L'art. 21 del codice del processo amministrativo stabilisce che, nell'ambito della sua giurisdizione, il giudice amministrativo, se deve sostituirsi all'amministrazione, nomina come proprio ausiliario un commissario ad acta. Il commissario ad acta, insieme al verificatore, è una figura di ausiliario tipica del processo amministrativo e che ben si presta a dare attuazione alle statuizioni del giudice amministrativo che richiedano una esecuzione. Il codice del processo amministrativo ha attribuito vari compiti al commissario ad acta e tale figura, della quale è stata a lungo dibattuta la natura, può essere nominata non soltanto in sede di giudizio di ottemperanza, ma ancor prima nell'ambito del giudizio di cognizione (artt. 34, comma 2, lett. e, e 117, comma 3, c.p.a.).
Inquadramento
Come indicato nel Capo VI del Titolo I del Libro I del codice del processo amministrativo, gli “ausiliari del giudice” amministrativo sono tre: il verificatore, il consulente tecnico e il commissario ad acta. Quest'ultimo, come il verificatore del resto, è una figura tipica del processo amministrativo.
Come recita l'art. 21, il commissario ad acta può essere nominato dal giudice quando questi debba sostituirsi all'amministrazione. E ciò avviene – come si evince anche dalle disposizioni codicistiche che menzionano il commissario ad acta - tutte le volte in cui l'attuazione di una sentenza passata in giudicato o dotata di provvisoria esecutività (e non sospesa), ovvero di un'ordinanza cautelare, richieda un adempimento da parte dell'amministrazione e risulti che l'attuazione, da parte della pubblica amministrazione, non vi sia stata o non sia stata puntuale, anche in conseguenza del particolare contenuto del comando giurisdizionale, con conseguente pregiudizio per l'effettività e la pienezza della tutela della situazione soggettiva della quale è titolare la parte vincitrice nel giudizio di cognizione o in un suo grado o fase.
Come ha spiegato il Consiglio di Stato nella sentenza dell'Adunanza plenaria n. 8/2021, il commissario ad acta, grazie alla sua opera di adeguamento della realtà giuridica e fattuale al comando contenuto nella pronuncia di un giudice, svolge un'attività funzionale all'effettività e alla concretezza della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione, in ossequio agli artt. 24 e 113 Cost., nonché agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. In altre parole, l'attività del commissario ad acta è funzionale alla realizzazione di quella «tutela piena ed effettiva» (delle situazioni giuridiche soggettive fatte valere nel giudizio) che, in base all'art. 1 c.p.a., è l'ubi consistam del processo.
La facoltatività della nomina del commissario ad acta, evidenziata dal verbo «può» (utilizzato nell'art. 21 c.p.a., recante la previsione generale in materia), sottende l'idea che il giudice, là dove consentito dall'ordinamento, disponga sempre, in via ordinaria, del potere di sostituirsi direttamente all'amministrazione, come del resto chiarisce l'art. 34 c.p.a. riguardo al contenuto dispositivo delle sentenze; sicché la nomina di un commissario è oggetto di una scelta discrezionale del giudice amministrativo e, in genere, è giustificata dalla necessità, per il giudice, di avvalersi di specifiche competenze tecniche, analogamente a quando provvede alla nomina di un consulente o di un verificatore, sia pure per finalità differenti.
Precisa, inoltre, l'incipit dell'art. 21 c.p.a. che il giudice può nominare il commissario ad acta«nell'ambito della sua giurisdizione» e, dunque, non soltanto nell'esercizio della giurisdizione di merito, ancorché questo sia stato tradizionalmente e rimanga tuttora il settore (art. 114, commi 4, lett. d), 6 e 7 c.p.a.), in cui i giudici amministrativi si avvalgono più frequentemente dell'ausilio di un commissario ad acta, soprattutto ai fini dell'ottemperanza delle loro pronunce, nei casi di inerzia o di inesatta esecuzione da parte delle amministrazioni.
Va, peraltro, rilevato che il Codice tipizza un'altra, specifica, ipotesi in cui il giudice amministrativo può far ricorso alla nomina di un commissario ad acta per sostituirsi all'amministrazione: si allude al giudizio avverso il silenzio, disciplinato dall'art. 117 c.p.a., quando ricorra la necessità di dare esecuzione a un ordine di provvedere e, dunque, in ipotesi in cui ancora non sia maturata di una situazione di inottemperanza stricto sensu intesa. Del resto, l'art. 34, sopra citato, configura una situazione analoga, laddove la disposizione stabilisce che il giudice amministrativo, nell'individuare «le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese», può nominare anche un commissario ad acta, sebbene in questo caso, rimontando la nomina all'atto conclusivo del giudizio di cognizione, abbia «effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza».
La previsione dell'art. 21 c.p.a. è comunque di ampia latitudine e potenzialmente tale da consentire un largo uso del commissario ad acta in ogni caso in cui il giudice ritenga di doversi sostituire all'amministrazione e, quindi, anche per svolgere compiti differenti dall'ottemperanza o dall'esecuzione di una pronuncia sul silenzio (ad esempio, per dare attuazione a provvedimenti istruttori, come l'acquisizione di informazioni e documenti nella disponibilità della pubblica amministrazione, anche a prescindere dall'inadempimento dell'amministrazione medesima). Una caratteristica del commissario ad acta è, dunque, l'estrema versatilità dei compiti che il giudice può affidargli.
Dall'esame delle disposizioni del codice del processo amministrativo sul commissario ad acta emerge con evidenza che, diversamente dagli altri ausiliari, quali il verificatore e il consulente tecnico, che assistono il giudice per il compimento di singoli atti o per tutto il processo e che, dunque, svolgono compiti strumentali e antecedenti alla pronuncia della sentenza, il commissario ad acta svolge compiti ausiliari del giudice “dopo” la decisione (Cons. St. Ad. plen., n. 8/2021).
La natura del commissario ad acta
La figura del commissario ad acta quale ausiliario del giudice (da distinguere dalle numerose e omologhe ipotesi di commissari previsti dall'ordinamento ai fini dell'esercizio di poteri sostitutivi di controllo, nel contesto di rapporti di vigilanza o di sostituzione tra amministrazioni) è stata oggetto di plurime ricostruzioni teoriche in dottrina e in giurisprudenza, sia per la versatilità del suo utilizzo (sopra richiamata), sia, soprattutto, per la peculiare collocazione del commissario ad acta in un territorio di confine tra la giurisdizione e l'amministrazione.
Il commissario ad acta è stato inizialmente tipizzato nella prassi della giurisprudenza amministrativa e solo successivamente la figura è stata disciplinata dalla normativa processuale.
Il principale campo di applicazione, anche dal punto di vista storico, del potere di nomina del commissario ad acta è stata la giurisdizione estesa al merito, in cui il giudice amministrativo esercita il potere di dare diretta attuazione alle proprie pronunce (o a quelle della giurisdizione ordinaria), sostituendosi eventualmente all'amministrazione inadempiente rispetto all'obbligo (di conformazione) contenuto nel decisum (o nell'ordine) giurisdizionale (art. 112). Sennonché, tradizionalmente, il giudice amministrativo ha preferito delegare il compito di operare in sostituzione dell'amministrazione rimasta inottemperante, a un differente soggetto persona fisica (non già ad un organismo, come avviene per il verificatore ex art. 66 c.p.a.), a un ausiliario appositamente nominato, chiamato ad agire come una sorta longa manus dello stesso giudice.
Le ragioni di tale risalente scelta dei giudici amministrativi sono essenzialmente due, sebbene entrambi poggianti sulla considerazione della tendenziale incompletezza del comando contenuto nella pronuncia giurisdizionale da eseguire. La scelta di un organo che, quale emanazione del giudice, si sostituisca all'amministrazione si presenta, per un verso, coerente con il principio della separazione dei poteri (nonostante la prevalenza della giurisdizione sull'amministrazione) e, per altro verso, specialmente nei casi in cui gli adempimenti necessari all'attuazione del decisum siano complessi, consente al giudice amministrativo di avvalersi dell'aiuto di un soggetto provvisto di particolari competenze tecniche.
Si spiega, pertanto, perché storicamente l'ambito naturale di applicazione dell'istituto del commissario ad acta sia stato il giudizio di ottemperanza, oggi disciplinato dall'artt. 112 ss. c.p.a., giacché, attraverso l'azione di ottemperanza, può essere conseguita, in via coattiva e sotto il controllo del giudice, l'esatta attuazione delle sentenze passate in giudicato e, più in generale, di tutte le pronunce esecutive del giudice amministrativo (ma anche per l'attuazione delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario o per le pronunce delle quali non sia previsto il rimedio dell'ottemperanza e dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili, qualora prevedano obblighi a carico della pubblica amministrazione).
L'incompletezza del decisum giurisdizionale implica, tra l'altro, come è noto, che, nell'ambito del giudizio di ottemperanza, il giudice amministrativo debba esercitare sia poteri meramente ordinatori di carattere esecutivo sia poteri cognitori, finalizzati a definire esattamente il contenuto dell'ordine rivolto all'amministrazione. Da ciò consegue che il giudizio di ottemperanza presenta una natura mista. Sul punto va richiamata la decisione dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato del 15 gennaio 2013, n. 2, nella quale l'Alto Consesso ha affermato, tra l'altro, il giudizio di ottemperanza ha un contenuto composito, nel quale convergono azioni diverse e, segnatamente, sia di ottemperanza in senso stretto, sia di mera esecuzione di una condanna, sia di cognizione.
La fortuna riscossa nella prassi dall'istituto del commissario ad acta condusse il Legislatore ad estenderne il campo applicativo anche all'azione avverso il silenzio, per effetto dell' art. 2 della l. n. 205/2000, con la quale fu introdotto l'art. 21-bis della l. n. 1034/1971 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), in base al quale, nel caso di accoglimento del ricorso avverso il silenzio, qualora l'amministrazione non avesse provveduto ad attuare la decisione giurisdizionale nel termine stabilito dal giudice, questi, su richiesta di parte, avrebbe potuto nominare un commissario incaricato di provvedere in sostituzione dell'amministrazione rimasta soccombente. Tale previsione è essenzialmente rifluita nell'art. 117 c.p.a., sopra richiamato, secondo cui il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta con la sentenza che definisce il giudizio o, successivamente, su istanza della parte interessata. Al di là dell'identica denominazione della figura risulta però evidente che tale commissarioad acta, a differenza di quello nominato nell'ambito del giudizio di ottemperanza, può esser nominato (anche e già) in sede di cognizione. Tale circostanza non è priva di rilievo, dal momento che essa incide sui poteri esercitabili da tale commissario e sul regime degli atti da questi adottati.
Nonostante, infatti, l'art. 21 c.p.a. rechi la disciplina generale del commissario ad acta, è necessario però esaminare, per i fini di un corretto inquadramento dell'istituto e stante la rilevanza teorica della questione, alcune differenze esistenti tra le riferite due figure di commissario tipizzate dal Codice. A tali fini occorre muovere dalla considerazione che la posizione del commissario ad acta, in ragione della sua ricordata collocazione sul confine tra la giurisdizione e l'amministrazione, aveva innescato un dibattito, durato decenni, circa la sua effettiva natura, rispettivamente amministrativa o giurisdizionale. La diatriba non era meramente teorica, considerate le significative conseguenze pratiche, derivanti dall'adesione all'una o all'altra tesi, con riguardo all'individuazione della correlata natura, amministrativa o giudiziaria, degli atti commissariali e, conseguentemente, del regime della loro eventuale impugnativa. Con l'entrata in vigore dell'art. 21 c.p.a., tale dibattito deve ritenersi pressoché superato, ma in questa sede è utile ricordare che le ricostruzioni teoriche della figura del commissario ad acta erano essenzialmente tre.
Si riteneva, in estrema sintesi, secondo una prima tesi, che il commissario ad acta fosse un organo straordinario dell'amministrazione rimasta soccombente e tenuta all'esecuzione della sentenza; in base a una seconda impostazione, il commissario ad acta era a tutti gli effetti considerato un ausiliario del giudice e, infine, in linea con una terza ricostruzione, il commissario ad acta era visto come una figura ibrida, condividendo i tratti sia di un organo giurisdizionale sia di un organo amministrativo. Come si è accennato, il Codice, con la disposizione in rassegna, ha optato inequivocabilmente per la seconda tesi.
La giurisprudenza amministrativa ha preso definitivamente atto della natura giurisdizionale del commissario ad acta, avendo affermato in più occasioni (Cons. St. III, n. 3124/2013) che esso è un ausiliare del giudice e che, essendo titolare di un potere che trova diretto fondamento nella pronuncia giurisdizionale da portare ad esecuzione, è legittimato, anche al di fuori delle norme che governano la normale attività degli organi amministrativi sostituiti, ad adottare ogni misura concreto idonea a garantire il conseguimento effettivo del bene della vita preso in considerazione dal giudicato.
Di recente, tuttavia, l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 7/2019, sembrò aver riconsiderato tale approdo ermeneutico, avendo riconosciuto una duplice veste del commissario quale ausiliario del giudice e organo straordinario dell'amministrazione. Sennonché tale apparente revirement è stato nuovamente superato dalla stessa Adunanza plenaria che, nella sentenza n. 8/2021 sopra citata, ha chiarito in via definitiva che non può essere riconosciuta al commissario ad acta, nemmeno in via “aggiuntiva”, la natura di organo straordinario dell'amministrazione, e ciò in quanto:
- per un verso, la natura di ausiliario del giudice del commissario ad acta è l'unica normativamente riconosciuta e definita;
- per altro verso, gli organi amministrativi, quanto alla loro esistenza, natura e competenza (poteri) sono istituiti dalla legge, mentre, diversamente opinando, ricorrerebbe in questo caso l'ipotesi di un organo amministrativo di fonte giurisdizionale;
- per altro verso ancora, il compito del commissario ad acta non è quello di esercitare poteri amministrativi funzionalizzati alla cura dell'interesse pubblico, bensì quello di dare attuazione alla pronuncia del giudice, anche eventualmente attraverso l'esercizio di poteri non esercitati dall'amministrazione rimasta inottemperante, dei quali il comando contenuto nella sentenza (o nell'ordinanza) costituisce il fondamento genetico e l'approdo funzionale;
- da ultimo, non è necessario ipotizzare la natura di organo straordinario dell'amministrazione per giustificare l'imputazione alla sua sfera giuridica degli effetti dell'agire del commissario, trovando questi fonte e giustificazione direttamente nel provvedimento giurisdizionale.
La natura di ausiliario del giudice non è infatti contraddetta dalla circostanza che il commissario ad acta, nel dare esecuzione a una pronuncia giurisdizionale, debba adottare atti amministrativi, anche di natura provvedimentale e pure nell'esercizio di poteri discrezionali. Ed invero, l'attività del commissario ad acta costituisce attuazione della decisione del giudice, onde rendere effettiva la tutela giurisdizionale costituzionalmente affermata nei confronti della pubblica amministrazione, con la conseguenza che gli effetti, che si imputano all'amministrazione, non dipendono da una “sostituzione” nell'esercizio di poteri a questa attribuiti e da essa autonomamente esercitabili, ricorrendone le ragioni di pubblico interesse; né tantomeno ricorre un'ipotesi di trasferimento dei poteri medesimi (dall'amministrazione al commissario). Tali effetti derivano, invece, direttamente dalla pronuncia del giudice, la quale, avendo per oggetto atti amministrativi o l'esercizio in fieri di poteri provvedimentali, non può attuarsi se non attraverso l'adozione di atti o di provvedimenti, il cui momento genetico, tuttavia, non si ritrova nella norma attributiva del potere all'amministrazione, bensì nella sentenza (od ordinanza), e il cui momento funzionale non è (almeno direttamente) rappresentato dalla cura dell'interesse pubblico, bensì dall'effettività della tutela giurisdizionale. Ed è significativo, sotto tale aspetto, che i poteri del commissario ad acta siano tradizionalmente ricondotti alla giurisdizione “di merito” del giudice amministrativo, la quale, anche nell'adozione di provvedimenti in luogo dell'amministrazione, resta esercizio di attività giurisdizionale e non amministrativa.
La dottrina ha riconosciuto che il Codice ha inteso giurisdizionalizzare il commissario ad acta attraverso la sua qualificazione come organo ausiliario del giudice e che tale intento codicistico è reso manifesto dalla concentrazione, per esigenze di effettività della tutela, della cognizione di tutte le questioni inerenti l'esecuzione del giudicato in capo al giudice dell'ottemperanza. Tale soluzione non è stata, però, ritenuta del tutto appagante sotto il profilo teorico, non essendo stata chiaramente affrontata la questione della imputabilità dell'attività giuridica posta in essere dal commissario ad acta: infatti, essa non sarebbe imputabile all'amministrazione sostituita perché non si ritiene configurabile una relazione interorganica tra i due soggetti, né al commissario stesso dal momento che la giurisprudenza esclude che ad esso vada notificato l'appello avverso la sentenza emessa in sede di ottemperanza e l'atto di impugnazione dei suoi provvedimenti.
Dal momento che i poteri del commissario ad acta trovano diretto fondamento nella pronuncia giurisdizionale da portare ad esecuzione, correlativamente l'attività dell'ausiliario in sede di ottemperanza incontra un limite fondamentalenella conformità del suo operato al comando ricavabile dal giudicato da eseguire. In altri termini, il commissario ad acta potrà e dovrà porre in essere tutte (ma solo) le attività, materiali o giuridiche, necessarie per una completa esecuzione del decisum giurisdizionale, fatte salve le eventuali ulteriori o differenti disposizioni date dal giudice che gli abbia conferito l'incarico. Qualora il commissario ad acta esorbiti da tale alveo, i suoi atti risulteranno invalidi e reclamabili dalle parti (o impugnabili dai terzi) ex art. 114, comma 6, c.p.a.
Come sopra accennato, però, la situazione si presenta parzialmente differente per il commissarioad actanel caso previsto dall'art. 117 c.p.a., allorquando il giudice amministrativo abbia accolto in tutto o in parte il ricorso, ordinando all'amministrazione di provvedere entro un certo termine. Infatti, al ricorrere di questa ipotesi, non soltanto la nomina del commissario può intervenire direttamente con la sentenza che definisce il giudizio, ma soprattutto i margini di intervento del commissarioad actasono obiettivamente molto più ampi, giacché il comando giurisdizionale può risultare configurato come una generica imposizione di un obbligo di provvedere, lasciando in capo all'amministrazione rimasta soccombente più estesi ambiti di esercizio della discrezionalità amministrativa. In altri termini, il commissario ad acta nominato nel contesto di un giudizio sul silenzio, nella parte in cui la sua attività risulti libera da specifici vincoli derivanti dal decisum e dal correlato potere di direttiva del giudice, potrà sostituirsi integralmente all'amministrazione rimasta inerte. La circostanza influisce sulla qualificazione degli atti adottati in questo caso dal commissario ad acta, dal momento che essi, ai sensi dell'art. 117, comma 4, c.p.a. potranno assumere la forma e la sostanza di veri e propri atti amministrativi discrezionali. Sebbene, dunque, anche il commissario ad acta nominato in sede di giudizio avverso il silenzio sia un ausiliario del giudice, esso nondimeno, con riferimento alla sua attività, si presenta, di fatto, anche come un organo straordinario dell'amministrazione tenuta a provvedere.
La scelta e la nomina del commissario ad acta
L'art. 20 c.p.a. attribuisce una ampia discrezionalità al giudice amministrativo in ordine alla nomina e alla scelta del commissarioad acta. La nomina del commissario ad acta, difatti, non è mai obbligatoria (non a caso l'art. 21 c.p.a. utilizza il verbo «può»), potendo il giudice sostituirsi direttamente il potere alla pubblica amministrazione nei casi in cui ciò gli sia consentito; inoltre il giudice amministrativo non incontra limiti legali nell'individuazione della persona fisica alla quale affidare l'incarico commissariale, non indicando la norma in esame – a differenza dell'art. 19, comma 2, c.p.a. – specifiche categorie di soggetti nominabili.
Sebbene, dunque, il giudice possa, di norma, nominare commissario ad acta chiunque sia in possesso delle competenze tecniche necessarie a svolgere l'incarico, nondimeno l'art. 5-sexies, comma 8, della l. n. 89/2001 (sulla previsione di un'equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'art. 375 c.p.c.; cd. «Legge Pinto»), introdotto dalla legge di stabilità del 2016, ha previsto che, nell'ambito dei giudizi instaurati per l'ottemperanza delle condanne per irragionevole durata del processo, il giudice amministrativo debba nominare, ove occorra, commissario ad acta un dirigente dell'amministrazione soccombente, con esclusione dei titolari di incarichi di Governo, dei capi dipartimento e di coloro che ricoprano incarichi dirigenziali generali e che i compensi in tal caso riconosciuti al commissario ad acta rientrino nell'onnicomprensività della retribuzione dei dirigenti.
Nella generalità dei casi, tuttavia, il giudice amministrativo preferisce affidare l'incarico a dipendenti pubblici, in servizio o collocati a riposo (talvolta anche magistrati amministrativi a riposo). Non è infrequente poi la nomina di un funzionario della stessa amministrazione tenuta ad adempiere a un comando giurisdizionale o, quando si tratti di enti territoriali, a un funzionario appartenente a una amministrazione di un differente e superiore livello di governo.
Va segnalato che l'art. 20 c.p.a. suscita qualche perplessità esegetica nella parte in cui precisa che incidentalmente che il commissario ad acta può essere nominato se il giudice amministrativo «deve sostituirsi» all'amministrazione. In realtà, come già chiarito, il giudice non deve mai sostituirsi all'amministrazione, ma ha il potere di farlo quando il Codice ammetta tale sostituzione, a meno che un tale obbligo di sostituzione non discenda daldecisumda attuare. In tal senso è chiaro l'art. 7, comma 6, c.p.a. secondo cui il giudice può sostituirsi all'amministrazione quando eserciti una giurisdizione estesa al merito e ciò accade nelle ipotesi previste dall'art. 134 e negli altri casi indicati dalla legge.
L'esistenza del potere di sostituzione diretta del giudice all'amministrazione e la facoltatività della nomina di un commissario ad acta si ricavano da altre disposizioni del Codice e, segnatamente, dal già ricordato art. 34, comma 1, lett. e), c.p.a., secondo cui, in caso di accoglimento del ricorso e nei limiti della domanda, il giudice dispone le misure idonee all'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, «compresa la nomina di un commissario ad acta», nonché dall'art. 114, comma 4, lett. a) e d), in base al quale il giudice, in caso di accoglimento del ricorso, ordina l'ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l'emanazione dello stesso in luogo dell'amministrazione, nominando, ove occorra, un commissario ad acta.
Alla stregua del Codice, il giudice amministrativo può dunque nominare un commissario ad acta nelle seguenti ipotesi:
a) a norma dell'art. 34, comma 1, lett. e), secondo il quale il giudice dispone le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza;
b) in base all'art. 59, relativo alla “esecuzione delle misure cautelari”, che consente, laddove i provvedimenti cautelari non siano in tutto o in parte eseguiti, che il giudice, su istanza motivata dell'interessato, eserciti i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza e che, dunque, possa disporre anche la nomina di un commissario ad acta;
c) ai sensi dell'art. 114, comma 4, lett. d), in base al quale il giudice dell'ottemperanza nomina, ove occorra, un commissario ad acta;
d) nei ricorsi avverso il silenzio (con la sentenza con cui definisce il grado del giudizio o successivamente, su istanza della parte interessata), all'art. 117, comma 3, secondo il quale, nell'ambito del giudizio sul silenzio dell'amministrazione, il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta;
e) ai sensi dell'art. 134, nell'ambito del giudizio di ottemperanza, per l'attuazione delle pronunce giurisdizionali esecutive o del giudicato, ossia per l'attuazione: delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato; delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo (ivi incluse le misure cautelari; art. 58); delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario; delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell'ottemperanza, al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi alla decisione; dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili (art. 112, comma 2);
f) ai sensi dell'art. 134, nelle controversie sugli atti e le operazioni in materia elettorale, attribuiti alla giurisdizione amministrativa;
g) ai sensi dell'art. 134, nelle liti su sanzioni pecuniarie la cui contestazione sia devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo, comprese quelle applicate dalle Autorità amministrative indipendenti e quelle previste dall'art. 123 (in materia di procedure di affidamento di contratti pubblici);
h) ai sensi dell'art. 134, nei giudizi in tema di contestazioni sui confini degli enti territoriali;
i) ai sensi dell'art. 134, nelle controversie sul diniego di rilascio di nulla osta cinematografico;
l) in ogni altro caso previsto da una legge (diversa dal Codice).
Nella sentenza n. 8/2021 l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che la nomina del commissario ad acta si fonda su due presupposti normativamente indicati e, precisamente:
- che il giudice debba sostituirsi all'amministrazione;
- che tale circostanza si verifichi nell'ambito della giurisdizione del giudice medesimo, così come definita dalle norme che la attribuiscono.
Tali circostanze, oltre a costituire i presupposti per la nomina del commissario ad acta, definiscono anche il perimetro dei compiti del medesimo, che coincide con i confini della giurisdizione del giudice che lo ha nominato e nel cui ambito il commissario agisce.
Un profilo rilevante della disciplina sul commissario ad acta concerne l'individuazione della fase in cui può intervenire la relativa nomina. Al riguardo l'art. 34, comma 1, lett. e), stabilisce, in via generale, che la nomina del commissario ad acta possa avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza. Siffatta previsione di un potere di nomina anticipato rispetto all'ottemperanza è chiaramente ispirata ai principi di celerità e di concentrazione dei giudizi. D'altronde, non va dimenticato che, sulla base del tenore letterale dell'art. 20 c.p.a., il giudice amministrativo può nominare un commissario ad acta anche indipendentemente dalla pendenza di un giudizio di ottemperanza, ogni volta in cui ritenga di doversi sostituire all'amministrazione (ad esempio, per l'esecuzione di provvedimento istruttori), sicché, in tali casi, la nomina dell'ausiliario avviene di necessità nel corso del processo di cognizione.
I limiti dei poteri del commissario ad acta
Se la fonte dei poteri del commissario ad acta è riconducibile all'atto di nomina, il contenuto di detti poteri è definito dalla pronuncia giurisdizionale alla quale occorra dare attuazione.
In linea generale, dunque, i poteri del commissario ad acta, in quanto ausiliario del giudice amministrativo, per un verso, incontrano gli stessi limiti che vincolano il potere sostitutivo del giudice e, per altro verso, non possono travalicare l'ambito oggettivo dell'incarico commissariale, siccome precisato dal giudice nel provvedimento di nomina e in quelli successivi, eventualmente modificativi.
Con riferimento al primo profilo, va segnalato che il potere sostitutivo del giudice postula l'avvenuto esercizio della giurisdizione, tramite una pronuncia (quand'anche di carattere interinale o interlocutorio); inoltre, l'art. 34, comma 2, primo periodo, c.p.a. stabilisce, con norma di principio, che in nessun caso il giudice possa pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati; sicché analogo limite vale pure per il commissario ad acta, che del giudice è una longa manus.
Con riferimento alla preclusione posta dall'art. 34, comma 2, primo periodo, c.p.a. la dottrina ha osservato che essa non può essere intesa come divieto per il giudice amministrativo di indirizzare con la propria pronuncia l'attività successiva dell'amministrazione, dal momento che una soluzione del genere finirebbe per collidere con il disposto dello stesso art. 34, comma 1, lett. c), il quale, proprio nel consentire la nomina del commissario ad acta già in sede di cognizione, presuppone l'attitudine (anche) delle sentenze a indirizzare l'attività successiva dell'amministrazione.
Circa il secondo profilo i poteri in concreto assegnati al commissario ad acta sono esclusivamente quelli ricavabili dal provvedimento giurisdizionale della cui attuazione si tratti, il cui contenuto può essere eventualmente chiarito dallo stesso giudice attraverso il ricorso di cui all'art. 112, comma 5, c.p.a. Per l'adozione dei provvedimenti costituenti attuazione della pronuncia giurisdizionale, il commissario ad acta non sarà, pertanto, tenuto ad osservare le regole dettate, per una specifica fattispecie, dalla disciplina amministrativa sostanziale (con riferimento, ad esempio, all'avvio del procedimento, alla comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento di un'istanza, ecc.), ma unicamente quelle stabilite nel decisum da eseguire o dallo stesso giudice che abbia nominato l'ausiliario.
Se la fonte dei poteri del commissario ad acta è riconducibile all'atto di nomina, il contenuto di detti poteri è, dunque, definito dalla pronuncia giurisdizionale alla quale occorra dare attuazione.
Gli effetti della nomina del commissario ad acta
La nomina del commissario ad acta non determina un'automatica e immediata estinzione, per decadenza, del potere di provvedere dell'amministrazione sostituita. Anzi, di norma, il giudice, con il provvedimento di nomina, fissa anche un termine all'amministrazione onde consentirle di ottemperare spontaneamente al comando giurisdizionale. In questi casi l'attività del commissario ad acta può iniziare solamente dopo la scadenza del termine stabilito dal giudice. La preclusione all'esercizio del potere di intervento dell'amministrazione si determina, dunque, solo a seguito dell'insediamento del commissario ad acta e dopo che questi abbia provveduto.
In tal senso è anche la posizione della giurisprudenza amministrativa, secondo la quale (Cons. St. V, n. 8409/2009) la nomina del commissario non estingue il potere di provvedere dell'amministrazione; soltanto l'insediamento del commissario impedisce di porre in essere l'attività necessaria per la esecuzione del giudicato. Ciò proprio al fine di favorire l'esecuzione spontanea delle decisioni giurisdizionali in via amministrativa.
Tale principio è stato ribadito dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2021 secondo cui l'amministrazione, che è risultata soccombente in sede giurisdizionale, non perde il proprio potere di provvedere, pur in presenza della nomina e dell'insediamento di un commissario ad acta al quale è conferito il potere di provvedere per il caso di sua inerzia nell'ottemperanza al giudicato (ovvero nell'adempimento di quanto nascente da sentenza provvisoriamente esecutiva ovvero da ordinanza cautelare), e fino a quando lo stesso non abbia provveduto. Fino a tale momento, si verifica, dunque, una situazione di esercizio concorrente del potere da parte dell'amministrazione, che ne è titolare ex lege, e da parte del commissario, che, per ordine del giudice, deve provvedere in sua vece. Tale posizione della Adunanza plenaria poggia sulla duplice considerazione che: a) il potere esercitato dal commissario non è il medesimo del quale l'amministrazione è titolare, né il commissario si “sostituisce” all'amministrazione nel suo esercizio, né si verifica un “trasferimento” di detto potere (come pure era stato anteriormente affermato: Cons. St. V, n. 3378/2018); b) gli effetti degli atti posti in essere dal commissario ad acta si imputano alla sfera giuridica dell'amministrazione non già come conseguenza del fatto che il commissario è organo straordinario della medesima (riconducendo quindi in tal modo, implicitamente, l'imputazione degli effetti alla immedesimazione organica), bensì perché tali effetti si producono nella sfera giuridica dell'amministrazione per derivazione dalla decisione del giudice (artt. 2908,2909 c.c.). Da ciò discende che la concorrenza della competenza a provvedere del commissario ad acta e dell'amministrazione ha termine allorché uno dei due soggetti abbia dato attuazione alla decisione del giudice.
Del resto, non vi è alcun dato normativo che consenta di affermare con certezza la perdita del potere dell'amministrazione di provvedere per effetto della nomina o dell'insediamento del commissario ad acta e, anzi, laddove non si ammettesse il potere dell'amministrazione di dare attuazione alla decisione del giudice, la stessa rimarrebbe senza rimedio esposta, oltre che ai costi derivanti dall'intervento dell'ausiliario, anche alla azione di risarcimento dei danni connessi all'impossibilità o, comunque, alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato, di cui all'art. 112, comma 3, c.p.a.
Ulteriori rilevanti conseguenze dei principi enunciati dalla Adunanza plenaria riguardano:
a) la circostanza che gli atti emanati dall'amministrazione, pur in presenza della nomina e dell'insediamento del commissario ad acta, non possono essere considerati affetti da nullità, poiché essi sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, non rilevando a tal fine la nomina o l'insediamento del commissario medesimo. Tali atti potranno essere, ricorrendone le condizioni, dichiarati nulli dal giudice per la diversa ipotesi di violazione o elusione del giudicato, ovvero annullati perché ritenuti illegittimi all'esito di domanda di annullamento in un ordinario giudizio di cognizione, ma non possono in ogni caso essere considerati emanati in difetto assoluto di attribuzione e, per questa ragione, ritenuti affetti da nullità;
b) il commissario ad acta nominato dal giudice potrà esercitare il proprio potere fintanto che l'amministrazione non abbia eventualmente provveduto;
c) qualora il commissario ad acta adotti atti dopo che l'amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, gli stessi dovranno esser considerati inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione potrà essere richiesta da chi vi abbia interesse al giudice dell'ottemperanza o del giudizio sul silenzio. Allo stesso modo deve concludersi per la speculare ipotesi di atti adottati dall'amministrazione dopo che il commissario abbia provveduto.
L'obbligo di prestare l'incarico. La ricusazione, l'astensione e la sostituzione del commissario ad acta
L'obbligo di prestare l'incarico di commissario ad acta costituisce l'oggetto di un munus publicum, potendosi ritenere applicabile a tale figura la regola dettata dal comma 1 dell'art. 20 c.p.a. Anche lo svolgimento dell'incarico di commissario ad acta, al pari di ogni incarico conferito dall'autorità giudiziaria, è infatti un'attività doverosa, alla quale è possibile sottrarsi soltanto qualora ricorra un giustificato motivo (la cui consistenza deve essere vagliata dallo stesso giudice che abbia provveduto alla nomina). Alla stregua di tale considerazione si spiega perché, come sopra accennato, l'art. 21 c.p.a. preveda che al commissario ad acta si applichi l'art. 20, comma 2, sulla ricusazione del consulente e del verificatore.
Muovendo da tale ordine di considerazioni il T.A.R. Sicilia (Catania) I, n. 2215/2013 ha tratto ulteriori, rilevanti conseguenze. In particolare, il tribunale ha affermato che qualsiasi soggetto nominato commissario ad acta ha il preciso dovere giuridico di eseguire l'incarico, non potendo ad esso sottrarsi per libera scelta, perché il soggetto nominato commissario ad acta dal giudice amministrativo è titolare di un ufficio pubblico che implica non solo l'esercizio di poteri, ma anche l'assunzione di doveri e, tra questi, in primo luogo il dovere di eseguire l'incarico. Da tale premessa consegue che la stessa amministrazione di appartenenza del pubblico dipendente nominato commissario ad acta non può condizionare l'espletamento dell'incarico ad apposita autorizzazione, né alla concessione di ferie, non potendo l'incarico essere espletato se non in orario d'ufficio.
Il commissario ad acta può essere ricusato per i motivi indicati dall' art. 51 c.p.c. e sulla ricusazione decide il giudice che lo ha nominato, con ordinanza collegiale ai sensi dell'art. 33 c.p.a. Deve ritenersi che il commissario ad acta abbia la possibilità di astenersi e che ricorrano, anzi, ipotesi di astensione obbligatoria (le stesse che giustificano la presentazione di un'istanza di ricusazione) e facoltativa (in presenza di gravi ragioni di convenienza).
Non sono, però, previste le modalità né i termini con cui presentare un'eventuale domanda di ricusazione. È, tuttavia, ragionevole opinare che detta istanza debba essere formulata non appena conosciuto dalle parti il nome del commissario nominato e, comunque, prima del suo insediamento e, soprattutto, prima dell'inizio delle operazioni. La mancata astensione e la mancata ricusazione non comportano, di per sé, alcuna invalidità degli atti compiuti dal commissario ad acta in esecuzione dell'incarico ricevuto; nondimeno il commissario ad acta, specialmente se si tratti di un pubblico dipendente, potrebbe andare incontro, in ragione della mancata astensione, a responsabilità civili, penali e disciplinari, atteso il generale dovere di imparzialità che grava su tutti i dipendenti pubblici.
Il giudice può accogliere o respingere le istanze di astensione o di ricusazione. Nel primo caso il commissario ad acta non potrà compiere alcun atto del procedimento e il collegio dovrà provvedere alla sua sostituzione. Non necessariamente, però, dovrà anche esser rinnovata l'attività eventualmente già compiuta dall'ausiliario (che rimane validamente acquisita agli atti), trattandosi di scelta rimessa al libero apprezzamento del giudice; devono, infatti, ritenersi applicabili anche agli ausiliari del giudice le regole, dettate rispettivamente, dagli artt. 17, comma 1, ultimo periodo, e 18, comma 8, primo periodo, c.p.a. secondo cui l'astensione e la ricusazione non hanno effetto sugli atti anteriori.
Quando l'istanza di astensione o di ricusazione sia respinta, il commissario ad acta dovrà, invece, procedere all'espletamento dell'incarico conferito.
Con riferimento al regime dell'impugnabilità dell'ordinanza con la quale il collegio di un tribunale amministrativo regionale abbia accolto o respinto le istanze di astensione o di ricusazione, deve ritenersi che detto provvedimento non possa essere impugnato in via autonoma — ostandovi l'art. 91, comma 1 (che menziona espressamente solo le «sentenze») e il connesso principio della tassatività dei mezzi di impugnazione —, ma unicamente con la sentenza che definisca, anche in parte, il giudizio (cd. «impugnazione conglobata»). Certamente non è, invece, impugnabile la medesima ordinanza se pronunciata dal giudice di appello (Consiglio di Stato o Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana), della quale potrà essere unicamente sollecitato il riesame.
Occorre infine segnalare che l'istituto della ricusazione mal si adatta alla figura del commissario ad acta, giacché questi è frequentemente, ancorché non necessariamente, scelto dal giudice tra i funzionari — e spesso tra quelli collocati in posizione apicale — appartenenti alla stessa amministrazione tenuta ad eseguire una pronuncia giurisdizionale. Da ciò discende che l'appartenenza del commissario ad acta alla stessa parte pubblica soccombente implica una inevitabile attenuazione della valutazione delle cause di ricusazione connesse all'esistenza di un tale rapporto.
Allorquando i provvedimenti adottati dal commissario ad acta non si presentino adeguati o conformi rispetto al comando giurisdizionale da attuare, il giudice amministrativo può disporre che l'ausiliario rinnovi l'attività svolta oppure può revocare la nomina del commissario ad acta e sostituirlo con un'altra persona. La sostituzione o la revoca degli ausiliari, ancorché non espressamente prevista dal Codice, deve reputarsi sicuramente consentita (e, peraltro, non rara nella prassi), in quanto rientrante nei poteri discrezionali riservati al collegio in materia. I provvedimenti di sostituzione o di revoca dell'ausiliario possono essere sollecitati anche dalle parti e possono intervenire anche ad incarico ancora in corso; essi, in genere, sono collegati a una valutazione di imperizia, negligenza o, più in generale, di inadempimento o di impossibilità oggettiva della persona nominata a proseguire l'incarico. In ogni caso, al pari della scelta di nominare un commissario ad acta, la sostituzione o la revoca di esso sono provvedimenti che, seppure suscettibili di essere sollecitati dalle parti, sono riservati alla discrezionalità del giudicante e assumono la forma dell'ordinanza collegiale.
Deve poi ritenersi che, nell'ipotesi di sostituzione o di revoca dell'incarico conferito a un ausiliario, trovi applicazione l'art. 196 c.p.c., secondo cui il giudice – oltre ad avere la facoltà di disporre la rinnovazione delle indagini già effettuate – può disporre la sostituzione dell'ausiliario solo al ricorrente di «gravi motivi». Inoltre, nella prassi, gli ausiliari che non abbiano svolto diligentemente l'incarico loro affidato sono sovente sanzionati «indirettamente» con la riduzione del compenso loro spettante.
L'autotutela e l'impugnazione dei provvedimenti del commissario ad acta. Il ricorso per chiarimenti
Con riguardo all'autotutela rispetto ai provvedimenti adottati dal commissarioad acta, bisogna distinguere il potere di riesame esercitabile dallo stesso commissario da quello, in ipotesi, attivabile dalla pubblica amministrazione sostituita. Sicuramente il commissario ad acta che ritenga di aver adottato un atto che si ponga in contrasto con il provvedimento giurisdizionale da eseguire può e, anzi, deve riesaminare, anche su sollecitazione delle parti, le sue determinazioni onde conformare esattamente i suoi atti al decisum.
Deve essere invece esclusa la possibilità che sia l'amministrazione rimasta soccombente a rimuovere i provvedimenti adottati dal commissario ad acta. Diversamente l'amministrazione, in violazione del principio della separazione dei poteri, invaderebbe l'ambito delle prerogative giurisdizionali e i relativi provvedimenti, incidendo unilateralmente su una pronuncia giurisdizionale, sarebbero da reputare affetti da nullità per difetto assoluto di attribuzione. L'unica possibilità, per l'amministrazione (come per le altre parti), di incidere sulle determinazioni del commissario ad acta è, dunque, rappresentata dalla proposizione del reclamo di cui al comma 6 dell'art. 114 c.p.a. (Cons. St. III, n. 254/2024; V n. 774/2024), disposizione che, sebbene dettata per il giudizio di ottemperanza, deve ritenersi espressione di un principio generale e, come tale, applicabile in ogni altro caso in cui il giudice amministrativo si sia avvalso di un commissario ad acta. È poi dubbio se la parte interessata, anche senza proporre uno specifico reclamo o un'azione di annullamento (v. infra), possa presentare un'istanza al giudice volta a sollecitare il potere ufficioso (ma non ad esercizio obbligatorio) del giudicante a valutare l'operato del commissario ad acta. Ovviamente, tali conclusioni possono considerarsi corrette a condizione che si muova dalla concezione del commissario ad acta quale longa manus del giudice; diversamente, ossia aderendo alla tesi della natura del commissario ad acta quale organo straordinario dell'amministrazione sostituita, allora l'autotutela di quest'ultima dovrebbe ritenersi consentita e legittima.
La disciplina dell'impugnazione degli atti adottati dal commissarioad acta nell'ambito di un giudizio di ottemperanza è contenuta nell'appena citato comma 6 dell'art. 114, come sostituito dall'art. 1, comma 1, lett. dd), n. 2, del d.lgs. n. 195/2011 (c.d. «primo correttivo»), secondo cui il giudice (dell'ottemperanza) conosce di tutte le questioni relative all'ottemperanza, nonché, tra le parti nei cui confronti si è formato il giudicato, di quelle inerenti agli atti del commissario ad acta, opponibili con reclamo. Sennonché il medesimo comma prevede altresì che gli atti emanati dal giudice dell'ottemperanza, o dal suo ausiliario, siano impugnabili dai terzi estranei al giudicato ai sensi dell'art. 29 c.p.a., con il rito ordinario. In sostanza, il Codice, quanto al regime dell'impugnativa degli atti del commissario ad acta, distingue la posizione delle parti del giudizio, nei confronti delle quali si è formato il giudicato o è stato pronunciato il provvedimento da eseguire, da quella dei terzi estranei al giudizio definito con la pronunciain executivis. Questi ultimi, onde tutelarsi contro gli atti del commissario ad acta, sono onerati della proposizione di una ordinaria azione di annullamento (secondo un rito diverso dal reclamo), tramite ricorso giurisdizionale o ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, alla stregua di un qualunque atto proveniente da una pubblica amministrazione.
La soluzione codicistica, della quale si è dato testé conto, se agevola l'individuazione del giudice competente a decidere le relative controversie, pone in tensione la qualificazione del commissario ad acta come organo ausiliario del giudice, dal momento che, qualora i suoi atti siano impugnati da terzi estranei al giudizio, la posizione del commissario si avvicina piuttosto a quella di un qualunque organo amministrativo, sia pur straordinario, legittimando così il riaffiorare delle ricostruzioni della figura alla stregua di un organo straordinario dell'amministrazione (soccombente).
In relazione ad entrambi i profili appena esaminati è intervenuta l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 8/2021, già ricordata, nella quale si è chiarito che, proprio in ragione delle diversità genetica e funzionale dei poteri esercitati dal commissario ad acta rispetto a quelli attribuiti alla amministrazione di volta in volta sostituita, a) gli atti adottati dal commissario ad acta non sono annullabili dall'amministrazione nell'esercizio del proprio potere di autotutela, né sono da questa impugnabili davanti al giudice della cognizione, ma sono esclusivamente reclamabili, a seconda dei casi, innanzi al giudice dell'ottemperanza, ai sensi dell'art. 114, comma 6, c.p.a. ovvero innanzi al giudice del processo sul silenzio, ai sensi dell'art. 117, comma 4, c.p.a.; b) gli atti adottati dal commissario ad acta dopo che l'amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, ovvero quelli che l'amministrazione abbia adottato dopo che il commissario ad acta abbia provveduto, sono da considerare inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse, a seconda dei casi, al giudice dell'ottemperanza o al giudice del processo sul silenzio.
La dottrina ha criticato la giurisprudenza amministrativa che, sulla base di un'interpretazione rigorosa dell'art. 114, comma 6, c.p.a. ritiene che le parti dispongano esclusivamente del rimedio rappresentato dalla possibilità di proporre reclamo avverso gli atti del commissario ad acta, a differenza dei terzi estranei al giudicato che contro gli stessi atti possono proporre l'azione di annullamento. Tale soluzione penalizzerebbe, infatti, le parti rispetto ai terzi e finirebbe per attribuire al giudice dell'ottemperanza una giurisdizione piena di cognizione, in spregio ai caratteri propri del processo esecutivo e in potenziale violazione dell'art. 112 c.p.a. che limita l'ambito della giurisdizione di ottemperanza alle sole questioni inerenti all'esecuzione dei provvedimenti del giudice amministrativo.
Va, tuttavia, ricordato che il Codice reca una seconda regola, parzialmente distonica rispetto a quella dettata dal richiamato art. 114. In particolare, l'art. 117, comma 4, c.p.a. stabilisce che il giudice che abbia deciso sopra un ricorso avverso il silenzio amministrativo conosce anche di tutte le questioni relative all'esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario ad acta eventualmente nominato. In questa ipotesi non è stata riproposta la distinzione tra impugnazione delle parti e impugnazione dei terzi estranei; soprattutto, non è stata prevista alcuna disciplina di un procedimento di reclamo conformato a quanto disposto dall'art. 114, comma 6, c.p.a. Può dunque ritenersi che l'art. 117, comma 4, individui unicamente una competenza funzionale del giudice che si sia pronunciato sul silenzio e che, per il rito, rinvii implicitamente alle regole dettate in via ordinaria per l'esercizio delle azioni proponibili avanti al giudice amministrativo. In altri termini, a seconda della natura concreta delle determinazioni assunte dal commissario ad acta, ossia a seconda che si tratti di atti amministrativi non riconducibili al decisum oppure di atti esecutivi di un preciso comando giurisdizionale, gli interessati potranno rispettivamente proporre la normale azione di annullamento o quella per ottemperanza (ivi incluso il procedimento per reclamo). Devono, infatti, essere qui richiamate le considerazioni sopra svolte in merito ai più o meno ampi margini di intervento che le pronunce giurisdizionali in materia di silenzio possono lasciare al commissario ad acta. Ed invero, là dove il giudice abbia esclusivamente dichiarato l'esistenza di un obbligo di provvedere, allora il commissario ad acta potrà esercitare in via sostitutiva la stessa discrezionalità, e con l'identica latitudine, riconosciuta dall'ordinamento all'amministrazione rimasta soccombente (e, deve ritenersi, anche rispettando la disciplina procedimentale prevista dall'ordinamento per la specifica fattispecie), comportandosi egli, sotto questo aspetto, come un organo straordinario dell'amministrazione medesima. Diversamente, qualora il giudice, con la sua decisione, abbia anche determinato il contenuto essenziale del provvedimento da adottare, il commissario ad acta sarà un mero attuatore del giudicato.
Un'ambivalenza della natura ausiliaria del commissario ad acta si registra anche nell'ipotesi dell'attuazione delle misure cautelari, a norma degli artt. 59,98 e 111 c.p.a. Anche in questi casi, infatti, il commissario ad acta, a seconda del contenuto precettivo delle pronunce da attuare, potrebbe in astratto adottare atti provvisori, ossia che riproducano l'interinalità tipica dei corrispondenti provvedimenti giurisdizionali di natura cautelare oppure atti connotati da una qual sorta di definitività. In questo secondo caso, pur dovendosi dubitare della legittimità di provvedimenti del genere, l'attività del commissario ad acta sarebbe assimilabile a quella propria dell'amministrazione interessata e, quindi, la figura di ausiliare si avvicinerebbe a quella di un organo straordinario dell'amministrazione.
Qualora, infine, il commissario ad acta sia stato nominato, nell'ambito del giudizio di cognizione (ad esempio, come sopra osservato, per l'esecuzione di provvedimenti istruttori), deve escludersi che soggetti diversi dalle parti possano in alcun modo agire per ottenere la rimozione o la modifica di un atto adottato dal commissario (fatta salva l'ipotesi di un intervento dei terzi in giudizio o della proposizione, ricorrendone i presupposti, di un'opposizione di terzo). In questa ipotesi, del resto, nemmeno le parti godono di uno specifico rimedio contro gli atti del commissario, potendo unicamente sollecitare un intervento del giudice, tenuto conto della modificabilità di tutti i provvedimenti istruttori (altrimenti impugnabili solo insieme al provvedimento che definisca in tutto o in parte la controversia), oppure facendo valere in altra sede l'eventuale responsabilità del commissario ad acta, la cui attività sia risultata illecita civilmente o sul versante disciplinare (o, al limite, penale).
Una nuova ipotesi di possibile utilizzo del commissario ad acta è stata prefigurata in una recente ordinanza del Consiglio di Stato (Cons. St. VI, n. 234/2017) con la quale si è affermato che spetta esclusivamente alle sezioni consultive del Consiglio di Stato, e non a quelle giurisdizionali, l'esecuzione di un parere sospensivo reso nell'ambito di un procedimento per ricorso straordinario a norma dell'art. 3, comma 4, l. n. 205/2000. Alla luce di tale pronuncia dovrà verificarsi se, per i fini dell'esecuzione di dette misure cautelari, anche le sezioni consultive possano nominare un commissario ad acta, qualora debbano sostituirsi all'amministrazione per l'attuazione dei pareri resi favorevolmente sulle istanze di sospensiva formulate nell'ambito del procedimento per ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Le difficoltà teoriche e pratiche sollevate da tale ipotesi riguardano la circostanza eccezionale che l'esecuzione avrebbe ad oggetto un parere (nonostante il succitato art. 3 della l. n. 205/2000 preveda che il parere reso dal Consiglio di Stato in sede consultiva su un'istanza di sospensione collegata a un ricorso straordinario debba essere recepito in un decreto del Ministero competente ai sensi dell'art. 8 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 o del Presidente della Regione Siciliana, qualora si tratti di un parere sospensivo emesso dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana).
Occorre, infine, dar conto della legittimazione del commissario ad acta (ma anche dell'amministrazione soccombente; Cons. St. II, n. 6989/2023) a proporre il ricorso per chiarimenti di cui all'art. 112, comma 5, c.p.a. In tal senso dispone, infatti, il successivo art. 114, il cui comma 7 prevede che, nel caso di ricorso in questione, il giudice fornisce chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza, anche su richiesta del commissario.
A proposito della particolare natura del ricorso per chiarimenti l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nella pronuncia del 15 gennaio 2013, n. 2, ha affermato che esso, in quanto proposto al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell'ottemperanza, non presenta caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanziale, al novero delle azioni di ottemperanza.
Il compenso del commissario ad acta
Il Codice non contiene, a differenza di quanto avviene per il consulente e il verificatore, una disciplina unitaria delle modalità di nomina e dell'attività del commissario ad acta. Tale carenza riguarda anche gli aspetti relativi al compenso.
Sebbene si siano date ipotesi in cui al commissario ad acta, se dipendente pubblico, non sia stato liquidato alcunché sul presupposto che l'attività ad esso delegata rientrasse nei doveri d'ufficio, si è poi affermata la prassi, in giurisprudenza, di riconoscere al commissario, con lo stesso provvedimento di nomina, il diritto a ricevere un compenso — da liquidarsi all'esito delle operazione delegate dal giudice e posto a carico di una o di entrambe le parti – che tenga conto degli aspetti qualitativi e quantitativi dell'attività compiuta.
L'attività dei commissari ad acta non è, infatti, svolta a titolo gratuito, ma oneroso. Tanto si ricava dall'art. 57 del d.P.R. n. 115/2002, recante il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, e, segnatamente, là dove il commissario ad acta, a tali fini, viene equiparato al verificatore e al consulente tecnico, prevedendosi, per l'appunto, che ad esso si applichi la disciplina degli ausiliari del magistrato, per l'onorario, le indennità e spese di viaggio e per le spese sostenute per l'adempimento dell'incarico. Deve, peraltro, ritenersi, pur nel silenzio del Codice sul punto, che anche al commissario ad acta si applichino il comma 4 dell'art. 66 e il comma 5 dell'art. 67 c.p.a. (che rinvia, per la determinazione e la liquidazione del compenso del consulente a quanto previsto dall'art. 66, comma 4, primo e terzo periodo, c.p.a.). La disciplina di carattere generale che ne risulta è la seguente: il presidente del collegio, su istanza del commissario ad acta, una volta che questi abbia terminato l'incarico, liquida con decreto il compenso complessivamente spettante all'ausiliare, ponendolo provvisoriamente a carico di una delle parti; poi, con la sentenza che definisce il giudizio, il collegio dovrà regolare definitivamente il relativo onere.
Va qui osservato che la disciplina generale dei compensi dovuti agli ausiliari si rinviene negli artt. 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56 e 57 del d.P.R. n. 115/2002 (ossia nel Titolo VII della Parte II del citato provvedimento normativo, dedicato agli «Ausiliari del magistrato nel processo penale, civile, amministrativo, contabile e tributario»), recante il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. Siffatte previsioni dispongono, in sintesi, che:
- agli ausiliari del magistrato spettano l'onorario, l'indennità di viaggio e di soggiorno, le spese di viaggio e il rimborso delle spese sostenute per l'adempimento dell'incarico; gli onorari sono fissi, variabili e a tempo (art. 49 del d.P.R. n. 115/2002);
- la misura degli onorari fissi, variabili e a tempo, è stabilita mediante tabelle, approvate con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze (ossia, dal d.m. 30 maggio 2002), ai sensi dell'art. 17, commi 3 e 4, della l. 23 agosto 1988, n. 400; le tabelle sono redatte con riferimento alle tariffe professionali esistenti, eventualmente concernenti materie analoghe, contemperate con la natura pubblicistica dell'incarico; le tabelle relative agli onorari a tempo individuano il compenso orario, eventualmente distinguendo tra la prima e le ore successive, la percentuale di aumento per l'urgenza, il numero massimo di ore giornaliere e l'eventuale superamento di tale limite per attività alla presenza dell'autorità giudiziaria (art. 50 del d.P.R. n. 115/2002);
- nel determinare gli onorari variabili il magistrato deve tener conto delle difficoltà, della completezza e del pregio della prestazione fornita; gli onorari fissi e variabili possono essere aumentati, sino al venti per cento, se il magistrato dichiara l'urgenza dell'adempimento con decreto motivato (art. 51 del d.P.R. n. 115/2002);
- per le prestazioni di eccezionale importanza, complessità e difficoltà gli onorari possono essere aumentati sino al doppio; se la prestazione non è completata nel termine originariamente stabilito o entro quello prorogato per fatti sopravvenuti e non imputabili all'ausiliario del magistrato, per gli onorari a tempo non si tiene conto del periodo successivo alla scadenza del termine e gli altri onorari sono ridotti di un terzo (art. 52 del d.P.R. n. 115/2002);
- quando l'incarico sia stato conferito ad un collegio di ausiliari (sebbene tale ipotesi ricorra raramente nel caso del commissario ad acta) il compenso globale è determinato sulla base di quello spettante al singolo, aumentato del quaranta per cento per ciascuno degli altri componenti del collegio, a meno che il magistrato disponga che ognuno degli incaricati debba svolgere personalmente e per intero l'incarico affidatogli (art. 53 del d.P.R. n. 115/2002);
- la misura degli onorari fissi, variabili e a tempo dovrebbe essere adeguata ogni tre anni (anche se dal 2002 non vi è più stato alcun aggiornamento; v., sul punto, Corte cost. n. 89/2020), in relazione alla variazione, accertata dall'Istat, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, verificatasi nel triennio precedente, con decreto dirigenziale del Ministero della giustizia, di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze (art. 54 del d.P.R. n. 115/2002);
- per l'indennità di viaggio e di soggiorno, si applica il trattamento previsto per i dipendenti statali. L'incaricato è equiparato al dirigente di seconda fascia del ruolo unico, di cui all' art. 15 del d.lgs. n. 165/2001; viene fatta salva l'eventuale maggiore indennità spettante all'incaricato dipendente pubblico; le spese di viaggio, anche in mancanza di relativa documentazione, sono liquidate in base alle tariffe di prima classe sui servizi di linea, esclusi quelli aerei; le spese di viaggio con mezzi aerei o con mezzi straordinari sono rimborsate se preventivamente autorizzate dal magistrato ( art. 55 del d.P.R. n. 115/2002);
- gli ausiliari del magistrato devono presentare una nota specifica delle spese sostenute per l'adempimento dell'incarico e allegare la corrispondente documentazione; il magistrato accerta le spese sostenute ed esclude dal rimborso quelle non necessarie; se gli ausiliari del magistrato siano stati autorizzati ad avvalersi di altri prestatori d'opera per attività strumentale rispetto ai quesiti posti con l'incarico, la relativa spesa è determinata sulla base delle tabelle di cui sopra; quando le prestazioni di carattere intellettuale o tecnico di detti prestatori abbiano una propria autonomia rispetto all'incarico affidato, il magistrato conferisce incarico autonomo (art. 56 del d.P.R. n. 115/2002).
In merito alla questione della perdurante applicabilità del sopra citato d.m. 30 maggio 2002, il Consiglio di Stato (Cons. St. V, n. 2015/2015) ha osservato che, sebbene il Codice stabilisca che per il compenso dovuto agli ausiliari del giudice si applicano le tariffe stabilite dalle disposizioni in materia di spese di giustizia, nondimeno, attualmente, la liquidazione del compenso in favore di detti ausiliari deve avvenire mediante l'utilizzo del sistema dei parametri introdotto dal d.m. 20 luglio 2012 n. 140, e non più in base al sistema tariffario di cui al d.m. 30 maggio 2002, a seguito dell'adozione del d.l. n. 1/2012, convertito in legge, con modificazioni, dall' art. 1, comma 1, della l. n. 27/2012, che ha abrogato (ex art. 9 del d.l. n. 1/2012, fino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali e, comunque, non oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione) il sistema delle tariffe professionali e tutte le disposizioni che ad esse rinviavano. Tuttavia la giurisprudenza è prevalentemente orientata nel senso che il sistema dei parametri non sia vincolante per il giudice e che esso assuma solo un valore orientativo, essendo imperniato su criteri soggettivi, oggettivi e funzionali. Occorre, peraltro, tener conto anche del d.m. 21 febbraio 2013, n. 46, per gli iscritti all'albo dei consulenti del lavoro, e, per le professioni dei medici veterinari, farmacisti, psicologi, infermieri, ostetriche e tecnici sanitari di radiologia medica, del d.m. 19 luglio 2016, n. 165.
Va, al riguardo, segnalato che l'art. 1 del d.m. n. 140/2012 detta, inoltre le seguenti regole generali:
- l'organo giurisdizionale che deve liquidare il compenso dei professionisti, in difetto di accordo tra le parti in ordine allo stesso compenso, applica le disposizioni del decreto e può applicare analogicamente tali disposizioni anche ai casi non espressamente regolati;
- nei compensi non sono comprese le spese da rimborsare secondo qualsiasi modalità, compresa quella concordata in modo forfettario. Non sono altresì compresi oneri e contributi dovuti a qualsiasi titolo. I costi degli ausiliari incaricati dal professionista sono ricompresi tra le spese dello stesso;
- i compensi liquidati comprendono l'intero corrispettivo per la prestazione professionale, incluse le attività accessorie alla stessa;
- nel caso di incarico collegiale il compenso è unico ma l'organo giurisdizionale può aumentarlo fino al doppio. Quando l'incarico professionale è conferito a una società tra professionisti, si applica il compenso spettante a uno solo di essi anche per la stessa prestazione eseguita da più soci;
- per gli incarichi non conclusi, o prosecuzioni di precedenti incarichi, si tiene conto dell'opera effettivamente svolta;
- l'assenza di prova del preventivo di massima costituisce elemento di valutazione negativa da parte dell'organo giurisdizionale per la liquidazione del compenso;
- in nessun caso le soglie numeriche indicate nel decreto, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, sono però vincolanti per la liquidazione stessa.
Attiene alla disciplina del compenso spettante al commissario ad acta anche il già richiamato 5-sexies, comma 8, della l. n. 89/2001 (sulla previsione di un'equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'art. 375 c.p.c.; cd. «Legge Pinto»), introdotto dalla legge di stabilità del 2016, con il quale si è previsto che, nell'ambito dei giudizi instaurati per l'ottemperanza delle condanne per irragionevole durata del processo, il giudice amministrativo debba nominare, ove occorra, commissario ad acta un dirigente dell'amministrazione soccombente (con esclusione dei titolari di incarichi di Governo, dei capi dipartimento e di coloro che ricoprono incarichi dirigenziali generali), e che i compensi in tal caso riconosciuti al commissario ad acta rientrino nell'onnicomprensività della retribuzione dei dirigenti.
La responsabilità del commissario ad acta
Al pari degli altri ausiliari del giudice amministrativo, anche il commissario ad acta, in relazione all'incarico affidatogli, può incorrere in vari tipi di responsabilità: penale, civile e disciplinare. Con riferimento alla responsabilità penale, occorre innanzitutto considerare che, in virtù della nomina giurisdizionale, il commissario ad acta assume la qualità di pubblico ufficiale e, quindi, possono essergli contestati, in generale, i reati (propri) previsti per questo genere di soggetti. Il codice penale contempla altri reati che astrattamente possono riguardare l'attività del commissario ad acta quali l'art. 366 c.p., in tema di rifiuto di uffici legalmente dovuti e l'art. 377 c.p., sull'intralcio alla giustizia.
In ordine alla responsabilità civile del commissario ad acta, può trovare applicazione l'ultimo periodo del secondo comma dell'art. 64 c.p.c., seppur riferito espressamente al consulente tecnico, in base al quale è dovuto il risarcimento dei danni causati alle parti, con colpa grave, per negligenza, imperizia o imprudenza, nell'esecuzione del proprio incarico.
Inoltre anche il commissario ad acta, specialmente se si tratti di un dipendente pubblico, può incorrere in responsabilità disciplinari connesse allo svolgimento dell'incarico assunto. I dipendenti pubblici, difatti, possono rispondere disciplinarmente, avanti alle amministrazioni di appartenenza, per condotte tenute durante la prestazione di un incarico di ausiliare del giudice (qualora, ad esempio, con la loro condotta abbiano leso il prestigio dell'amministrazione).
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Sommario
L'obbligo di prestare l'incarico. La ricusazione, l'astensione e la sostituzione del commissario ad acta
L'autotutela e l'impugnazione dei provvedimenti del commissario ad acta. Il ricorso per chiarimenti