in Fall., 2013). E, infatti, recentemente, con ordinanza 4 maggio 2016, n. 8792 la prima sezione della Cassazione ha chiesto un nuovo intervento delle sezioni unite per sollecitare una decisione definitiva nella direzione dell'assoggettabilità al regime della sospensione feriale dei termini processuali dei giudizi riguardanti l'insinuazione allo stato passivo del fallimento per i crediti nascenti da rapporto di lavoro.

Anche la Corte di cassazione, inoltre, ha stabilito che, in caso di cumulo di domande, alcune per crediti di lavoro (o comunque per materia da trattare nel periodo feriale come le opposizioni alla esecuzione) ed altre per differenti tipologie di credito, non è concepibile l'operare di due regimi distinti, né il non operare della sospensione per tutta la controversia (cfr. Cass. civ. sez. III, 29 settembre 2007, n. 20594, , nonché Cass. civ. sez. III, 5 marzo 2009, n. 5396).

Le cause già definite al sopravvenire del fallimento

Nel caso in cui il fallimento dell'imprenditore intervenga successivamente alla conclusione della causa di lavoro, le ipotesi si differenziano a seconda che essa si sia conclusa in modo favorevole o meno per il lavoratore.

In particolare, l'art. 96, comma 3, l.fall., regola il caso in cui il fallimento sopraggiunga dopo l'accoglimento delle pretese patrimoniali del dipendente di fronte al giudice del lavoro. Bisogna in tale circostanza distinguere, a seconda che alla data della dichiarazione di fallimento la sentenza di accoglimento sia o meno passata in giudicato.

Nel primo caso occorre precisare che il giudicato riguarda i soli rapporti tra creditore (nel nostro caso il lavoratore) e debitore (datore di lavoro), ma non quelli tra creditore e altri creditori che vogliano insinuarsi al passivo. Pertanto, ciò che il giudicato attesta è soltanto l'esistenza di un credito e la validità del titolo su cui tale credito si fonda, ma non l'efficacia del titolo nei confronti degli altri creditori. Di conseguenza, l'accertamento di quest'ultimo elemento spetta al giudice fallimentare (G. CIAN e A. TRABUCCHI, Commentario breve alla legge fallimentare, sub art. 96, Milano, XI ed., 2014).

Nel secondo caso, invece, a norma dell'art. 96, comma 3, l.fall. il giudice ammette il credito con riserva. Con rifermento al momento in cui detta riserva si scioglie, diventa fondamentale il ruolo del curatore. La nuova formulazione dell'art. 96, comma 3, l.fall. è fuorviante al riguardo, quando afferma che egli “può”(e non più “è necessario”) proporre o proseguire il giudizio di impugnazione della sentenza. Certo, è prerogativa e facoltà del curatore decidere se impugnarla o meno. Tuttavia, se omette di farlo, la sentenza passa in giudicato e dunque la riserva si scioglie in modo “automatico”, dovendo così ammettersi il relativo credito del lavoratore e rimanendo preclusa al curatore la possibilità di contestarlo. Pertanto, se il curatore intende opporsi alla sentenza di primo grado, egli non già “può”, bensì “deve”, proporre o proseguire l'impugnazione (G. CIAN e A. TRABUCCHI, ibidem). In quest'ultimo caso, la riserva si scioglierà nel momento in cui a passare in giudicato sarà la sentenza del gravame, purché ovviamente il curatore risulti soccombente.

Occorre ora domandarsi in quale sede l'impugnazione debba essere proposta o proseguita. A rigor di logica, secondo il principio della vis attractiva espresso dall'art. 24 l.fall., per cui l'accertamento dei crediti viene assorbito dalla competenza del tribunale fallimentare, è proprio davanti a quest'ultimo che il curatore dovrebbe impugnare. Tuttavia, in deroga al principio della vis attractiva, l'impugnazione deve essere proposta davanti al giudice del lavoro, o ivi proseguita qualora fosse già stata proposta dal debitore prima del fallimento. Infatti, in questo caso l'accertamento del credito viene assoggettato al rito in esito al quale è stata emanata la sentenza.

(segue) Le sentenze di rigetto: l'evoluzione della giurisprudenza

Il secondo caso da esaminare è quello in cui il lavoratore abbia avanzato delle pretese patrimoniali di fronte al giudice del lavoro, ma queste siano state rigettate, con sentenza che non sia ancora passata in giudicato alla data di dichiarazione del fallimento.

Il principale problema che si pone è, ancora una volta, quello di stabilire quale sia il tribunale competente a giudicare in appello. E ancora una volta, seguendo il principio della vis attractiva, sembrerebbe doversi indicare il tribunale fallimentare.

Ed infatti era questo, in passato, l'orientamento prevalente della Corte di Cassazione, la quale sosteneva che “qualora dopo il giudizio di primo grado, promosso per l'accertamento di un debito e la condanna all'adempimento e conclusosi con pronunzia di rigetto, sopravvenga la dichiarazione di fallimento del debitore, il creditore che intenda ottenere un titolo da far valere contro il fallimento è tenuto a far verificare il credito, previa insinuazione, nelle forme previste dal capo quinto della legge fallimentare, con conseguente improcedibilità del giudizio d'appello da lui proposto o riassunto (dopo l'interruzione determinata dall'intervenuto fallimento) nei confronti del curatore” (cfr. Cass. civ. sez. lav., 26 marzo 1983, n. 2100; concorde anche Cass. civ. sez. lav., 10 giugno 1981, n. 3753).

Successivamente, però, l'orientamento maggioritario della Suprema Corte si è attestato su posizioni opposte, al fine di evitare che, per effetto della sentenza dichiarativa di fallimento, si formasse automaticamente il giudicato sull'accertamento di inesistenza o parziale esistenza del credito. In questa ottica è stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità che il vecchio art. 95, comma 3, l.fall. (sostituito dall'attuale art. 96) va interpretato estensivamente e “trova perciò applicazione, come si è detto (oltre che nel caso di pronuncia affermativa del credito), anche nel caso di sentenza, non ancora passata in giudicato, che abbia rigettato (anche solo in parte) la domanda del creditore, con la conseguenza che, intervenuto il fallimento del debitore successivamente a tale decisione, il creditore, per evitare gli effetti preclusivi derivanti dal passaggio in giudicato della medesima, deve proporre impugnazione in via ordinaria nei confronti del curatore del fallimento, che è legittimato non solo a proporre l'impugnazione ma anche (passivamente) a subirla” (cfr. Cass. civ. sez. lav., 27 agosto 2007, n. 18088, con nota di A. CORRADO, Giudizio del lavoro e vis attractiva del tribunale fallimentare: le conferme della Suprema corte e i cambiamenti successivi alla riforma del R.D. 267/1942, Riv. crit. dir. lav., 2007; concordi anche Cass. civ. sez. lav., 1 giugno 2005, n. 11692, e Cass. civ. sez. lav., 6 aprile 1998, n. 3528).

Riferimenti

Riferimenti normativi

  • Art. 52 l.fall.
  • Art. 93 l.fall.
  • Art. 24 l.fall.
  • Art. 413 c.p.c.
  • Art. 427 c.p.c.
  • Art. 1 commi 47 e ss. L. n. 92/2012
  • Art. 18 L. n. 300/1970
  • Art. 95 l.fall.
  • Art. 96, comma 3, l.fall.

Giurisprudenza:

  • Corte Costituzionale, sentenza 7 luglio 1988, n. 778
  • Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza, 18 giugno 2004, n. 11439
  • Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 2 agosto 2011, n. 16867
  • Tribunale di Bari, sezione lavoro, sentenza 22 ottobre 2014, n. 7781
  • Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 2 febbraio 2010, n. 2411
  • Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 14 settembre 2007, n. 19248
  • Tribunale di Brescia, sentenza 1 settembre 2003
  • Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 29 marzo 2011, n. 7129
  • Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 15 maggio 2002, n. 7075
  • Cassazione civile, sezione VI, sentenza 7 marzo 2016, n. 4408
  • Cassazione civile, sezione III, sentenza 29 settembre 2007, n. 20594
  • Cassazione civile, sezione III, sentenza 5 marzo 2009, n. 5396
  • Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 26 marzo 1983, n. 2100
  • Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 27 agosto 2007, n. 18088
Sommario