La giurisdizione rappresenta il presupposto processuale di esistenza del processo e, come tale, deve essere accertato per primo dal giudice.
Inquadramento
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La giurisdizione rappresenta il presupposto processuale di esistenza del processo e, come tale, deve essere accertato per primo dal giudice.
La giurisdizione amministrativa presuppone la sussistenza dell'interesse legittimo (e del diritto soggettivo, in caso di giurisdizione esclusiva) in capo a chi introduce il giudizio. Sotto questo profilo non sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo se si verte in materia di diritti soggettivi e la p.a. non agisce come autorità, secondo la visione della Corte costituzionale (Corte cost. n. 204/2004). In tali casi le relative controversie restano devolute al giudice ordinario.
Sul versante interno la giurisdizione amministrativa si ripartisce in giurisdizione generale di legittimità, in giurisdizione esclusiva e in giurisdizione estesa al merito.
Il sistema giurisdizionale, quindi, può definirsi dualista, perché il legislatore ha creato il riparto di giurisdizione per fornire un quadro di tutela più ampio nei confronti del cittadino e non per renderlo più difficoltoso o complicato (Corte cost. n. 77/2007, in tema di translatio iudicii).
Un criterio di riparto sempre fondato sulla posizione giuridica sostanziale in concreto sussistente (criterio del petitum sostanziale o della causa petendi), ma che concede sempre più spazi a quello fondato sul potere autoritativo della P.A., accolto in relazione alle molteplici e rilevantissime ipotesi di giurisdizione esclusiva.
L'ordinamento, tuttavia, offre un sistema giurisdizionale di tutela del cittadino nei confronti della P.A. non sempre facile da decifrare.
La Corte di Cassazione, già nel 1968, affrontando il tema del riparto di giurisdizione, definì quella ordinaria e quella amministrativa come giurisdizioni non speciali, ma ordinarie nelle rispettive materie (Cass. n. 2616/1968).
È in via di cambiamento anche il concetto stesso di giurisdizione.
Nella visione tradizionale della dottrina, la giurisdizione, in quanto espressione di attività giurisdizionale, è manifestazione di sovranità e, quindi, appartiene allo Stato, del quale costituisce l'unica attività coessenziale all'ordinamento giuridico (CAIANIELLO, DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO, TORINO, 2003, pag. 80). È applicazione della norma al caso concreto da parte di un soggetto terzo ed imparziale (MANDRIOLI, DIRITTO PROCESSUALE CIVILE, I, TORINO, 2011, pag. 21) rappresenta la parte di potere affidata ad un giudice nei rapporti con un giudice di ordine diverso.
Nel tempo sono stai proposti diversi criteri per distinguere la giurisdizione dagli altri poteri dello Stato. Si è dapprima dato rilievo al carattere concreto dell'opera del giudice rispetto ai connotati astratti e generali della legge, poi ci si è concentrati sull'imparzialità del giudice, rispetto alla parzialità degli altri protagonisti del mondo del diritto, infine, si è proposto di individuare la peculiarità della giurisdizione nella preordinazione del giudice a risolvere una lite o nell'estraneità dell'iniziativa del giudizio rispetto al giudice.
Nessuno di questi criteri, però, è stato ritenuto soddisfacente (CAIANIELLO, DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO, TORINO, 2003, pag. 81). Si è, infatti, evidenziato che l'imparzialità, intesa come equidistanza dalle parti in conflitto, è caratteristica non esclusiva del giudice, potendosi rinvenire anche nell'attività consultiva del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, oltre che nell'attività del pubblico ministero (SANDULLI, FUNZIONI PUBBLICHE NEUTRALI E GIURISDIZIONE, IN RIV. DIR. PROC. 1964, pag. 200 ss.).
Quanto alla preordinazione del giudice a risolvere una lite, pur essendo vero che dove vi è giurisdizione vi è una lite, esistono casi in cui questa equivalenza non sussiste, come nei casi di giurisdizione volontaria; parimenti anche la necessità che ci sia una domanda per instaurare un processo non è una caratteristica di tutti i processi, in quanto esistono ipotesi di giudizi che possono essere attivati anche d'ufficio, come accade nel processo penale.
Ne deriva che, quindi, l'unico connotato che distingue e caratterizza la giurisdizione, rendendola unica e peculiare nell'ordinamento giuridico, è l'attitudine della pronuncia a passare in giudicato.
La visione tradizionale della giurisdizione è oggetto di profonda rivisitazione ad opera della Corte di Cassazione (Cass. S.U., n. 21260/2016) la quale ha chiarito che l'evoluzione del quadro legislativo, ordinario e costituzionale, mostra l'affievolimento della centralità del principio di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, accompagnata dalla simmetrica emersione della esigenza di sburocratizzare la giustizia, non più espressione esclusiva del potere statale, ma servizio per la collettività, che abbia come parametro di riferimento l'efficienza delle soluzioni e la tempestività del prodotto-sentenza, in un mutato contesto globale in cui anche la giustizia deve adeguarsi alle regole della concorrenza (si parla infatti di concorrenza degli ordinamenti giuridici).
Le questioni di giurisdizione, che possono essere contestate con l'appello (ai sensi dell'art. 9 c.p.a.) o con il ricorso per Cassazione, ai sensi dell'art. 111, co. 8 Cost., tradizionalmente, sono state individuate nella pronuncia con cui il giudice amministrativo invade i poteri del legislatore o della stessa autorità amministrativa (ipotesi cd. di invasione o sconfinamento), nelle ipotesi di rifiuto di giurisdizione per assenza, in assoluto, di una posizione giuridica tutelabile (cd. rifiuto di giurisdizione) o nei casi in cui la giurisdizione sia stata declinata sul falso presupposto che appartenesse al giudice ordinario o ad altro giudice speciale (cd. diniego di giurisdizione). Ai limiti interni della giurisdizione, invece, attengono in genere gli errori in iudicando o in procedendo, ossia le violazioni delle norme sostanziali o processuali, che pertanto non costituiscono vizio attinente alla giurisdizione ancorché si siano concretati in violazioni dei principi del giusto processo consacrati nel novellato art. 111 Cost.; ciò vale anche per le norme del diritto dell'Unione europea, la cui violazione, per giurisprudenza parimenti consolidata, non costituisce, in quanto tale, vizio attinente alla giurisdizione neppure sotto il profilo della violazione dell'obbligo di rimessione alla Corte di giustizia delle questioni interpretative relative ai trattati e agli atti dell'Unione, ai sensi dell'art. 267 FUE.
Cass. S.U. n. 26387/2020 hanno ricondotto nel difetto di giurisdizione, sindacabile in cassazione, ai sensi dell'art. 111, co 8 Cost, anche il difetto di costituzione del collegio giurisdizionale. In particolare, hanno enunciato il principio secondo cui nella composizione del collegio del Consiglio di Stato investito dell'appello avverso pronunce dell'autonoma sezione di Bolzano del Tribunale regionale di giustizia amministrativa, la mancanza del consigliere di Stato appartenente al gruppo di lingua tedesca (ovvero al gruppo di lingua ladina) della Provincia di Bolzano, determina un'alterazione strutturale dell'organo giudicante, tale da impedirne l'identificazione con l'organo delineato dalla fonte costituzionale, che prescrive che il giudice sia, nella sua composizione, rappresentativo del sistema autonomistico locale, a sua volta improntato alla tutela delle minoranze nel rispetto dei principali gruppi linguistici insediati nel territorio della Provincia; tale mancanza integra, pertanto, un difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato, scrutinabile dalle Sezioni unite. Nella specie, le Sezioni unite hanno dichiarato il ricorso inammissibile, sul rilievo che manca agli atti idonea prova a sostegno dell'allagata mancata partecipazione, al collegio giudicante del Consiglio di Stato, di un consigliere di Stato appartenente al gruppo di lingua tedesca della Provincia di Bolzano.
Cass. S.U. n. 25951/2020 hanno ritenuto non configurabile un eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo, per invasione della sfera riservata al potere discrezionale della pubblica amministrazione, nel caso in cui il giudice dell'ottemperanza, rilevata la violazione od elusione del giudicato amministrativo, adotti provvedimenti in luogo dell'Amministrazione inadempiente, sostituendosi al soggetto obbligato ad adempiere, in quanto, in ossequio al principio dell'effettività̀ della tutela giuridica, il giudizio di ottemperanza, al fine di soddisfare pienamente l'interesse sostanziale del ricorrente, non può̀ arrestarsi di fronte ad adempimenti parziali, incompleti od addirittura elusivi del contenuto della decisione.
A queste ipotesi, legate ad una nozione di giurisdizione statica si è affiancata, nel corso del tempo, una nozione di giurisdizione dinamica o funzionale, in cui è stata ritenuta appartenente alle questioni di giurisdizione anche quella legata ai modi con cui il giudice riconosce le forme di tutela e i relativi presupposti di operatività. In particolare, è stata ritenuta sussistente una questione di giurisdizione in presenza di una pronuncia del giudice amministrativa che, erroneamente interpretando le forme di tutela da somministrare al richiedente, gli ha negato tutela. Si è così creata una nuova ipotesi di diniego di giurisdizione.
Una delle applicazioni più note è stata quella in tema di pregiudiziale amministrativa, in cui le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno ritenuto ammissibile il ricorso per Cassazione, ai sensi dell'art. 111, comma 8 Cost., qualora il Consiglio di Stato avesse erroneamente negato tutela a colui che avesse proposto domanda risarcitoria senza previa impugnazione del provvedimento amministrativo (Cass. S.U., 13659/2006).
Su questa scia, più di recente, sono nuovamente intervenute le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 41226/2017) che hanno evidenziato il seguente principio di diritto:
a) in epoca più recente, alla tradizionale interpretazione “statica” – propria delle disposizioni codicistiche – del concetto di giurisdizione rilevante ai fini dell'impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, si è andata affiancando una ulteriore interpretazione, “dinamica” o “funzionale”, sottesa agli artt. 24, primo comma, 113, primo e secondo comma, Cost. e al primo comma dello stesso art. 111, come novellato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2;
b) secondo tale più recente orientamento: «attiene alla giurisdizione l'interpretazione della norma che l'attribuisce (…) non solo in quanto riparte tra gli ordini di giudici tipi di situazioni soggettive e settori di materia, ma vi attiene pure in quanto descrive da un lato le forme di tutela, che dai giudici si possono impartire per assicurare che la protezione promessa dall'ordinamento risulti realizzata, dall'altro i presupposti del loro esercizio»; sicché «è norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto al potere stabilendo attraverso quali forme di tutela esso si estrinseca» (nello stesso senso, Cass. S.U., 23 dicembre 2008, n. 30254).
c) si precisa, al riguardo, che nonostante la nuova accezione dinamica, resta ferma, anche nella giurisprudenza di legittimità posteriore a Cass. S.U., 23 dicembre 2008, n. 30254, l'esclusione da tale categoria delle questioni attinenti alla mera violazione del diritto dell'Unione europea e dei principi del giusto processo
d) alla regola della non estensione agli errori in iudicando o in procedendo del sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni del giudice amministrativo, può derogarsi nei casi eccezionali o estremi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento, tale da ridondare in manifesta denegata giustizia.
Questa ricostruzione ermeneutica, tuttavia, non è stata seguita dalla Corte costituzionale che, con sentenza n. 6 del 2018, che ha evidenziato l'erroneità della concezione dinamica di giurisdizione, perché priva di fondamento o estranea ad una questione qualificabile come propriamente di giurisdizione, in quanto sono richiamati princìpi fondamentali, quali la primazia del diritto comunitario, l'effettività della tutela, il giusto processo e l'unità funzionale della giurisdizione, che non legittimano un allargamento del concetto di giurisdizione. Secondo la Corte, nell'ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, “il problema indubbiamente esiste, ma deve trovare la sua soluzione all'interno di ciascuna giurisdizione, eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all'art. 395 c.p.c., come auspicato dalla stessa Corte Costituzionale, con riferimento alle sentenze della Corte EDU (sent. n. 123/2017).
Secondo la Corte, quindi, “l'«eccesso di potere giudiziario», denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l'avvento della Costituzione, va riferito, dunque, alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all'amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull'erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull'erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici”. Questo perché “il concetto di controllo di giurisdizione, così delineato nei termini puntuali che ad esso sono propri, non ammette soluzioni intermedie” e non può quindi essere esteso ai casi in cui si sia in presenza di sentenze "abnormi" o "anomale" ovvero di uno "stravolgimento", a volte definito radicale, delle "norme di riferimento". Ne deriva, quindi, che “non è consentita la censura di sentenze con le quali il giudice amministrativo o contabile adotti una interpretazione di una norma processuale o sostanziale tale da impedire la piena conoscibilità del merito della domanda”.
Sulla stessa scia le Sezioni unite si sono pronunciate sull'eccesso di potere giurisdizionale in relazione ad una sentenza di revocazione del Consiglio di Stato, precisando che: “In quanto concernenti l'accertamento dei fatti risultante dalla decisione impugnata per revocazione e le conseguenze della dichiarazione d'inammissibilità dell'impugnazione, tali censure non investono l'osservanza, da parte del Consiglio di Stato, dell'ambito dei poteri ad esso spettanti in sede di verifica dei presupposti che legittimano la proposizione dell'istanza di revocazione, e segnatamente della sussistenza dello errore di fatto risultante dagli atti o dai documenti di causa, il cui riscontro, costituendo l'unico oggetto della pronuncia d'inammissibilità, rappresenta anche la sola possibile occasione di superamento, da parte del Giudice amministrativo, dei limiti esterni della propria giurisdizione. L'estraneità a quest'ultimo profilo esclude la possibilità di dare ingresso alle censure proposte, conformemente al costante orientamento di questa Corte, secondo cui in sede di ricorso per cassazione avverso la sentenza del Consiglio di Stato che ha pronunciato sull'impugnazione per revocazione, può insorgere questione di giurisdizione soltanto con riguardo al potere giurisdizionale esercitato mediante la statuizione adottata sulla revocazione stessa. Tale principio, che il Collegio condivide ed intende ribadire anche in questa sede, trova applicazione, in particolare, allorché, come nella specie, vi sia stata la valutazione delle condizioni di ammissibilità dell'istanza di revocazione da parte del Consiglio di Stato, dovendo in tal caso escludersi in linea di principio l'ammissibilità del ricorso per cassazione, giacché con esso non potrebbe venire in discussione la sussistenza o meno del potere giurisdizionale di operare detta valutazione, e dunque una violazione di quei limiti esterni alla giurisdizione del Giudice amministrativo rispetto alla quale soltanto è ammesso il ricorso in sede di legittimità (cfr. Cass . S.U., ord. n. 23101/2019 e n. Cass. S.U. n. 21869/2019).
Le Sezioni unite, con ordinanza n. 19598/2020 (cfr., SANTISE, L'eccesso di potere giurisdizionale delle Sezioni Unite, in Questione giustizia) hanno sollevato questione pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia UE dubitando della compatibilità con il diritto dell'Unione dell'orientamento interpretativo sposato dalla Corte costituzionale n. 6 del 2018 che in radice esclude la possibilità per le Sezioni Unite della Corte di cassazione, investite da un mezzo di impugnazione ordinaria, qual è il ricorso per cassazione, di esaminarlo nel merito quando sia denunciata la immotivata violazione dell'obbligo di rinvio da parte del Consiglio di Stato e di effettuare direttamente il rinvio pregiudiziale, al fine di accertare l'esatta interpretazione del diritto dell'Unione e, di conseguenza, la compatibilità della sentenza impugnata con il diritto dell'Unione.
La Corte Giust., G. S., sentenza 21 dicembre 2021, C-497/20, andando di contrario avviso rispetto alle sezioni unite, ha ritenuto compatibile l'art. 111, comma 8 della Cost. sia con il principio di effettività che di equivalenza, propri del diritto UE.
In particolare, è perfettamente ammissibile che lo Stato membro interessato conferisca al supremo organo della giustizia ammnistrativa di detto Stato la competenza a pronunciarsi in ultima istanza, tanto in fatto quanto in diritto, sulla controversia di cui trattasi e di impedire, di conseguenza, che quest'ultima possa ancora essere esaminata nel merito nell'ambito di un ricorso per cassazione dinanzi all'organo giurisdizionale supremo dello stesso Stato (punto 64).
Tale conclusione non può essere rimessa in discussione alla luce dell'articolo 4, paragrafo 3, TUE, che obbliga gli Stati membri ad adottare ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione. Infatti, per quanto riguarda il sistema dei rimedi giurisdizionali necessari per assicurare un controllo giurisdizionale effettivo nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione, l'articolo 4, paragrafo 3, TUE non può essere interpretato nel senso che esso obbliga gli Stati membri ad istituire nuovi rimedi giurisdizionali, obbligo che non è imposto loro dall'articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE.
Prosegue la Corte che dal momento che i singoli hanno accesso, nel settore interessato, a un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge, ai sensi dell'articolo 47, secondo comma, della Carta – circostanza che sembra ricorrere, fatta salva la verifica del giudice del rinvio, nell'ordinamento giuridico italiano – una norma di diritto nazionale che impedisce che le valutazioni di merito effettuate dal supremo organo della giustizia amministrativa possano ancora essere esaminate dall'organo giurisdizionale supremo non può essere considerata una limitazione, ai sensi dell'articolo 52, paragrafo 1, della Carta, del diritto di ricorrere a un giudice imparziale sancito all'articolo 47 della stessa (punto 69).
Il criterio di riparto della giurisdizione
Nel 1865 il sistema giurisdizionale prevedeva una giurisdizione unica del giudice ordinario cui era devoluto il sindacato sui diritti civili e politici, ancorché fossero stati emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell'autorità amministrativa. Gli affari non compresi nella giurisdizione del giudice ordinario erano attribuiti alla cognizione delle autorità amministrative. La contrapposizione «diritto civile e politico» e «affari non compresi» segnò inizialmente il criterio di riparto tra tutela giurisdizionale e atti sottratti al sindacato del giudice ordinario per tutto il periodo compreso tra il 1865 e il 1889. L'istituzione della giurisdizione del giudice amministrativo può essere fatta risalire al 1889, anno in cui, con la l. n. 5992, è stata istituita la IV Sezione del Consiglio di Stato, cui è stato affidato il compito di annullare i provvedimenti amministrativi lesivi di «interessi».
Furono, quindi, gettate le fondamenta del riparto di giurisdizione e, nello stesso tempo, data voce alla funzione giurisdizionale del Consiglio di Stato che fino a quel momento aveva solo funzioni consultive (SANTI ROMANO, IL CONSIGLIO DI STATO, STUDI IN ONORE DEL CENTENARIO, I, 1932, 4 SS). Si passò così da un sistema monista, istituito nel 1865 con la legge che aveva abolito il contenzioso amministrativo, ad un sistema dualista, in cui, come avviene ancora oggi, ci sono due giurisdizioni per giudicare controversie differenti.
La giurisdizione amministrativa attiene alle controversie in cui si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicati dal legislatore, di diritti soggettivi (per un approfondimento, SANTISE, COORDINATE ERMENEUTICHE DI DIRITTO AMMINISTRATIVO, 2021, Torino, 741 ss.)
Questo è, del resto, l'unico criterio coerente con il giudice amministrativo quale giudice nell'amministrazione, secondo la lettura fornita dalla Corte costituzionale (Corte cost. n. 204/2004). Se l'istituzione della giustizia amministrativa trova la sua ratio nella necessità di riequilibrare un rapporto fondato sulla logica potestà-soggezione, è allora necessario che il giudice amministrativo fondi il suo potere sulla concreta esistenza dell'interesse legittimo e, nelle particolari materie, anche del diritto soggettivo.
La giurisdizione innanzi al giudice amministrativo deve, quindi, potersi radicare solo se si controverta, in concreto, di interessi legittimi. Solo in questo caso si giustifica la giurisdizione amministrativa che ha la precipua funzione di compensare i disequilibri presenti nel rapporto P.A.-privato.
Ecco, quindi, che l'accertamento della sussistenza della giurisdizione, il primo presupposto processuale da indagare, è nello stesso tempo l'accertamento della sussistenza, nel caso di specie, dell'interesse legittimo.
Un accertamento tipicamente processuale, nel giudizio amministrativo, si carica di aspetti di merito, perché il giudice per verificare se è dotato del potere giurisdizionale deve verificare la concreta esistenza dell'interesse legittimo.
La nascita della giurisdizione del g.a. fece sorgere un accesso dibattito avente ad oggetto l'individuazione del criterio di riparto tra il giudice dei diritti soggettivi e quello degli interessi legittimi.
Il dibattito si incentrò sul criterio del petitum formale o della prospettazione e su quello del petitum sostanziale o della causa petendi (CERULLI IRELLI, IL PROBLEMA DEL RIPARTO DELLE GIURISDIZIONI. PREMESSE ALLO STUDIO DEL SISTEMA VIGENTE, PESCARA, 1979).
Il primo predicava di attribuire la giurisdizione a seconda del tipo di provvedimento richiesto al giudice. Si trattava di un'impostazione che, quindi, si accontentava della prospettazione dei fatti come articolati dall'attore.
Il rischio collegato all'adozione di tale criterio era che la giurisdizione potesse radicarsi non in base alla concreta sussistenza della posizione giuridica sostanziale rilevante in quel singolo giudizio, ma in base alle prospettazioni delle parti.
Per tali motivi si propose di accogliere il criterio del petitum sostanziale (o della causa petendi) che prescindeva dalla prospettazione delle parti e dalla formale richiesta di provvedimento e si concentrava nell'accertamento concreto della posizione giuridica dedotta in giudizio. La giurisdizione del giudice amministrativo sussisteva in presenza dell'interesse legittimo.
La Corte di Cassazione seguì da subito il criterio della causa petendi (Cass. S.U., 24 luglio 1981 e Cass. S.U., 24 giugno 1987), a differenza del Consiglio di Stato che era oscillante al suo interno.
Nel 1930 fu siglato il patto tra giurisdizioni che individuò nel petitum sostanziale il criterio da seguire (Cons. St. Ad. plen., n. 1/1930 e Cass. S.U., n. 2680/1930).
Per comprendere, dunque, quale sia il giudice dotato di giurisdizione è necessario accertare in concreto la sussistenza dell'interesse legittimo.
La nozione di interesse legittimo
La nozione di interesse legittimo è alquanto controversa e dibattuta. La giurisprudenza, sia quella ordinaria che amministrativa, ne affermano l'esistenza; parte della dottrina italiana, anche spinta dalla considerazione che il diritto comunitario ignora tale figura, la considera un fantasma senza sostanza giuridica, un diritto soggettivo devitalizzato, la personificazione di un'ombra (SCOCA, L'INTERESSE LEGITTIMO, STORIA E TEORIA, TORINO, 2017).
Nonostante tale dibattito, l'interesse legittimo è tradizionalmente considerato una posizione giuridica soggettiva collegata ad un bene della vita la cui protezione (interesse legittimo oppositivo) o il cui ottenimento (interesse legittimo pretensivo) dipendono da un provvedimento amministrativo legittimo.
È una figura soggettiva, quindi, che, pur autonoma, perché preesiste al processo, dipende dal provvedimento amministrativo. In via speculare, può anche dirsi che, come la posizione giuridica del privato, dipende dal provvedimento amministrativo, così l'autorità pubblica, per certi versi, dipende dal privato, che può influenzare, con gli strumenti di tutela riconosciuti dal c.p.a., l'esercizio concreto del potere della p.a.
La circostanza che l'accertamento della giurisdizione cumula in sé una valutazione allo stesso tempo tipicamente processuale e sostanziale spiega il perché nel percorso di progressiva definizione dell'interesse legittimo la Corte di Cassazione, giudice regolatore dei conflitti di giurisdizione, abbia avuto un ruolo fondamentale.
Da ultimo, in relazione alla giurisdizione sull'affidamento serbato dal beneficiario di un provvedimento amministrativo favorevole, ma illegittimo, Cass. S.U. n. 17586/2015 ha evidenziato che l'interesse legittimo pretensivo, sebbene considerato come situazione strumentale secondo la tipica natura dell'interesse legittimo, lo è sempre nel senso che si tratta di situazione giuridica di vantaggio per il privato nella sua proiezione rivolta alla consecuzione del provvedimento e non certo in quella di situazione che sia indifferente a tale consecuzione ed abbia come oggetto e contenuto il provvedere della p.a. in modo legittimo e non il provvedere in modo positivo.
Occorre rimarcare, secondo la Corte, che un interesse legittimo pretensivo è situazione che ha come contenuto non già la pretesa a che l'amministrazione provveda legittimamente, ma che provveda legittimamene in vista di un provvedimento positivo. Siffatta strumentalità e proiezione della situazione ne individua allora la dimensione nella norma dell'art. 2043 c.c. – quale disposizione che, alla stregua della sentenza della Cass., S.U. n. 500/1999, vale ad attribuire rilievo al danno ingiusto tendenzialmente con riferimento alla lesione di qualsiasi situazione giuridica soggettiva riconosciuta dall'ordinamento. Non può, invece, essere attribuito rilievo a quelle situazioni giuridiche cui può essere arrecato danno ingiusto solo perché l'agire della P.A. non sia stato legittimo nel provvedere sulla richiesta del privato, bensì solo alle situazioni giuridiche cui può essere arrecato danno ingiusto se la P.A. neghi in modo illegittimo la soddisfazione dell'interesse al provvedimento ampliativo, cioè se neghi illegittimamente l'adozione del provvedimento positivo. L'interesse legittimo e il processo amministrativo presuppongono indefettibilmente la coppia autorità-soggezione.
L'interesse legittimo è, quindi, una posizione giuridica soggettiva tesa ad ottenere un bene della vita, che dipende dalla legittimità del provvedimento amministrativo. La differenza rispetto al diritto soggettivo è che questo è riconosciuto dalla legge e risponde alla sequenza norma-fatto-effetto. L'interesse legittimo, che sottende la coppia potestà-soggezione, invece, risponde alla sequenza norma-potere-effetto. Il collegamento tra fatto ed effetto è interrotto dall'esercizio del potere.
La precisazione della Corte, che l'interesse legittimo non è semplicemente l'interesse alla legittimità del provvedimento amministrativo, implicitamente dimostra che la giurisdizione amministrativa resta a carattere soggettivo perché calibrata sull'interesse soggettivo della parte ricorrente teso a domandare tutela innanzi al giudice amministrativo.
Comprendere, tuttavia, l'esatto criterio di riparto di giurisdizione non è cosa agevole anche perché, nel corso del tempo, si sono affiancate varie ricostruzioni, alcune legate alla distinzione tra attività di imperio e attività di gestione, altre a quella tra norme di azione e di relazione o all'attività vincolata e attività discrezionale, fino a quella tra cattivo uso di potere e carenza di potere.
Partendo da quest'ultima distinzione la giurisprudenza consolidata ha ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla carenza di potere (in astratto), quando, cioè, manchi qualunque collegamento del comportamento concretamente posto in essere con il potere amministrativo che, nella specie, si ritiene non esercitato.
L'occupazione di aree al di là dei confini segnati dal decreto di esproprio (c.d. sconfinamento) rappresenta non esercizio di pubblico potere, ma attività di puro fatto (c.d. occupazione usurpativa) posta in essere in carenza assoluta di potere, che integra un illecito comune a carattere permanente, lesivo del diritto soggettivo e non diverso da quello che potrebbe venire commesso da un privato che leda diritti dei terzi, onde l'azione risarcitoria del danno, che ne è conseguito, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario (Cons. Stato, Sez. IV, n. 1425/2017).
E ancora, la devoluzione operata dal legislatore a favore della cognizione esclusiva (diritti soggettivi ed interessi legittimi) su comportamenti lesivi della P.A. in materia urbanistica-espropriativa è immune da dubbi di costituzionalità solo nella misura in cui tali comportamenti presentino un oggettivo criterio di collegamento con l'esercizio di una pubblica potestà (c.d. comportamenti amministrativi). Appartiene, invece, alla giurisdizione ordinaria la cognizione dei «comportamenti» posti in essere in carenza di potere, ovvero in via di «mero fatto» (T.A.R. Puglia, (Bari), Sez. I, 9 febbraio 2017, n. 119).
La Corte di Cassazione ha, peraltro, ritenuto che rientrino nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, istituita dalla l. n. 205/2000, art. 7, e ribadita dall'art. 133, comma 1, lett. g), le occupazioni illegittime preordinate all'espropriazione attuate in presenza di un concreto esercizio del potere, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto e alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano e tutte quelle in cui l'esercizio del potere si è manifestato con l'adozione della dichiarazione di pubblica utilità, pur se poi l'ingerenza nella proprietà privata e/o la sua utilizzazione, nonché la sua irreversibile trasformazione, sono avvenute senza alcun titolo che le consentiva, ovvero malgrado detto titolo sia stato annullato dalla stessa autorità amministrativa che lo aveva emesso oppure dal giudice amministrativo; appartiene, invece, alla giurisdizione ordinaria la cognizione dei comportamenti posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto (Cass. S.U., n. 25044/2016).
Contrasti, invece, permangono in relazione alla carenza di potere in concreto che si realizza quando il provvedimento amministrativo è affetto da vizi particolarmente rilevanti. Secondo la giurisprudenza amministrativa, la giurisdizione pertiene al giudice amministrativo, sussistendo, comunque, il legame con il potere autoritativo. Secondo la Corte di Cassazione, invece, la giurisdizione è del giudice ordinario, alla luce dei considerevoli vizi che affliggono il provvedimento amministrativo tali da non consentire di ricondurre l'atto alla categoria del provvedimento amministrativo.
Espressione dell'orientamento della giurisprudenza amministrativa è il Consiglio di Stato (sentenza n. 4799/2016), secondo cui il decreto di esproprio, adottato oltre il termine della dichiarazione di pubblica utilità, non può considerarsi nullo per carenza di potere, ma illegittimo e, quindi, annullabile; il che trova conferma poi sul piano del diritto positivo, atteso che l'art. 21-septies l. 7 agosto 1990 n. 241, nell'introdurre in via generale la categoria normativa della nullità del provvedimento amministrativo, ha ricondotto a tale radicale patologia il solo difetto assoluto di attribuzione, che evoca la cd. «carenza in astratto del potere», cioè l'assenza in astratto di qualsivoglia norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento amministrativo, con ciò facendo implicitamente rientrare nell'area dell'annullabilità i casi della cd. «carenza di potere in concreto», ossia del potere, pur astrattamente sussistente, esercitato senza i presupposti di legge».
Nel medesimo senso si è posto anche la giurisprudenza consolidata dei T.A.R. In particolare, il T.A.R. Umbria I, 21 aprile 2015 n. 189, ha precisato che «Il decreto di esproprio, adottato oltre il termine della dichiarazione di pubblica utilità, non può considerarsi nullo per carenza di potere, ma illegittimo e, quindi, annullabile; il che trova conferma poi sul piano del diritto positivo, atteso che l'art. 21-septies l. 7 agosto 1990 n. 241, nell'introdurre in via generale la categoria normativa della nullità del provvedimento amministrativo, ha ricondotto a tale radicale patologia il solo difetto assoluto di attribuzione, che evoca la cd. «carenza in astratto del potere», cioè l'assenza in astratto di qualsivoglia norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento amministrativo, con ciò facendo implicitamente rientrare nell'area dell'annullabilità i casi della cd. «carenza di potere in concreto», ossia del potere, pur astrattamente sussistente, esercitato senza i presupposti di legge»). Nello stesso senso si vedano T.A.R. Lazio (Roma), Sez. II-bis, 4 marzo 2015 n. 3710; T.A.R. Sicilia (Palermo) I, 28 febbraio 2013 n. 453.
La Corte di Cassazione ha invece affermato la nullità per carenza di potere del decreto di esproprio tardivo (Cass. S.U., n. 5744/2015).
Sulla base della distinzione tra attività di imperio e attività di gestione si è soliti affermare, ancora oggi, che quando la p.a. agisce in via paritetica, realizzando un'attività in cui è mancante il connotato autoritativo, la giurisdizione non può che essere del giudice ordinario. Diversamente, il connotato di autoritatività della condotta della p.a. giustifica la giurisdizione del g.a. Sul punto, nello stesso senso, è Corte cost. n. 204/2004, che ritiene imprescindibile, anche nella giurisdizione esclusiva, il connotato di autoritatività dell'azione della P.A.
Sul punto si veda, Cass. S.U., n. 26900/2016, secondo cui sussiste la giurisdizione del g.o. in tutte le controversie, quali ne siano le eventuali diverse formulazioni, che abbiano ad oggetto la verifica dell'esistenza ed estensione di un diritto soggettivo — il diritto di proprietà — dell'attore in contrapposizione al diritto di proprietà dello Stato o di altro ente pubblico, con la conseguenza che anche in questo settore il riparto di giurisdizione si determina non già in base agli eventuali vizi degli atti adottati dall'Amministrazione ed alle pronunce richieste su di essi — annullamento piuttosto che disapplicazione — bensì in relazione al carattere paritario o autoritativo del rapporto intercorrente tra privato e P.A.
Seguendo, invece, il criterio norme di azione/norme di relazione, si precisa che la norma è di azione quando attribuisce il potere alla pubblica amministrazione e l'interesse del privato è sullo sfondo, perché è tutelato attraverso l'esercizio del potere. La norma è, invece, di relazione quando attribuisce direttamente poteri al privato, senza prevedere esercizio di potere pubblico. In base a tale distinzione, in realtà foriera di numerose incertezze, si ritiene che anche in presenza di un'attività vincolata possa stagliarsi l'interesse legittimo quando la norma attributiva del potere sia di azione. Questa ricostruzione è stata accolta da Cons. St. Ad.plen., n. 1/2002 sulla natura dell'accertamento del giudice amministrativo in presenza del silenzio inadempimento.
Tra i criteri più seguiti si colloca quello che distingue i comparti giurisdizionali a seconda del tipo di attività realizzata. Quando la p.a. esercita attività discrezionale, attua una scelta per perseguire l'interesse pubblico attribuito, i privati destinatari di quel potere non possono che essere titolari di un interesse legittimo. Diversamente a fronte di attività vincolata, perché il modus operandi è già predeterminato dal legislatore, si dipanano diritti soggettivi.
Se l'interprete volesse prendere come punto di riferimento un solo criterio si renderebbe conto che la giurisprudenza, spesso e volentieri, utilizza i vari criteri in maniera sinergica, dando senza dubbio prevalenza alla distinzione attività discrezionale e attività vincolata.
Sintomatica di questa impostazione è la sentenza del Cons. Stato, Ad. plen., n. 6/2014 che, in tema di riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche, ha precisato che il generale criterio di riparto è fondato sulla natura della situazione soggettiva azionata, con la conseguenza che:
– sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge, mentre alla Pubblica Amministrazione è demandato soltanto il compito di verificare l'effettiva esistenza dei relativi presupposti senza procedere ad alcun apprezzamento discrezionale circa l'an, il quid, il quomodo dell'erogazione (cfr. Cass. S.U., n. 150/2013);
– qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo sul presupposto di un addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o dall'acclarato sviamento dei fondi acquisiti rispetto al programma finanziato, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, an-che se si faccia questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si fondino sull'inadempimento delle obbligazioni assunte di fronte alla concessione del contributo. In tal caso, infatti, il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto, come tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario, attenendo la controversia alla fase esecutiva del rapporto di sovvenzione e all'inadempimento degli obblighi cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione (cfr. Cass. S.U. ord. n. 1776/2013);
– viceversa, è configurabile una situazione soggettiva d'interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, solo ove la controversia riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento discrezionale attributivo del beneficio, oppure quando, a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse, ma non per inadempienze del beneficiario (Cass. S.U., n. 1710/2013; Cons. St. Ad. plen., n. 17/2013).
Si veda, però, Cons. Stato, Sez. III, 21 ottobre 2020, n. 6371: nell'ambito di una completa ricostruzione dell'ordinamento vigente in relazione alle situazioni giuridiche soggettive rilevanti per il riparto di giurisdizione, il Consiglio di Stato ha ribadito l'inidoneità̀ del carattere fondamentale della situazione giuridica fatta valere a giustificare una deroga alla generalissima regola di riparto che vede il giudice amministrativo titolare della giurisdizione ove l'amministrazione agisca nell'esercizio di un potere dalla legge previsto a conformazione di quella situazione giuridica. Al riguardo, non c'è nella dinamica delle posizioni giuridiche alcun fenomeno di degradazione: diritti soggettivi e interessi legittimi piuttosto convivono tutte le volte in cui l'interesse sostanziale di cui la persona è titolare è protetto nella vita di relazione e al contempo il suo godimento è conformato dalla legge attraverso la previsione di un potere pubblico che ne assicuri la compatibilità̀ rispetto agli interessi della collettività̀. Inoltre, il Collegio esclude recisamente che il carattere vincolato dell'azione amministrativa possa ipso iure portare con sé il corollario della natura “paritetica” dei relativi atti e la conseguente giurisdizione ordinaria.
Dottrina autorevole ha, peraltro, ribadito di recente che l'interesse legittimo è “una valida ed autonoma figura di teoria generale”, perché resta diverso da altre situazioni giuridiche soggettive” (SCOCA, L'INTERESSE LEGITTIMO, STORIA E TEORIA, TORINO, 2017; pag.487).
Del resto, anche la Corte costituzionale ha evidenziato che interesse legittimo e diritto soggettivo sono situazioni giuridiche soggettive differenti: entrambe sono meritevoli di tutela, ma non necessariamente della stessa tutela (Corte cost. n. 94/2017
La giurisdizione del giudice ordinario e il potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo
La giurisdizione del giudice ordinario con riguardo ai provvedimenti amministrativi è rimasta, nella sua struttura essenziale, quella delineata dall'art. 5 l. n. 2248/1965 (l.a.c.), e si caratterizza e si risolve nel potere di disapplicare il provvedimento amministrativo; si tratta di un potere di natura processuale, perché l'accertamento è limitato al caso processuale indagato e, pertanto, la pronuncia non è suscettibile, sotto tale profilo, di passare in giudicato. Ciò accade perché l'accertamento della legittimità del provvedimento rappresenta una questione pregiudiziale, in cui la pregiudizialità è solo tecnica e non logica, perché il provvedimento resta esterno al rapporto giuridico. Quest'ultimo è influenzato tecnicamente dal provvedimento amministrativo, che resta sullo sfondo e non rappresenta il centro della vicenda processuale. In altri termini, l'accertamento della legittimità del provvedimento amministrativo non rappresenta, nell'ottica della decisione finale, una questione logicamente pregiudiziale rispetto alla sentenza, ma solo esterna, perché la questione della legittimità del provvedimento amministrativo può solo influenzare l'accoglimento o meno della domanda. Solo ragionando in questo modo si riesce a comprendere perché il g.o. può sindacare poteri amministrativi senza poterli annullare.
Si potrebbe, peraltro, assegnare alla disapplicazione anche natura sostanziale, qualora si ritenesse che in seguito alla disapplicazione la P.A. sarebbe, comunque, tenuta ad un annullamento doveroso.
La disapplicazione, nonostante tali eventuali risvolti sostanziali, resta, comunque, un potere di carattere processuale, che priva di effetti il provvedimento amministrativo e che è assegnato al g.o. per la tutela dei diritti soggettivi, innanzi al quale viene in rilievo la coppia diritto-obbligo e non quella potestà-soggezione, propria degli interessi legittimi.
Dal punto di vista processuale, nel caso della giurisdizione generale di legittimità del g.a., l'illegittimità dell'esercizio del potere rappresenta, invece, una questione pregiudiziale in senso logico, è cioè elemento costitutivo della fattispecie, impeditiva della pretesa sostanziale dell'amministrazione, fatta valere dal privato, e la cognizione sull'illegittimità è quindi effettuata in via principale. Nel caso, invece, della disapplicazione, l'illegittimità è elemento esterno alla fattispecie dedotta in giudizio e, tuttavia, condiziona il rapporto in virtù del nesso di pregiudizialità-dipendenza fra situazioni giuridiche (diversamente si avrebbe una posizione soggettiva di interesse legittimo e il giudice ordinario sindacherebbe il potere in via principale). Si tratta, quindi, di questione pregiudiziale in senso tecnico, e come tale va accertata in via incidentale.
Può accadere, infatti, che la disapplicazione sia esercitata in relazione a controversie tra privati, come nelle cause attinenti alle distanze tra edifici in cui a monte vi è un regolamento edilizio illegittimo. In tal caso si contesta la violazione delle distanze legali e il regolamento emerge solo ab externo al rapporto di vicinato. Innanzi al g.o. si controverte di diritti soggettivi, di questioni eminentemente privatistiche e la p.a., con l'emanazione del regolamento, emerge solo sullo sfondo di un rapporto che è tutto privatistico.
Sul punto la giurisprudenza ha evidenziato che le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo alla attività costruttiva, la cui legittimità potrà essere valutata incidenter tantum dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo, salvo che la domanda risarcitoria non sia diretta anche nei confronti della P.A. (nella specie, il Comune) per far valere l'illegittimità dell'attività provvedimentale, sussistendo in questo caso la giurisdizione del giudice amministrativo (Cass., Sez. II, n. 6854/2017).
La disapplicazione però può riguardare anche giudizi in cui è parte una P.A. Il provvedimento rappresenta, in tal caso, il presupposto di una determinata conformazione del rapporto giuridico, conformazione che l'atto non ha direttamente provocato (altrimenti la sede naturale per sindacare il provvedimento sarebbe la giurisdizione del giudice amministrativo). Un esempio è rappresentato dall'ordinanza ingiunzione per il pagamento di una somma a titolo di sanzione amministrativa, che rappresenta un atto di mera applicazione della legge e, per tali motivi, il giudizio appartiene al g.o. Altri casi possono essere rappresentati da quelle ipotesi in cui il provvedimento amministrativo ha natura meramente ricognitiva, dichiarativa o, comunque, accertativa di posizioni giuridiche di diritto soggettivo riconosciute, come tali, direttamente dalla legge.
In questo senso la giurisprudenza ha chiarito che il provvedimento prefettizio di individuazione delle strade lungo le quali è possibile installare apparecchiature automatiche per il rilevamento della velocità senza obbligo di fermo immediato del conducente, previsto dall'art. 4 del d.l. n. 121/2002 (conv., con modif., dalla l. n. 168/2002), può includere soltanto le strade del tipo imposto dalla legge mediante rinvio alla classificazione di cui all'art. 2, commi 2 e 3, d.lgs. n. 285/1992 (cod. strada) e non altre. È, pertanto, illegittimo, e può essere disapplicato nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, il provvedimento prefettizio che abbia autorizzato l'installazione delle suddette apparecchiature in una strada urbana che non abbia le caratteristiche «minime» della «strada urbana di scorrimento», in base alla definizione recata dal comma 2, lett. d), del citato art. 2 d.lgs. n. 285/1992 (Cass., Sez. II, n. 5532/2017).
La tripartizione della giurisdizione del giudice amministrativo: giurisdizione di legittimità, esclusiva ed estesa al merito
Il c.p.a., con l'art. 7 comma 3, ha confermato la tradizionale ripartizione della giurisdizione amministrativa in giurisdizione generale di legittimità, esclusiva ed estesa al merito.
La prima definita generale, perché il giudice amministrativo ha un potere generale di giudicare le controversie tra P.A. e privato in cui la posizione giuridica soggettiva sottesa è l'interesse legittimo.
La giurisdizione esclusiva e quella estesa al merito tradizionalmente sono di converso ipotesi speciali di giurisdizione amministrativa, ammesse solo laddove siano espressamente previste. Ipotesi eccezionali perché derogatorie dei principi generali. La giurisdizione esclusiva affida al giudice amministrativo il potere di tutelare anche i diritti soggettivi, così invadendo il potere giurisdizionale tradizionalmente affidato al giudice ordinario (si veda l'art. 133). La giurisdizione estesa al merito incrina la separazione dei poteri e consente al giudice amministrativo di sostituirsi alla P.A. (si veda l'art. 134).
Per tali motivi si tratta di ipotesi di giurisdizione che non possono essere estese oltre i tipi espressamente previsti dal legislatore.
Segue. La giurisdizione generale di legittimità e sua residualità
La crescita esponenziale delle ipotesi di giurisdizione esclusiva rende attuale il dibattito su quale sia la forma di giurisdizione prevalente. Nel disegno del legislatore, e per tradizione storica, la giurisdizione generale di legittimità è il modello principale di giurisdizione, cui si affiancano quella esclusiva e quella di merito. Non può, tuttavia, sfuggire, semplicemente osservando l'art. 133, che le ipotesi di giurisdizione esclusiva, oltre ad essere numerosissime e ad ampio spettro, riguardano le ipotesi più rilevanti delle controversie che interessano il diritto amministrativo.
L'art. 7, comma 1, testimonia come, in realtà, oggi il tradizionale criterio di riparto fondato sulla distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi vada riletto ed integrato alla luce degli insegnamenti della giurisprudenza costituzionale cristallizzati nelle storiche sentenze Corte cost. n. 204/2004 e Corte cost. n. 121/2006, ed in particolare alla luce del principio – ivi affermato – della necessaria afferenza al potere autoritativo del contenzioso che il legislatore può legittimamente attribuire alla giurisdizione del g.a.
Come si vedrà più in profondità in relazionale alla giurisdizione esclusiva, la dottrina più autorevole, più di un decennio fa, nel delineare i rapporti sussistenti tra giurisdizione generale di legittimità e giurisdizione esclusiva, aveva evidenziato che l'attributo generale apposto alla giurisdizione amministrativa può apparire ridondante, dato che le riforme stesse hanno esteso talmente tanto la giurisdizione esclusiva da farla divenire, dal punto di vista quantitativo, la parte principale della giurisdizione amministrativa. Lo stesso autore prospettava che, in seguito al ridimensionamento quantitativo della giurisdizione di legittimità, questa finirà con l'assumere un ruolo talmente marginale e residuale, per cui sembra preferibile definirla non più come generale di legittimità, bensì come giurisdizione di legittimità tout court (CAIANIELLO, DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO, TORINO, 2003, pag. 87).
I comportamenti della P.A.
Da una piana lettura dell'art. 7, comma 1, emerge che la giurisdizione amministrativa si estende ai comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio del potere amministrativo.
I comportamenti della p.a. rappresentano una categoria eterogenea capace di contenere ipotesi molto diverse tra di loro, che possono intercettare tanto la giustizia ordinaria che quella amministrativa.
Il comma 3, tuttavia, nel delineare la dimensione della giurisdizione generale di legittimità non richiama i comportamenti a differenza del comma 1. Si potrebbe sospettare che il legislatore abbia ritenuto compatibili i comportamenti solo con la giurisdizione esclusiva e non anche con la giurisdizione di legittimità.
Tale lettura del dato normativo non può, tuttavia, essere condivisa perché i comportamenti, se collegati direttamente al potere pubblico, sono comunque, espressione di attività autoritativa di cui può (id est, deve) conoscere il giudice amministrativo in sede di giurisdizione generale di legittimità. Si pensi ai comportamenti attuativi di un provvedimento amministrativo o, ancora, a quei comportamenti che attuano doveri previsti dalla legge per i quali non è necessario emanare uno specifico provvedimento amministrativo.
I comportamenti della p.a. possono essere, poi, suddivisi in comportamenti aventi valore provvedimentale e comportamenti non aventi valore provvedimentale. In relazione ai primi si individuano le forme di silenzio significativo. In relazione alla seconda ipotesi, alla luce dell'intensità del collegamento sussistente tra comportamento e provvedimento, è possibile operare una tripartizione distinguendo: i comportamenti non collegati al provvedimento; i comportamenti collegati mediatamente al provvedimento; i comportamenti collegati direttamente al provvedimento.
Detta tripartizione emerge per l'appunto dal dettato dell'art. 7, il quale devolve alla giurisdizione del g.a. «le questioni riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere».
La Corte costituzionale ha fatto rientrare nella giurisdizione amministrativa e, in particolare, in quella esclusiva, i comportamenti «mediatamente collegati» al provvedimento che, pur non attuando direttamente lo stesso, ricadono nell'orbita dell'esercizio del potere amministrativo, non essendo però frutto di un comportamento meramente illecito (Corte cost. n. 204/2004; Corte cost. n. 191/2006).
Similmente sussiste la giurisdizione del g.a. in caso di inerzia della P.A. Il silenzio non significativo della P.A. (su cui si veda art. 31, commi 1-3), pur rappresentando una mera inerzia, dà comunque vita ad un comportamento che rappresenta l'esatto speculare del potere che avrebbe dovuto essere esercitato dalla P.A. Dunque, il silenzio inadempimento dà vita ad un comportamento certamente collegato non all'esercizio del potere, ma al mancato esercizio del potere amministrativo, che avrebbe dovuto essere esercitato; anche il mancato esercizio del potere deve essere sindacato dal g.a., quando sottende interessi legittimi, come dimostra l'art. 7 (Cass. S.U., ord. n. 18152/2015).
L'art. 31 — nel quale è stato traslato l'art. 21-bis della l. n. 1034/1971 — non ha inteso creare un rimedio di carattere generale, esperibile in tutte le ipotesi di comportamento inerte della P.A. e, dunque, sempre ammissibile indipendentemente dalla giurisdizione del g.a. sulla questione sottostante, come si verificherebbe qualora il g.a. fosse stato configurato come giudice del silenzio della P.A., ma ha solo codificato un istituto giuridico di elaborazione giurisprudenziale, relativo all'esplicitazione di potestà pubblicistiche correlate alle sole ipotesi di mancato esercizio dell'attività amministrativa (T.A.R. Lazio (Roma), Sez.III, 28 aprile 2016, n. 4814).
Per Cass. S.U., n. 3661/2014, va ascritta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia instaurata dal proprietario di un fondo occupato dall'amministrazione per l'esecuzione di un'opera, il cui progetto sia stato approvato senza indicazioni dei termini di inizio e compimento dei lavori e della procedura, verificandosi in tal caso una situazione di carenza di potere espropriativo, per cui l'occupazione effettuata sul suolo privato costituisce mero comportamento materiale.
Tale intervento giurisprudenziale sottende la distinzione tra carenza di potere in astratto e in concreto.
Nel primo caso, il provvedimento è nullo e, non emergendo neanche le sembianze del provvedimento, la giurisdizione è del giudice ordinario.
Nel secondo caso, i vizi che affliggono il provvedimento non sono tali da disconoscere la categoria provvedimentale e, quindi, sussisterà la giurisdizione del giudice amministrativo.
Come ha sottolineato la dottrina, la distinzione tra carenza di potere in astratto e in concreto non è accolta dalla Corte di Cassazione che in entrambi i casi ritiene sussistente la giurisdizione del giudice ordinario. Tale soluzione, però, non convince perché solo le forme di carenza di potere in astratto possono condurre a tale esito, non anche quelle di carenza di potere in concreto che, in realtà, si risolvono in forme, sia pur gravi, di illegittimità del provvedimento ai sensi dell'art. 21-octies, comma 1 (CHIEPPA).
Cass. S.U., con ordinanza 29 gennaio 2018 n. 2145, ha specificato che rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie, anche di natura risarcitoria, relative ad occupazioni illegittime preordinate all'espropriazione, attuate in presenza di un concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi l'ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione, nonché l'irreversibile trasformazione della stessa, siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva. In particolare, hanno chiarito che sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione – anche ai fini complementari della tutela risarcitoria – di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, ancorché il procedimento all'interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo atto traslativo ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti in ipotesi illegittimi; sicché non determina la devoluzione della controversia alla giurisdizione del giudice ordinario la circostanza che l'ingerenza nella proprietà privata si sia in concreto realizzata una volta divenuta inefficace l'occupazione di urgenza per essere l'effettiva immissione nel possesso dell'immobile intervenuta decorso il termine di tre mesi dall'emanazione del provvedimento commissariale che la autorizzava.
In relazione alla pretesa atipicità dei comportamenti, Cass. S.U. n. 2052/2016, si pronuncia sulla sussistenza della giurisdizione in relazione ad una condotta della p.a. che ha provocato danno ai proprietari limitrofi delle zone interessate da un'espropriazione legittimamente espletata.
La Corte ha evidenziato che l'art. 7, comma 1, esige che il comportamento sia riconducibile all'esercizio di un potere amministrativo; si tratta di una relazione che non può essere intesa come se si trattasse di una mera occasionalità della tenuta del comportamento rispetto all'esercizio del potere, giacché ciò che è occasionale è certamente spiegabile sul piano deterministico come giustificato da qualcosa d'altro, ma per ciò solo, almeno secondo un lessico normativo, non può dirsi riconducibile ad esso. Il legislatore, nel determinare la nozione di comportamento, non ha accolto un criterio meramente finalistico, basato sulla mera occasionalità, ma parlando di riconducibilità al potere ha richiesto che il comportamento presenti oggettivamente un collegamento con l'esercizio del potere, costituisca, dunque, una manifestazione del potere, ancorché da verificare esistente.
Il potere di cui parla il comma 1, art. 7 va individuato in una previsione di legge o almeno giustificata da una previsione della legge.
È palese, secondo la Corte, che le forme di manifestazione dell'esercizio del potere dell'amministrazione (o di chi per essa) sono dunque identificate da quanto la norma direttamente od indirettamente prevede che essa possa fare autoritativamente e da quanto l'attribuzione del potere giustifica, perché questo sottende il potere. Lo stesso riferimento agli accordi nel comma 1, art. 7 sottende, com'è noto, che essi siano sostanzialmente sostitutivi dell'esercizio di ciò che l'amministrazione potrebbe fare autoritativamente.
Il punto di riferimento per stabilire ciò che è esercizio del potere è dunque la norma di previsione del potere asseritamente esercitato e ciò che essa consente come manifestazione dell'esercizio del potere, fermo restando che sia la verifica dell'esistenza della stessa norma astratta giustificativa del potere sia quella della sua concreta applicabilità competono al giudice amministrativo.
Anche il comportamento dell'amministrazione o di chi per essa allora, se deve essere riconducibile all'esercizio del potere, non sfugge alla stessa regola e, pertanto, esso può dirsi riconducibile a detto esercizio solo se appare tale in base alla previsione normativa di attribuzione del potere asseritamente esercitato.
La norma descrive innanzitutto l'agire dell'amministrazione riguardo ad un certo oggetto. Tale esercizio si concreta nel provvedimento che a tale oggetto si riferisce e che in relazione ad esso dispone e stabilisce il risultato che si deve raggiungere. Per raggiungere tale risultato sono necessari una serie di atti dell'amministrazione e di norma operazioni materiali, cioè comportamenti.
Questi comportamenti possono essere, però, di diversa natura.
Taluni sono oggettivamente necessari per realizzare il risultato che l'esercizio del potere deve raggiungere: si tratta di comportamenti che sono oggettivamente indispensabili per raggiungere tale risultato e sono tali secondo la stessa previsione della norma attributiva del potere. L'amministrazione ha certamente un potere di scelta nella tenuta di tali comportamenti, nel senso che sceglie di tenerli in un certo modo, piuttosto che in un altro, ma il tratto costante è che tutti i comportamenti che si potevano tenere, anche quelli non scelti, in ogni caso, per il modo in cui il potere è normativamente previsto, risultavano oggettivamente, per le loro caratteristiche in relazione all'oggetto del potere, ad esso riconducibili, perché concernevano proprio tale oggetto come normativamente previsto.
Vi sono, però, numerosi altri comportamenti che invece si rivelano soltanto funzionali al raggiungimento del risultato che l'esercizio del potere deve realizzare secondo la previsione normativa ed in relazione all'oggetto ch'essa prevede. Tali comportamenti sono in relazione con l'esercizio del potere non perché corrispondenti e dunque riconducibili a quanto oggettivamente la norma di previsione del potere prevede, bensì soltanto perché l'amministrazione o chi per essa li ha tenuti per raggiungere quel risultato, scegliendo di tenerli in un certo modo piuttosto che in un altro. Sono comportamenti che sono stati certamente funzionali a quel raggiungimento, ma non per le loro caratteristiche oggettive e, dunque, perché hanno rappresentato uno dei modi di realizzazione sul piano della realtà effettuale del potere per come descritto normativamente, bensì solo perché l'amministrazione li ha tenuti allo scopo di raggiungere il risultato dell'esercizio del potere asseritamente esercitato e normativamente descritto.
Non si tratta di comportamenti che per le loro caratteristiche rivelino dunque l'esercizio del potere, ma di comportamenti che solo per il loro finalismo e, dunque, non secondo quanto prevedeva la norma di attribuzione del potere, si pongono in relazione con il suo esercizio.
Sicché essi, di per sé, non si possono dire riconducibili a tale esercizio in quanto giustificato dalla norma di attribuzione del potere asseritamente invocata dall'amministrazione o da chi per essa riguardo al suo agire.
I comportamenti riconducibili all'esercizio del potere sono dunque solo quelli che trovano oggettiva giustificazione in ciò che la previsione del potere al livello normativo stabiliva.
In quest'ottica, secondo le Sezioni unite, la domanda di risarcimento del danno del proprietario dell'area contigua a quella in cui è realizzata l'opera pubblica (nella specie, la linea ferroviaria dell'alta velocità) appartiene alla giurisdizione ordinaria ove, nella prospettazione dell'attore, fonte del danno non siano né il «se» né il «come» dell'opera progettata, ma le sue concrete modalità esecutive, atteso che la giurisdizione (esclusiva) amministrativa si fonda su un comportamento della P.A. (o del suo concessionario) che non sia semplicemente occasionato dall'esercizio del potere, ma si traduca, in base alla norma attributiva, in una sua manifestazione e, cioè, risulti necessario, considerate le sue caratteristiche in relazione all'oggetto del potere, al raggiungimento del risultato da perseguire.
Parte della dottrina ritiene, invece, che almeno nella giurisdizione esclusiva quando si staglia un diritto soggettivo rileva un comportamento collegato mediatamente al potere pubblico; comportamento che, si precisa, non è espressione di potere pubblico in senso tecnico, perché il comportamento è per definizione atipico, rispetto ai provvedimenti che sono tipici perché devono essere tutti previsti dalla legge, in forza del principio di legalità (SCODITTI, RICORRIBILITÀ IN CASSAZIONE PER VIOLAZIONE DI LEGGE DELLE SENTENZE DEL CONSIGLIO DI STATO SU DIRITTI SOGGETTIVI: UNA QUESTIONE APERTA, IN FORO IT. 2014, V, 157 SS.)
Nel delineare il riparto di giurisdizione sui comportamenti, le sezioni unite hanno chiarito che alla cognizione del giudice amministrativo — giudice del legittimo esercizio della funzione amministrativa — sono attribuite le domande di risarcimento del danno che si pongano in rapporto di causalità diretta con l'illegittimo esercizio (o con il mancato esercizio) del potere pubblico, mentre resta riservato al giudice ordinario soltanto il risarcimento del danno provocato da «comportamenti» della p.a. che non trovano rispondenza nel precedente esercizio di quel potere (Cass. S.U., n. 11292/2015; Cass. S.U. n. 13568/2015).
In particolare, le sezioni unite, in relazione alla domanda volta a contestare la mancata demolizione da parte dell'amministrazione comunale delle opere abusive, ha evidenziato che ciò che rileva non è la mancata adozione di provvedimenti amministrativi discrezionali, ma il comportamento materiale dell'amministrazione comunale, consistente nella mancata demolizione delle opere asseritamente abusive; se è vero che la semplice adozione dell'ordine di demolizione non è idonea a comportare ex se il trasferimento dell'immobile abusivo al patrimonio del Comune, è vero altresì che i provvedimenti successivi che il Comune che abbia accertato l'illecito edilizio è chiamato ad adottare sono provvedimenti vincolati, nei quali, quindi, non viene in discussione l'esercizio di potestà discrezionali della pubblica amministrazione (Cons. Stato, Sez. V, n. 3097/2014). Venendo, quindi, in rilievo il comportamento omissivo della pubblica amministrazione nel compimento di un'attività vincolata, la domanda volta ad ottenere la condanna del preteso danno che il detto comportamento materiale omesso avrebbe eliminato non può che rientrare nella giurisdizione del giudice ordinario (Cass. S.U., n. 25978/2016).
Critica questa conclusione VIOLA (UNA GIURISDIZIONE «A MACCHIA DI LEOPARDO» SUI COMPORTAMENTI MATERIALI DELLA P.A., IN LEXITALIA N. 6/2017) che ritiene fortemente opinabile la sentenza perché il giudice amministrativo è sicuramente l'unico giudice a potersi pronunciare sulla legittimità del provvedimento da eseguire e, comunque, la posizione giuridica soggettiva del richiedente è di interesse legittimo; inoltre, la fattispecie si caratterizza per un sostanziale intreccio di comportamenti materiali e attività provvedimentale dell'ente esecutante che rende di difficile applicazione il criterio discretivo della giurisdizione.
Gli atti politici
L'art. 7, primo comma, ultima parte, nel riprendere l'art. 31 T.U. Cons. Stato, espressamente prevede la non impugnabilità degli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del potere politico.
Gli atti politici costituiscono espressione della libertà politica affidata dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti (CHIEPPA, 82). Per tali motivi sono necessariamente liberi nel fine, a differenza degli atti amministrativi che devono sempre perseguire l'interesse pubblico individuato nella legge (principio di legalità), anche quando sono espressione di discrezionalità amministrativa.
La giurisprudenza delle Sezioni Unite ha chiarito in più riprese che la nozione di atto politico risulta attualmente intesa in senso decisamente restrittivo, con limitazione entro rigorosi margini delle aree sottratte al sindacato giurisdizionale (Cass. S.U., n. 10416/2014, ove si fa richiamo a Corte cost. n. 81/2012 e a Corte cost. n. 339/2007; Cass. S.U., n. 16305/2013).
In quest'ottica Cass. S.U., n. 10319/2016 ha precisato che l'area della immunità giurisdizionale risulta esclusa allorquando l'atto sia vincolato ad un fine desumibile dal sistema normativo, anche se si tratti di atto emesso nell'esercizio di ampia discrezionalità.
Ciò che conta, dunque, perché l'atto possa essere considerato come politico è che sia libero nei fini e, quindi, non controllabile dal giudice amministrativo.
Proprio l'assenza di un vincolo funzionale, e quindi di parametri di riferimento, comporta che l'attività politica non può essere sindacata dal giudice amministrativo.
Ad ogni modo, comunque, l'attività politica è, comunque, soggetta alla Costituzione e, quindi, in sede di conflitto di attribuzioni o di ricorso, in via principale o incidentale, possono essere assoggettati al controllo della Corte costituzionale (CHIEPPA, 83).
Espressione di atti politici sono stati ritenuti l'atto di indizione del referendum e il rifiuto di avviare le trattative sulle intese religiose.
Segue. L'atto di indizione del referendum
Il T.A.R. Lazio, con sentenza del 22 novembre 2016, n. 11662, ha dichiarato inammissibile l'impugnazione avente ad oggetto il decreto del Presidente della Repubblica con cui veniva indetto un referendum in quanto atto politico e, come tale, non sindacabile dal g.a. Non rileva, secondo i giudici amministrativi, la circostanza che l'organo emanante l'atto sia il Presidente della Repubblica, in quanto come precisato anche dalla Corte costituzionale (cfr., ex multis, sentenza n. 1 del 2013) il Presidente della Repubblica costituisce un organo costituzionale monocratico «titolare di un complesso di attribuzioni, non inquadrabili nella tradizionale tripartizione dei poteri dello Stato ed esercitabili in posizione di piena indipendenza e autonomia, costituzionalmente garantita», qualificabile come «potere» dello Stato e legittimato — in quanto tale — a sollevare «conflitti di attribuzione» (cfr., tra le altre, Corte cost., ord. n. 138/2015; Corte cost. n. 200/2006), dotato altresì di competenze molteplici finalizzate alla attuazione dei principi costituzionali, idonee a tradursi nell'adozione di atti e provvedimenti differentemente classificabili a seconda della funzione effettivamente esercitata, che può inerire a procedimenti di formazione delle leggi, può incidere sul potere esecutivo o, ancora, essere riconducibile all'attività amministrativa, abbracciando anche funzioni peculiari ed esclusive, non classificabili nella tradizionale tripartizione dei poteri, come, ad esempio, in caso di decreti di nomina di senatori a vita e di atti di scioglimento delle Camere. In ragione della poliedricità delle funzioni e delle competenze del Presidente della Repubblica, è, dunque, da escludere l'insindacabilità in termini assoluti degli atti e dei provvedimenti adottati da tale organo, essendo conseguentemente necessario procedere ad una valutazione — sempre e in ogni caso – della natura del potere in concreto esercitato alla stregua delle specifiche attribuzioni riconosciute dall'ordinamento, tenendo comunque conto delle peculiarità che connotano tali atti e provvedimenti, da coordinarsi con gli specifici profili che risultano oggetto di contestazione;
Secondo i giudici amministrativi, i decreti del Presidente della Repubblica non sono insindacabili in termini assoluti, ma sono sottratti al sindacato giurisdizionale esclusivamente nei limiti in cui il relativo contenuto costituisca esercizio di poteri non riconducibili a quelli amministrativi e «politici» non liberi nei fini nel senso dinanzi illustrato, ma siano piuttosto riconducibili all'esplicazione di poteri neutrali di garanzia e controllo, di rilievo costituzionale.
Alla luce di tali considerazioni il T.A.R. Lazio ha ritenuto inammissibile l'impugnazione avverso la legittimità del decreto del Presidente della Repubblica nella parte in cui richiama e, quindi, sostanzialmente recepisce il contenuto delle ordinanze dell'Ufficio Centrale per il Referendum costituito presso la Corte Suprema di Cassazione, ossia il giudizio positivamente reso da quest'ultimo circa la legittimità e l'ammissibilità delle «richieste di referendum popolare, ai sensi dell'articolo 138, secondo comma, della Costituzione» e circa la legittimità del quesito referendario.
A tale conclusione si addiviene in ragione della insindacabilità, da parte del giudice amministrativo, delle ordinanze adottate, in materia, dall'Ufficio Centrale del Referendum istituito presso la Suprema Corte di Cassazione, stante la natura di organo rigorosamente neutrale dello stesso, essenzialmente titolare di funzioni di controllo esterno espletate in posizione di terzietà ed indipendenza nell'ambito del procedimento referendario costituzionale, con la connessa impossibilità di qualificare gli atti dallo stesso adottati in materia di referendum come atti oggettivamente e soggettivamente amministrativi (in senso analogo, ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, n. 5369/2015, di conferma della sentenza di questa Sezione n. 4059 del 2015; Cons. St. IV, n. 2552/2010; Cons. St. IV, n. 3834/2009; Cons. St. IV, n. 333/1997); deve ulteriormente segnalarsi che, anche aderendo all'orientamento seguito dalla Corte costituzionale in ordine alla natura giurisdizionale all'Ufficio Centrale per il Referendum (Corte cost. n. 164/2008, Corte cost. n. 343/2003 e Corte cost. n. 334/2004) e dalla stessa Corte di cassazione, la natura dei relativi provvedimenti e la relativa definitività – salvo il caso della revocazione – a maggior ragione non consentirebbero il riconoscimento della giurisdizione di questo Giudice.
L'insindacabilità del rifiuto di avviare le trattative sulle intese religiose
Di recente si è posta la questione della possibilità da parte del giudice amministrativo di sindacare la delibera del Consiglio dei Ministri di non avviare le trattative finalizzate alla conclusione dell'intesa, ai sensi dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione, con l'Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti («UAAR»), ritenendo che la professione di ateismo, affermata dall'associazione in questione, non consenta la sua assimilazione ad una confessione religiosa.
Le sezioni unite della Corte di cassazione hanno affermato la sindacabilità di tale decisione, in quanto l'accertamento preliminare relativo alla qualificazione dell'istante come confessione religiosa costituisce esercizio di discrezionalità tecnica da parte dell'amministrazione, come tale sindacabile in sede giurisdizionale. Ponendo in relazione il primo comma dell'art. 8 Cost., che garantisce l'eguaglianza delle confessioni religiose davanti alla legge, con il successivo terzo comma, che assegna all'intesa la regolazione dei rapporti tra Stato e confessioni diverse da quella cattolica, la Corte di cassazione ha ritenuto che la stipulazione dell'intesa sia volta anche alla migliore realizzazione dei valori di eguaglianza tra confessioni religiose. Per tale ragione, ha assunto che l'attitudine di un culto a stipulare le intese con lo Stato non possa essere rimessa all'assoluta libertà del Governo.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha sollevato conflitto di attribuzione innanzi alla Corte costituzionale.
Quest'ultima, con sentenza 52/2016, ha evidenziato che per il Governo, l'individuazione dei soggetti che possono essere ammessi alle trattative, e il successivo effettivo avvio di queste, sono determinazioni importanti, nelle quali sono già impegnate la sua discrezionalità politica, e la responsabilità che normalmente ne deriva in una forma di governo parlamentare. Vi è qui, in particolare, la necessità di ben considerare la serie di motivi e vicende, che la realtà mutevole e imprevedibile dei rapporti politici interni ed internazionali offre copiosa, i quali possono indurre il Governo a ritenere non opportuno concedere all'associazione, che lo richiede, l'avvio delle trattative. A fronte di tale estrema varietà di situazioni, che per definizione non si presta a tipizzazioni, al Governo spetta una discrezionalità ampia, il cui unico limite è rintracciabile nei principi costituzionali, e che potrebbe indurlo a non concedere nemmeno quell'implicito effetto di «legittimazione» in fatto che l'associazione potrebbe ottenere dal solo avvio delle trattative. Scelte del genere, quindi, per le ragioni che le motivano, non possono costituire oggetto di sindacato da parte del giudice.
L'ulteriore presupposto della giurisdizione amministrativa: l'esistenza della P.A.
Ulteriore imprescindibile presupposto per radicare la giurisdizione del g.a. è l'esistenza stessa di una pubblica amministrazione.
Cass. S.U., n. 19677/2016 ha rilevato che presupposto della giurisdizione amministrativa è che la tutela giurisdizionale coinvolgente le situazioni giuridiche nella giurisdizione di legittimità o in quella esclusiva deve aver luogo con la partecipazione in posizione attiva o passiva della p.a. ovvero del soggetto che, pur non facendo parte dell'apparato organizzatorio di essa, eserciti le attribuzioni dell'amministrazione, così ponendosi come p.a. in senso oggettivo.
L'art. 7, comma 1, nell'individuare la giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie, di diritti soggettivi, riferisce tali controversie a «l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo» e le dice «riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni.
Le forme dell'esercizio del potere specificamente indicate sono considerate siccome poste in essere da «pubbliche amministrazioni»: tale precisazione evidenzia in modo indubitabile che la controversia riguarda quelle forme di esercizio del potere in quanto poste in essere dall'Amministrazione, il che non lascia dubbi sul fatto che soggettivamente la controversia esige che una delle parti sia la pubblica amministrazione e l'altra il soggetto che faccia la questione sull'interesse legittimo o sul diritto soggettivo.
Ne deriva che le pretese risarcitorie avanzate nei confronti del funzionario amministrativo in proprio, cui si imputi l'adozione del provvedimento illegittimo, va proposta innanzi al giudice ordinario.
In base agli articoli 103 Cost. e 7c.p.a., il giudice amministrativo ha giurisdizione solo per le controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione o un soggetto ad essa equiparato, con la conseguenza che la domanda che la parte privata danneggiata dall'impossibilità di ottenere l'esecuzione in forma specifica del giudicato proponga nei confronti dell'altra parte privata, beneficiaria del provvedimento illegittimo, esula dall'ambito della giurisdizione amministrativa (Cons. Stato, Ad. pl., n. 2/2017).
Nello stesso senso Cass. S.U., n. 19170/2017 secondo cui l'art. 103 Cost. non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie in cui non sia parte una p.a. o un soggetto ad essa equiparato, sicché la pretesa risarcitoria avanzata nei confronti di un funzionario di un Comune va proposta innanzi al giudice ordinario.
Peraltro, il richiamo alle pubbliche amministrazioni e ai soggetti ad essi equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo, comporta il riferimento all'art. 1, comma 1-ter l. 241/1990 che si riferisce all'esercizio privato di pubbliche funzioni.
La difficoltà attuale di individuare una pubblica amministrazione, nel senso illustrato, si ribalta naturalmente anche sul problema della giurisdizione.
Difficoltà acuita dalla constatazione che l'ordinamento si è ormai orientato verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico. Si riconosce che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica. Si è quindi innanzi ad una nozione funzionale di ente pubblico, secondo cui il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro di ente pubblico non è sempre uguale a sé stesso, ma muta a seconda dell'istituto o del regime normativo che deve essere applicato e dalla ratio ad esso sottesa (Cons. Stato, n. 2660/2015).
Segue. La giurisdizione sulle società pubbliche
Il tema involge anche quello degli atti di gestione delle società pubbliche e delle azioni di risarcimento esperite nei confronti degli amministratori per i danni patiti al patrimonio sociale.
Anche in tal caso è preliminare individuare la natura pubblica o privata dell'ente nella consapevolezza che ormai l'art. 1, comma 3 del d.lgs. n. 175/2016, prevede l'applicabilità alle società a partecipazione pubblica delle norme sulle società contenute nel codice civile e delle norme generali di diritto privato. Si potrebbe dire che in assenza di chiari elementi di deroga alla disciplina comune, la partecipazione pubblica nelle società non è in grado di alterarne la struttura. In questo senso si poneva, del resto, anche l'art. 4, comma 13, secondo periodo, d.l. n. 95/2012 (ma già nello stesso senso l'art. 6, comma 11, d.l. n. 78/2010 sulla c.d. spending review), secondo cui «le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica, si interpretano nel senso che, ove non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali. Peraltro, già dalla relazione al codice civile emergeva che quando lo Stato si assoggetta alla legge delle società per azioni si deve applicare senza eccezioni la legge del diritto delle società, salvo diversa previsione di legge. L'art. 2451 c.c., nella stessa ottica, prevede l'applicabilità del capo sulle società anche alle società di interesse nazionale, compatibilmente con le disposizioni di leggi speciali che dispongano diversamente.
In base a tali presupposti normativi, quindi, la giurisdizione sugli atti di gestione della società spetta al giudice ordinario.
In tale senso, peraltro, si pone la giurisprudenza delle sezioni unite. In particolare, in tema di società per azioni partecipata da ente locale, la revoca dell'amministratore di nomina pubblica, ai sensi dell'art. 2449 c.c., può essere da lui impugnata presso il giudice ordinario, non presso il giudice amministrativo, trattandosi di atto «uti socius», non «jure imperii», compiuto dall'ente pubblico «a valle» della scelta di fondo per l'impiego del modello societario, ogni dubbio essendo risolto a favore della giurisdizione ordinaria dalla clausola ermeneutica generale in senso privatistico di cui all'art. 4, comma 13, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 135.
L'amministratore revocato dall'ente pubblico, come l'amministratore revocato dall'assemblea dei soci, può chiedere al giudice ordinario solo la tutela risarcitoria per difetto di giusta causa, a norma dell'art. 2383 c.c., non anche la tutela «reale» per reintegrazione nella carica, in quanto l'art. 2449 c.c. assicura parità di «status» tra amministratori di nomina assembleare e amministratori di nomina pubblica (Cass. S.U., n. 1237/2015).
Parimenti in relazione all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti, le sezioni unite, con orientamento consolidato, hanno evidenziato che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario se non è configurabile, avuto riguardo all'autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti«, mentre »sussiste invece la giurisdizione di quest'ultima quando l'azione di responsabilità trovi fondamento nel comportamento di chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero in comportamenti degli amministratori o dei sindaci tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell'ente pubblico, strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed implicante l'impiego di risorse pubbliche, o da arrecare direttamente pregiudizio al suo patrimonio« (Cass. S.U. n. 5491/2014). Tale orientamento, secondo le sezioni unite citate, fondato sul ruolo centrale della distinzione tra società di capitali (soggetto di diritto privato) ed i propri soci (ancorché eventualmente pubblici) — distinzione che non viene meno neppure nell'eventualità in cui la società sia unipersonale —, è stato tenuto fermo anche alla luce della normativa sopravvenuta in materia di società a partecipazione pubblica, la quale, per il suo carattere spesso frammentario e contingente, non assume le caratteristiche di un sistema conchiuso ed a sé stante, ma appare come un insieme di deroghe alla disciplina generale.
In relazione alle società in house, altra sentenza delle sezioni unite ha affermato il principio in base al quale «la Corte dei conti ha giurisdizione sull'azione di responsabilità esercitata dalla Procura della Repubblica presso la Corte quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per i danni da essi cagionati al patrimonio di una società »in house«, così dovendosi intendere quella costituita da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente i medesimi enti possano essere soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto assoggetta a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici» «; tali requisiti, come è stato precisato, devono sussistere tutti contemporaneamente e devono tutti trovare il loro fondamento in precise e non derogabili disposizioni dello statuto sociale (Cass. S.U. n. 26283/2013). Negli stessi termini si è posta di recente Cass. S.U. n. 7293/2016.
Di rilievo è, peraltro, Cass. S.U., n. 24591/2016 secondo cui le azioni concernenti la nomina o la revoca di amministratori e sindaci delle società a totale o parziale partecipazione pubblica sono sottoposte alla giurisdizione del giudice ordinario, anche in caso in cui le società stesse siano costituite secondo il modello house providing. Per la Corte, i recenti sviluppi normativi (d.l. n. 95/2012 e d.lgs. n. 175/2016) affermano la natura privatistica delle società a partecipazione pubblica, anche in house, e impongono, quindi, la giurisdizione ordinaria.
Secondo le sezioni unite, la riconduzione della materia in questione alla disciplina civilistica è attuata oggi dal d.lgs. n. 175/2016 del quale vanno particolarmente segnalate tre disposizioni. Quella del terzo comma dell'art. 1, secondo cui: per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali del diritto privato. Quella dell'art. 12 (Responsabilità degli enti partecipanti e dei componenti degli organi delle società partecipate), a norma della quale «I componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house». Quella dell'art. 14 (Crisi d'impresa di società a partecipazione pubblica), la quale non solo stabilisce che «Le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi», ma, soprattutto, testualmente menziona nell'ultimo comma la «dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti», facendo così inequivoco ed esplicito riferimento alle società in house, che, appunto, sono le società titolari di affidamenti diretti (cfr. art. 16, comma 1).
Disposizioni, queste, che non solo definitivamente esplicitano la riconduzione delle società a partecipazione pubblica all'ordinario regime civilistico ma, soprattutto, eliminano ogni dubbio circa il fatto che le società in house siano regolate dalla medesima disciplina che regola, in generale, le società partecipate, ad eccezione, quanto alle prime, della giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dai loro ad amministratori e dipendenti.
Con riguardo, invece, a quest'ultimi sussiste la giurisdizione della Corte dei Conti; secondo le sezioni unite non ci sarebbe alcun contrasto con la già menzionata sentenza n. 26283/2013, la quale ha affermato che le società in house costituiscono in realtà articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano e non soggetti giuridici ad essa esterni e da essa autonomi. Tale affermazione, precisa la Corte, va intesa ai limitati fini del riparto di giurisdizione. Precisazione, questa, che si riferisce, ovviamente, al riparto di giurisdizione riguardante l'azione di responsabilità per danni arrecati dall'illegittimo comportamento degli organi sociali al patrimonio della società, che costituiva oggetto di quel giudizio.
Il tipo di rapporto che lega gli organi di una società in house all'ente pubblico da cui la società promana è, infatti, fin troppo simile a quello che intercorre tra la medesima amministrazione ed i propri dipendenti per poter giustificare un diverso regime di responsabilità, quanto alla giurisdizione ed ai riflessi sulle regole che presidiano la responsabilità di quei soggetti. Ciò non implica però, necessariamente, che anche sotto ogni altro profilo l'adozione del paradigma organizzativo societario che caratterizza le società in house sia irrilevante e che le regole proprie del diritto societario siano poste fuori gioco.
La giurisdizione contabile per il danno causato al patrimonio della società dagli amministratori o dai dipendenti della società sussiste anche quando la società a partecipazione pubblica sia qualificata come ente pubblico. In tali ipotesi la società è solo formalmente privata, ma per la specialità dello statuto è qualificata come ente pubblico. A tali conclusioni le sezioni unite sono giunte per la RAI (Cass. S.U., n. 27092/2009), per l'ENAV (Cass. S.U., n. 5032/2010) e per l'ANAS (Cass. S.U., n. 15594/2014).
Di recente le sezioni unite hanno individuato un nuovo tipo di società pubblica cui sussiste la giurisdizione contabile per danno erariale: le «società assimilabili a enti pubblici» (Cass. S.U., n. 24737/2016). Il riferimento è ad una società costituita con legge regionale per svolgere il ruolo di centrale di committenza e stazione unica appaltante. La particolare ingerenza dell'ente pubblico (id est, la Regione) conducono le sezioni unite a parlare di società, non ente pubblico, non articolazione di un ente pubblico (come nell'in house), ma assimilabile all'ente pubblico.
La dottrina criticamente ha rilevato che, con la creazione di tali figure ambigue, aumentano le incertezze e le confusioni in relazione alla natura pubblica o privata delle società a partecipazione pubblica e, conseguentemente, con riguardo al riparto di giurisdizione che coinvolge anche la Corte dei Conti (SCOCA, SOCIETÀ PRIVATE E GIURISDIZIONE CONTABILE, IN GIUR. IT. 2017, IV, pag. 941).
Va, peraltro, evidenziato che in relazione alle procedure di assunzione del personale delle società a partecipazione pubblica l'art. 19, comma 2, d.lgs. n. 175/2016 prevede la regola del pubblico concorso, ma al contempo devolve alla giurisdizione del giudice ordinario le relative controversie, derogando così al criterio previsto dall'art. 63, comma 4. d.lgs. n. 165/2001 che, invece, prevede la giurisdizione del giudice amministrativo.
È stato rilevato che sussiste la giurisdizione del g.o. anche con riguardo alle procedure di reclutamento del personale delle società in house, perché nessuna eccezione è stata prevista nei confronti di queste ultime (MALTONI, LE SOCIETÀ IN HOUSE NEL T.U. SULLE PARTECIPATE PUBBLICHE, IN URB. & APP., 2017, pag. 18).
Si tratta, come lo stesso autore ha evidenziato, di una soluzione che, peraltro, si pone in contrasto con l'orientamento consolidato della giustizia amministrativa secondo cui le controversie relative alle procedure di reclutamento del personale delle società in house sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo (Cons. Stato, n. 5643/2015).
Gli organismi di diritto pubblico
Rileva, dalla prospettiva della giurisdizione, anche la figura dell'organismi di diritto di pubblico con riguardo alle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, in relazione ai quali, l'art. 133, co. 1, lett. 6, lett. f) prevede la giurisdizione esclusiva del g.a.
Tre sono i requisiti dell'organismo di diritto pubblico ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 50 del 2016 (che è in ciò conforme alla corrispondente disposizione comunitaria), cumulativamente richiesti: a) che sia istituto per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale (c.d. requisito teleologico); b) che sia dotato di personalità giuridica (c.d. requisito personalistico); c) che l'attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismo di diritto pubblico oppure la gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure organo dell'amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico (Cons. Stato, Sez. V, 7 febbraio 2020, n. 964).
Il requisito teleologico è stato oggetto di approfondimenti della giurisprudenza, specie comunitaria, in quanto di non facile identificazione.
Superato l'orientamento rivolto a ricostruire il carattere non industriale o commerciale dell'attività in base al suo destinatario, la giurisprudenza comunitaria si è orientata nel senso di considerare la natura dei bisogni che le prestazioni o i servizi resi dall'ente sono diretti a soddisfare. Si è così affermato che, affinché si possa dire diretta a soddisfare un bisogno avente carattere non industriale o commerciale; attività dell'ente deve rispondere a un interesse primario della collettività, come la salute, l'ambiente, la sicurezza e così via (cfr. Corte di Giustizia CE, 10 novembre 1998, nella causa C-360/96BFI Holding).
Si tratta, quindi, di una nozione funzionale che guarda alla sostanza del fenomeno, prescindendo da valutazioni di ordine formalistico. Non conta che l'ente sia privato o pubblico, ma conta che operi in regime non concorrenziale e che l'attività, quindi, non sia ispirata a principi di economia che prevedono il pareggio tra costi e benefici. Non occorre necessariamente il perseguimento del fine di lucro per escludere la sussistenza dell'organismo di diritto pubblico, essendo sufficiente che l'ente operi in un regime di concorrenza.
È una figura sorta per evitare che enti pubblici, attraverso la costituzione di società private, potessero aggirare la normativa in tema di appalti pubblici.
La Corte di giustizia UE, 28 ottobre 2020 (C-521/18), pronunciatasi sulla natura di impresa pubblica di Poste Italiane, ha specificato che un organismo di diritto pubblico, che opera in condizioni normali di mercato, mira a realizzare un profitto e sostiene le perdite che risultano dall'esercizio delle sue attività non dovrebbe essere considerato un “organismo di diritto pubblico”, in quanto è lecito supporre che sia stato istituito allo scopo o con l'incarico di soddisfare esigenze di interesse generale che sono di natura in- dustriale o commerciale”.
La nozione funzionale di ente, che è sottesa all'organismo di diritto pubblico, ha comportato anche il superamento della teoria del contagio introdotta dalla Corte di giustizia (sentenza 15 gennaio 1998, causa 44/96, Mannesman), secondo cui, per esigenze di certezza, si dovrebbero applicare in senso generalizzato i principi dell'evidenza pubblica a tutte le attività dei soggetti istituti per il soddisfacimento di bisogni di interessi generali, anche in ambito imprenditoriale.
Tale teoria, che ha il pregio di soddisfare esigenze di certezza, non è in grado, però, di registrare la dinamicità dell'organismo di diritto pubblico, perché richiede garanzie (id est, l'evidenza pubblica) non necessarie, come nel caso in cui svolga in parte qua attività privata.
Con il passaggio, generalmente riconosciuto, ad una nozione di ente pubblico funzionale e cangiante, la teoria del contagio è destinata ad essere superata in favore dell'idea che possa esistere l'organismo di diritto pubblico in parte qua: solo in relazione all'attività di interesse generale. Con riguardo alla porzione relativa all'attività imprenditoriale non è necessario imporre limitazione per la tutela della concorrenza.
In quest'ottica, peraltro, si pone anche la legge n. 241/1990 che all'art. 29 – nel delineare l'ambito di applicazione della legge – prevede che la stessa si applica anche alle società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente all'esercizio delle funzioni amministrative; non, quindi, a tutta l'attività svolta, ma solo a quella che comporta esercizio di un potere pubblico.
Segna il superamento della teoria del contagio, la sentenza del Cons. Stato, Ad. plen., n. 13/2016, che, in tema di accesso ai documenti esercitabile dai dipendenti di una società a partecipazione pubblica, precisa che la possibilità di applicare una disciplina differenziata a soggetti, cui sono affidate funzioni di interesse pubblico, ma operanti anche in ambito industriale o commerciale incide, indubbiamente, sul principio di certezza del diritto [...] ma rispetta la sovranità degli Stati chiamati a scegliere il modulo organizzatorio per l'espletamento di attività di interesse generale, nel presupposto che efficienza e buon andamento dell'amministrazione possano essere assicurati anche attraverso gestioni, ispirate a criteri economici di stampo imprenditoriale.
Ne deriva, quindi, che è consentito l'accesso ai documenti ai dipendenti di una società a partecipazione pubblica, ai sensi della legge n. 241/1990, solo con riguardo ai set- tori di autonoma rilevanza pubblicistica (e non di quotidiana gestione del contratto di la- voro), ovvero alle prove selettive per l'assunzione del personale, alle progressioni di carriera e a provvedimenti attinenti l'auto-organizzazione degli uffici quando gli stessi incidano negativamente sugli interessi dei lavoratori.
In relazione agli Enti Fiera, si è posto il problema di qualificarli come organismi di diritto pubblico.
La Corte di Cassazione, SS.UU., con ordinanza del 28 giugno 2019 n. 17567, ha precisato che “Per definire la natura di organismo di diritto pubblico di un soggetto, alla luce dei criteri enucleati all'art. 3, lett. d), d.lgs. 50/2016, occorre avere riguardo: in primo luogo, al tipo di attività svolta dalla società e all'accertamento che tale attività sia rivolta alla realizzazione di un interesse generale, ovvero che sia necessaria affinché la pubblica amministrazione possa soddisfare le esigenze di interesse generale alle quali è chiamata e, in secondo luogo, che tale società si lasci guidare da considerazioni diverse da quelle economiche. In particolare, in merito a quest'ultimo profilo, è necessario, in primo luogo, che la società non fondi la propria attività principale su criteri di rendimento, efficacia e redditività e che non assuma su di sé i rischi collegati allo svolgimento di tale attività, i quali devono ricadere sull'amministrazione controllante. In secondo luogo, il servizio d'interesse generale che ne costituisce l'oggetto non può essere rifiutato per ragioni di convenienza economica.
Ne consegue che l'ente fieristico, per essere ritenuto organismo di diritto pubblico, nel perseguire l'interesse pubblico deve agire senza essere soggetto alle regole di mercato, e quindi senza che possa ritenersi esercitata dalla stessa attività di carattere commerciale.
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, le Sezioni unite della Corte di Cassazione hanno, quindi, ritenuto che la Fiera di Roma non può qualificarsi come organismo di di-ritto pubblico e, pertanto, sussiste la giurisdizione del G.O. per le relative controversie nei suoi confronti, atteso che, dall'esame del suo statuto, risulta carente il requisito di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), n. 1, del d.lgs. n. 50/2016; tale carenza esime dal verificare la presenza degli ulteriori due requisiti che concorrono ai fini della individuazione degli organismi di diritto pubblico.
Le Sezioni unite hanno, peraltro, dichiarato sussistente la giurisdizione del G.A. sulla validità della delibera societaria di aumento del capitale sociale, perché da ricondurre all'ambito delle questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, di cui il G.A. può conoscere incidentalmente, a norma dell'art. 8 comma 1 c.p.a. In particolare, hanno evidenziato che la questione relativa alla validità della delibera societaria di aumento del capitale sociale, tramite conferimento da parte di un socio di un ramo d'azienda non rappresenta una questione pregiudiziale concernente lo stato e la capacità delle persone il cui accertamento è riservato al G.O. dall'art. comma 2 C.P.A., ma debba piuttosto essere ricondotta al diverso ambito delle questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, di cui il G.A. può conoscere incidentalmente, a norma dell'art. comma 1 C.P.A., ai fini della decisione circa la validità del provvedimento di aggiudicazione con specifico riguardo al possesso del requisito soggettivo di partecipazione alla gara (cfr., Cass. S.U., n. 23554/2019).
Problemi di qualificazione si sono posti anche in relazione alla Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC).
La Corte di giustizia UE, Sez. IV, 3 febbraio 2021, C-155/19 e C 156/19, ha ritenuto che la FIGC possa integrare un organismo di diritto pubblico anche se la stessa riveste la forma di associazione di diritto privato, poiché in Italia lo sport è oggetto di compiti a carattere pubblico espressamente attribuiti alle federazioni ai sensi della disciplina interna e anche in considerazione della circostanza considerato che le competenze del CONI (art. 23 Statuto) sembrano prive di carattere industriale o commerciale (ciò che va verificato dal giudice del rinvio). Una tale conclusione non è invalidata dal fatto che la FIGC abbia la veste giuridica di un'associazione di diritto privato e che la sua creazione non deriva, di conseguenza, da un atto formale istitutivo di un'amministrazione pubblica, in quanto, come visto, la nozione di “organismo di diritto pubblico” deve ricevere un'interpretazione funzionale indipendente dalle modalità formali della sua attuazione. È irrilevante, peraltro, il fatto che la FIGC persegua, a fianco delle attività di interesse generale, altre attività che costituiscono una gran parte dell'insieme delle sue attività e che sono autofinanziate (una siffatta capacità di autofinanziamento è ininfluente sull'attribuzione di compiti a carattere pubblico).
La Corte, quindi, ha concluso che un'entità investita di compiti a carattere pubblico tassativamente definiti dal diritto nazionale può considerarsi istituita per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, quand'anche essa sia stata creata non già sotto forma di amministrazione pubblica, bensì di associazione di diritto privato, e alcune delle sue attività, per le quali essa è dotata di una capacità di autofinanziamento, non abbiano carattere pubblico.
In sede di rinvio il Consiglio di Stato (sentenza n. 5348/2021) ha escluso che la FIGC possa essere considerata organismo di diritto pubblico, perché i poteri di direzione e controllo del CONI nei confronti della FIGC non sono tali da imporre a quest'ultima regole di gestione dettagliate e pervasive.
La giurisdizione sull'azione di risarcimento del danno da legittimo affidamento da provvedimento favorevole, ma illegittimo
Una delle questioni più dibattute recentemente ha riguardato la sussistenza della giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno da legittimo affidamento causato da un provvedimento amministrativo favorevole, ma illegittimo, ritirato in autotutela o annullato in sede giurisdizionale.
La Cass. S.U., n. 6594/2011; Cass. S.U., n. 6595/2011; Cass. S.U., n. 6596/2011, ha evidenziato che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, perché la posizione giuridica soggettiva del privato che nutre un legittimo affidamento in relazione ad un provvedimento amministrativo a lui favorevole, poi rivelatosi illegittimo, è di diritto soggettivo e, quindi, la giurisdizione pertiene al giudice ordinario.
Conferma tale impostazione anche la sentenza della Cass. S.U., n. 17586/2015.
Secondo le sezioni unite il contenuto ed oggetto dell'interesse legittimo sono espressi dall'interesse positivo ad ottenere il provvedimento, sicché l'oggetto della situazione di interesse pretensivo non si può identificare nella postulazione a che si provveda legittimamente dall'Amministrazione, ma si deve identificare nella richiesta che si provveda dando positiva soddisfazione a quell'interesse.
Se il provvedimento ampliativo, richiesto dal privato, viene emesso a seguito di un agire dell'amministrazione illegittimo, tale interesse è, comunque, soddisfatto, anche se in maniera illegittima. Né il privato, fino a che non sopravvenga il provvedimento giurisdizionale o di autotutela, può lamentare di aver subito alcun danno.
Il provvedimento favorevole risulta emesso certamente in modo ingiusto, ma non dal punto di vista del privato che l'aveva richiesto, nei cui riguardi nessun danno evento si è dunque verificato e, pertanto, nessuna fattispecie di illecito si configura perché non v'è lesione della sua situazione giuridica soggettiva.
L'interesse legittimo pretensivo è, a parer delle SS.UU., una situazione strumentale proiettata alla consecuzione del provvedimento positivo e non semplicemente legittimo.
L'interesse legittimo, secondo le sezioni unite, che era risultato soddisfatto dal provvedimento illegittimo, risulta a posteriori, una volta che esso sia rimosso, insoddisfatto legittimamente e, dunque, senza che si configuri alcuna sua lesione exart. 2043 c.c. Ciò che il privato, a seguito della nuova situazione determinatasi, denuncia è, in realtà, la lesione di una situazione di diritto soggettivo rappresentata dalla conservazione dell'integrità del suo patrimonio.
Il danno ingiusto è, quindi, individuabile dal fatto che il privato in seguito al provvedimento favorevole, poi rivelatosi illegittimo, ha sopportato perdite e/o mancati guadagni a causa dell'agire della P.A. concretatosi nell'illegittima emissione del provvedimento. Il pregiudizio, peraltro, avvertono le sezioni unite, non può concretizzarsi automaticamente in seguito all'illegittimità del provvedimento favorevole, ma solo se, per le circostanze e le modalità concrete in cui l'agire illegittimo della p.a. concretatosi nell'adozione del provvedimento si è verificato, risulti che esso è stato idoneo sul piano causale a determinare un suo affidamento nella legittimità del provvedimento e quindi nella conservazione del beneficio attribuito dal provvedimento illegittimo e nella conseguente legittimità dell'attività (onerosa per patrimonio del privato) posta in essere in base al provvedimento. Attività che una volta venuto meno il provvedimento, si riveli, in quanto anch'essa travolta dalla sua illegittimità, come attività inutile e, dunque, fonte – in quanto onerosa – di perdite o mancati guadagni.
Secondo le sezioni unite, quindi, la fattispecie costitutiva del danno ingiusto ai sensi dell'art. 2043 c.c. risulta così derivare dalla lesione della integrità del patrimonio del beneficiario riconducibile ad una fattispecie complessa, rappresentata dall'essere stato il provvedimento ampliativo emesso illegittimamente, dall'essere stato l'agire della p.a. nella sua adozione, in ragione delle circostanza concrete, determinativo di affidamento incolpevole, dall'essere stato il provvedimento illegittimo rimosso (perché tale) in modo ormai indiscutibile.
L'agire dell'amministrazione, concludono le sezioni unite, che viene in rilievo nella fattispecie dell'affidamento incolpevole da adozione di provvedimento favorevole illegittimo poi rimosso viene, invece, introdotto come fatto costitutivo della relativa azione senza che si evidenzi in alcun modo una controversia sull'esercizio o sul mancato esercizio del potere dell'amministrazione stessa.
Cass. S.U., ord., 22 giugno 2017, n. 15640, in sede di regolamento preventivo di giurisdizione nell'ambito di una controversia risarcitoria proposta da una società per i danni asseritamente patiti in conseguenza della mancata esecuzione di un contratto di appalto in seguito all'annullamento in sede giurisdizionale del procedimento di selezione del contraente, ha affermato che è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario l'azione di risarcimento del danno proposta dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su di un provvedimento ampliativo successivamente dichiarato illegittimo.
Nello stesso senso Cass. S.U., n. 19170/2017, secondo cui la domanda risarcitoria proposta nei confronti della p.a. per i danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento ampliativo illegittimo rientra nella giurisdizione ordinaria, non trattandosi di una lesione dell'interesse legittimo pretensivo del danneggiato (interesse soddisfatto, seppur in modo illegittimo), ma di una lesione della sua integrità patrimoniale ex art. 2043 c.c., rispetto alla quale l'esercizio del potere amministrativo non rileva in sé, ma per l'efficacia causale del danno-evento da affidamento incolpevole.
Tale soluzione, secondo parte della dottrina, sembra considerare l'interesse legittimo in modo parziale e quasi correlarne l'esistenza all'esito dell'esercizio di un potere amministrativo con cui esso entra in conflitto. Contrariamente, invece, l'interesse legittimo, sia esso pretensivo o oppositivo, sorge in presenza di un qualsiasi potere amministrativo, in qualunque modo esso sia esercitato. L'interesse pretensivo è, infatti, leso non solo quando è illegittimamente negato il bene della vita sotteso allo stesso, ma anche quando è illegittimamente riconosciuto tale bene, in modo quindi solo apparente e precario (VACCA, PER UNA (RI)DEFINIZIONE DI INTERESSE LEGITTIMO, IN LEXITALIA 6/2017).
Cass. S.U., n. 8236/2020 ha confermato la teoria della responsabilità da contatto sociale, ma ha scartato il richiamo, contenuto nella giurisprudenza precedente, al diritto soggettivo alla conservazione dell'integrità del patrimoniale.
La Corte si è pronunciata in relazione ad una controversia in cui il legittimo affidamento non è dipeso da un provvedimento favorevole illegittimo, ma dall'inerzia della p.a. protratta e prolungata nel tempo.
In particolare, è stato chiarito che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente a oggetto la domanda risarcitoria del privato derivante dalla pretesa lesione dell'affidamento generato dal comportamento ondivago tenuto dalla pubblica amministrazione nel corso del procedimento ancorché non concluso e relativo al rilascio di un permesso di costruire. In tale contesto, l'affidamento si configura come diritto soggettivo alla correttezza della condotta della pubblica amministrazione la cui pretesa lesione non è conseguenza dell'esercizio, neppure mediato, del potere amministrativo, ma di un comportamento complessivo rispetto al quale l'amministrazione viene in rilievo come soggetto dotato di capacità generale di diritto comune. La responsabilità per lesione dell'affidamento del privato è qualificabile come da contatto sociale qualificato.
La Corte, peraltro, ha precisato l'affidamento a cui si fa riferimento nelle tre ripetute ordinanze del 2011, e nelle successive pronunce che alle stesse si sono uniformate, per contro, è una situazione autonoma, tutelata in sé, e non nel suo collegamento con l'interesse pubblico, come affidamento incolpevole di natura civilistica, che si sostanzia, secondo una felice sintesi dottrinale, nella fiducia, nella delusione della fiducia e nel danno subito a causa della condotta dettata dalla fiducia mal riposta; si tratta, in sostanza, di un'aspettativa di coerenza e non contraddittorietà del comportamento dell'amministrazione fondata sulla buone fede. È propriamente in questa prospettiva che, come sopra sottolineato nel p. 26, il provvedimento favorevole, unito alle specifiche circostanze che abbiano dato fondamento alla fiducia nella legittimità e nella stabilità del medesimo, viene in considerazione quale elemento di una situazione che chiede protezione contro le conseguenze dannose della fiducia mal riposta.
Ha precisato poi la Corte, in relazione al diritto soggettivo alla conservazione dell'integrità del patrimoniale che il patrimonio di un soggetto, infatti, è l'insieme di tutte le situazioni soggettive, aventi valore economico, che al medesimo fanno capo. La conservazione dell'integrità del patrimonio, pertanto, altro non è che la conservazione di ciascuno dei diritti, e delle altre situazioni soggettive attive, che lo compongono. La nozione di "diritto alla conservazione dell'integrità del patrimonio" risulta dunque, in definitiva, priva di consistenza autonoma, risolvendosi in una formula descrittiva che unifica in una sintesi verbale la pluralità delle situazioni soggettive attive che fanno capo ad un soggetto. Va invece ribadito che la situazione soggettiva lesa a cui si riferiscono i principi affermati nelle ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 e in quelle successive conformi […] si identifica nell'affidamento della parte privata nella correttezza della condotta della pubblica amministrazione.
Si pongono in netto contrasto con l'orientamento delle sezioni unite tre pronunce dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenze 29 novembre 2021, n. 19, 20 e 21).
In particolare, con la sentenza n. 19, ponendosi in linea con le sentenze del 5 settembre 2005, n. 6 e 4 maggio 2018, n. 5, l'Adunanza plenaria ribadisce che l'affidamento nella legittimità dei provvedimenti dell'amministrazione e più in generale sulla correttezza del suo operato è riconosciuto come situazione giuridica soggettiva tutelabile attraverso il rimedio del risarcimento del danno.
Nell'applicare le norme sull'evidenza pubblica, la p.a. è anche soggetta alle «norme di correttezza di cui all'art. 1337 c.c. prescritte dal diritto comune», e malgrado la legittimità dell'intervento in autotutela, l'Adunanza plenaria ha riconosciuto il risarcimento per la lesione dell'affidamento maturato dall'aggiudicataria sulla conclusione del contratto, una volta che la sua offerta era stata selezionata in gara come la migliore ed era stato emesso a suo favore il provvedimento definitivo. Ciò in quanto le regole di legittimità amministrativa e quelle di correttezza operano su piani distinti, uno relativo alla validità degli atti amministrativi e l'altro concernente invece la responsabilità dell'amministrazione e i connessi obblighi di protezione in favore della controparte. Oltre che distinti, i profili in questione sono autonomi e non in rapporto di pregiudizialità, nella misura in cui l'accertamento di validità degli atti impugnati non implica che l'amministrazione sia esente da responsabilità per danni nondimeno subiti dal privato destinatario degli stessi.
L'affidamento, quindi, «è un principio generale dell'azione amministrativa che opera in presenza di una attività della pubblica amministrazione che fa sorgere nel destinatario l'aspettativa al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito di tale attività» (Cons. Stato, n. 5011/2020). Pur sorto nei rapporti di diritto civile, con lo scopo di tutelare la buona fede ragionevolmente riposta sull'esistenza di una situazione apparentemente corrispondente a quella reale, da altri creata (e di cui sono applicazioni concrete, tra le altre, la “regola possesso vale titolo” exart. 1153 cod. civ., l'acquisto dall'erede apparente di cui all'art. 534 cod. civ., il pagamento al creditore apparente ex art. 1189 cod. civ. e l'acquisto di diritto di diritti dal titolare apparente exartt. 1415 e 1416 cod. civ.), l'affidamento è ormai considerato canone ordinatore anche dei comportamenti delle parti coinvolte nei rapporti di diritto amministrativo, ovvero quelli che si instaurano nell'esercizio del potere pubblico, sia nel corso del procedimento amministrativo sia dopo che sia stato emanato il provvedimento conclusivo (in questi termini Cons. Stato, Ad. pl. n. 19/2021, punti 10 e 11).
Del resto, l'art. 1, comma 2-bis, della legge 7 agosto 1990, n. 241, aggiunto dall'art. 12, comma 1, lettera 0a), legge 11 settembre 2020, n. 120 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante «Misure urgenti per la semplificazione e l'innovazione digitali», dispone che: «(i) rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede». La disposizione ora richiamata ha positivizzato una regola di carattere generale dell'agire pubblicistico dell'amministrazione, che trae fondamento nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97, comma 2, Cost.) e che porta a compimento la concezione secondo cui il procedimento amministrativo - forma tipica di esercizio della funzione amministrativa - è il luogo di composizione del conflitto tra l'interesse pubblico primario e gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti nell'esercizio del primo. Per il migliore esercizio della discrezionalità amministrativa il procedimento necessita pertanto dell'apporto dei soggetti a vario titolo interessati, nelle forme previste dalla legge sul procedimento del 7 agosto 1990, n. 241. Concepito in questi termini, il dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede ha quindi portata bilaterale, perché sorge nell'ambito di una relazione che, sebbene asimmetrica, è nondimeno partecipata ed in ragione di ciò esso si rivolge all'amministrazione e ai soggetti che a vario titolo intervengono nel procedimento (ancora in termini Cons. Stato, Ad. plen., n. 19/2021, punto 12).
A fronte del dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede possono pertanto sorgere aspettative, che per il privato istante si indirizzano all'utilità derivante dall'atto finale del procedimento, la cui frustrazione può essere per l'amministrazione fonte di responsabilità. Inoltre la lesione dell'aspettativa può configurarsi non solo in caso di atto legittimo, come nella fattispecie decisa dall'Adunanza plenaria nelle sopra menzionate sentenze del 5 settembre 2005, n. 6, e del 4 maggio 2018, n. 5, ma anche nel caso di atto illegittimo, poi annullato in sede giurisdizionale. Anche in questa seconda ipotesi può infatti configurarsi per il soggetto beneficiario dell'atto per sé favorevole un'aspettativa alla stabilità del bene della vita con esso acquisito e che dunque può essere lesa dalla sua perdita conseguente all'annullamento in sede giurisdizionale(Cons. St. Ad. plen. n. 19/2021, punto 13).
L'Adunanza plenaria ha, quindi affermato il seguente principio di diritto: «nei rapporti di diritto amministrativo, inerenti all'esercizio del pubblico potere, è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull'operato dell'amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest'ultima di responsabilità non solo per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica ora richiamati, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi».
L'Adunanza plenaria n. 20, completando il discorso avviato dalla sentenza n. 19, riconosce nelle sopra esposte ipotesi sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo (la giurisdizione amministrativa è stata, in particolare, riconosciuta sulla domanda risarcitoria proposta dal controinteressato soccombente in un giudizio di annullamento di provvedimenti della pubblica amministrazione sia in sede di giurisdizione generale di legittimità quanto nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva di merito).
L'affidamento si colloca, secondo i supremi giudici amministrativi, nella dicotomia diritti soggettivi – interessi legittimi e non rappresenta una posizione giudica soggettiva autonoma distinta dalle due, sole considerate dalla Costituzione, ma ad esse può alternativamente riferirsi. Sussiste la giurisdizione amministrativa quando l'affidamento abbia ad oggetto la stabilità del rapporto amministrativo, costituito sulla base di un atto di esercizio di un potere pubblico, e soprattutto quando questo atto afferisca ad una materia di giurisdizione esclusiva. La giurisdizione è devoluta al giudice amministrativo perché la “fiducia” su cui riposava la relazione giuridica tra amministrazione e privato, asseritamente lesa, si riferisce non già ad un comportamento privato o materiale - a un “mero comportamento” - ma al potere pubblico, nell'esercizio del quale l'amministrazione è tenuta ad osservare le regole speciali che connotano il suo agire autoritativo e al quale si contrappongono situazioni soggettive del privato aventi la consistenza di interesse legittimo (Cons. Stato, Ad. plen. n. 20/2021, punti 8 e 9).
L'Adunanza plenaria, richiamando gli storici principi dettati dalla Corte costituzionale (sentenze n. 204/2004, 191/2006 e 140/2017), ha precisato che anche quando il comportamento non si sia manifestato in atti amministrativi, nondimeno l'operato dell'amministrazione costituisce comunque espressione dei poteri ad essa attribuiti per il perseguimento delle finalità di carattere pubblico devolute alla sua cura, perché tale operato è riferibile dunque all'amministrazione che “agisce in veste di autorità” e si iscrive pertanto nella dinamica potere autoritativo - interesse legittimo, il cui giudice naturale è per Costituzione il giudice amministrativo (art. 103, comma 1). E ciò sia che si verta dell'interesse del soggetto leso dal provvedimento amministrativo, e come tale titolato a domandare il risarcimento del danno alternativamente o (come più spesso accade) cumulativamente all'annullamento del provvedimento lesivo, sia che si abbia riguardo all'interesse del soggetto invece beneficiato dal medesimo provvedimento. Anche quest'ultimo, infatti, vanta nei confronti dell'amministrazione un legittimo interesse alla sua conservazione, non solo rispetto all'azione giurisdizionale del ricorrente, ma anche rispetto al potere di autotutela dell'amministrazione stessa (punto 8).
Rifiuta, dunque, l'Adunanza plenaria l'impostazione delle sezioni unite secondo cui quando il potere amministrativo non si è manifestato in un provvedimento tipico ma è rimasto a livello di comportamento la giurisdizione sarebbe devoluta al giudice ordinario, perché quest'ultima è ipotizzabile solo a fronte di comportamenti “meri”, non riconducibili al pubblico potere, a fronte dei quali le contrapposte situazioni giuridiche dei privati hanno consistenza di diritto soggettivo.
Conclude, quindi, l'Adunanza plenaria che Non è pertanto possibile, nel definire il riparto di giurisdizione, circoscrivere la rilevanza dei doveri in esame al diritto comune, dal momento che gli stessi sono invece comuni al diritto civile e al diritto amministrativo, ovverosia ai rapporti paritetici di diritto soggettivo così come a quelli originati dall'esistenza e dall'esercizio in concreto del pubblico potere. A fronte del dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede possono pertanto sorgere aspettative, che per il privato istante si indirizzano all'utilità derivante dall'atto finale del procedimento, la cui frustrazione può essere per l'amministrazione fonte di responsabilità. In altri termini, la mancata osservanza del dovere di correttezza da parte dell'amministrazione in violazione del principio di affidamento può determinare una lesione della situazione soggettiva del privato che afferisce pur sempre all'esercizio del potere pubblico, si manifesti esso con un provvedimento tipico o con un comportamento pur sempre tenuto nell'esercizio di quel potere, e la cui natura quindi resta “qualificata” dall'inerenza al pubblico potere. Si tratta, quindi, di aspettative correlate ad «interessi legittimi (…) concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo» ai sensi dell'art. 7, comma 1, c.p.a. sopra citato, la cui lesione rimane devoluta al giudice amministrativo. Come infatti testualmente previsto dalla disposizione in parola, la giurisdizione è devoluta al giudice amministrativo non solo nel caso in cui il potere sia stato esercitato, ma anche nel caso contrario di mancato esercizio. Non è conseguentemente possibile scindere sul piano del riparto giurisdizionale le due ipotesi, che peraltro possono in astratto dare luogo a profili diversi di addebito sul piano diacronico (per il fatto ad esempio di avere esercitato il potere tardivamente e di averlo poi esercitato illegittimamente), la cui cognizione va concentrata presso un unico giudice, ovvero quello amministrativo, quale giudice naturale della funzione amministrativa.
L'Adunanza plenaria n. 21 ha, peraltro, chiarito che l'affidamento del concorrente, per essere rilevante, non deve essere inficiato da colpa, come si desume dall'art. 1338 cod. civ., che assoggetta a responsabilità precontrattuale la «parte che, conoscendo o dovendo conoscere l'esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all'altra parte», ed in base al quale viene escluso il risarcimento se la conoscenza di una causa invalidante il contratto è comune ad entrambe le parti che conducono le trattative, poiché nessuna legittima aspettativa di positiva conclusione delle trattative può mai dirsi sorta (in questo senso, di recente: Cass. civ, III, 18 maggio 2016, n. 10156; sez. lav., ord. 31 gennaio 2020, n. 2316; sent. 5 febbraio 2016, n. 2327).
Ciò conduce sostanzialmente ad escludere l'esistenza dell'affidamento nel momento in cui vengo impugnato un provvedimento amministrativo. Il potere di annullamento d'ufficio della procedura di gara, ai sensi dell'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, opera in modo distinto rispetto alla revoca ai sensi dell'art. 21-quinquies della medesima legge sul procedimento amministrativo, perché interviene non già come rivalutazione dell'interesse pubblico sotteso all'affidamento del contratto, secondo l'ampia definizione del potere di revoca data dalla disposizione da ultimo richiamata, ma per rimuovere un vizio di legittimità degli atti della procedura di gara. Se pertanto il motivo di illegittimità che ha determinato la stazione appaltante ad annullare in autotutela la gara è conoscibile dal concorrente, la responsabilità della prima deve escludersi (in questo senso: Cons. Stato, Sez. V, 23 agosto 2016, n. 3674, che ha affermato al riguardo che «al fine di escludere la risarcibilità del pregiudizio patito dal privato a causa dell'inescusabilità dell'ignoranza dell'invalidità dell'aggiudicazione, che il giudice deve verificare in concreto se il principio di diritto violato sia conosciuto o facilmente conoscibile da qualunque cittadino mediamente avveduto, tenuto conto dell'univocità dell'interpretazione della norma di azione e della conoscenza e conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l'invalidità»).
Precisa l'Adunanza plenaria che l'elemento della colpevolezza dell'affidamento si modula diversamente nel caso in cui l'annullamento dell'aggiudicazione non sia disposto d'ufficio dall'amministrazione ma in sede giurisdizionale. In questo secondo caso emergono con tutta evidenza i caratteri di specialità del diritto amministrativo rispetto al diritto comune, tra cui la centralità che nel primo assume la tutela costitutiva di annullamento degli atti amministrativi illegittimi, contraddistinta dal fatto che il beneficiario di questi assume la qualità di controinteressato nel relativo giudizio. Con l'esercizio dell'azione di annullamento quest'ultimo è quindi posto nelle condizioni di conoscere la possibile illegittimità del provvedimento a sé favorevole, per giunta entro il ristretto arco temporale dato dal termine di decadenza entro cui ai sensi dell'art. 29 c.p.a. l'azione deve essere proposta, e di difenderlo. La situazione che viene così a crearsi induce per un verso ad escludere un affidamento incolpevole, dal momento che l'annullamento dell'atto per effetto dell'accoglimento del ricorso diviene un'evenienza non imprevedibile, di cui il destinatario non può non tenere conto ed addirittura da questo avversata allorché deve resistere all'altrui ricorso; per altro verso porta ad ipotizzare un affidamento tutelabile solo prima della notifica dell'atto introduttivo del giudizio (punto 19).
Il riparto di giurisdizione in materia di ingresso, soggiorno e allontanamento dello straniero dal territorio dello Stato italiano
Di notevole rilevanza pratica è la questione del riparto di giurisdizione in relazione ai provvedimenti emessi dall'autorità amministrativa incidenti sulla posizione degli stranieri.
Sono, in particolare, attribuite alla giurisdizione amministrative le controversie aventi ad oggetto le impugnazioni del diniego di visto d'ingresso, del diniego di permesso di soggiorno, del mancato rinnovo e della revoca del permesso di soggiorno in considerazione della natura discrezionale dell'attività attuata
In tema di visto d'ingresso, Cass. S.U., n. 6426/2005 ha affermato che spetta alla giurisdizione del giudice amministrativo conoscere della controversia originata dall'impugnazione del diniego di concessione del visto d'ingresso, di cui all'art. 4, d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, atteso che, essendo il visto d'ingresso subordinato, al pari del permesso di soggiorno, alla valutazione della sussistenza di requisiti soggettivi o di condizioni internazionali, la p.a. dispiega, nella sua emanazione, una specifica ed ampia discrezionalità, il che esclude la configurabilità, in capo allo straniero, di una posizione di diritto soggettivo al relativo ottenimento.
In materia di permesso di soggiorno la devoluzione al G.A. è espressamente prevista dall'art. 6, comma 10, T.U.I.
Le controversie attinenti a diniego/mancato rinnovo/revoca di visto d'ingresso e permesso di soggiorno, di regola spettanti alla giurisdizione amministrativa, sono affidate al G.O. quando vengono in considerazione esigenze di protezione umanitaria e di tutela dell'unità familiare.
Ne deriva, quindi, che quando i provvedimenti che concedono o negano l'autorizzazione ad entrare e soggiornare nel territorio dello Stato intercettano l'interesse alla tutela dei legami familiari, la giurisdizione sulle relative controversie si sposta dal G.A. al G.O. Lo stabilisce l'art. 30, comma 6, T.U.I., che assegna all'autorità giudiziaria ordinaria i ricorsi contro il diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare e del permesso di soggiorno per motivi familiari, nonché contro gli altri provvedimenti dell'autorità amministrativa in materia di diritto all'unità familiare; ricorsi poi affidati alle sezioni specializzate di recente istituzione
Il fondamento della giurisdizione ordinaria in esame è tradizionalmente ravvisato nella natura di diritto soggettivo fondamentale del diritto all'unità familiare, alla quale corrispondono l'assenza di discrezionalità amministrativa e la qualificazione del relativo provvedimento come “atto dovuto” (D'ANTONIO, IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE IN MATERIA DI INGRESSO, SOGGIORNO E ALLONTANAMENTO DELLO STRANIERO DAL TERRITORIO DELLO STATO ITALIANO, IN DIR. PROC. AMM. 2, 2017, pag. 538).
La Cass. S.U., n. 22612/2014 ha, però, affermato che la controversia promossa dallo straniero nei confronti del Ministero degli esteri per il risarcimento del danno da ritardo nel rilascio del visto d'ingresso per ricongiungimento familiare appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. a) n. 1, non essendo dedotta la violazione del diritto soggettivo al ricongiungimento familiare, ma l'inosservanza del termine di conclusione del procedimento amministrativo avente ad oggetto il suo riconoscimento, senza che ne derivi illegittimità costituzionale, in quanto il g.a. assicura una tutela dei diritti fondamentali equivalente a quella garantita dal g.o.
In tema di poteri di allontanamento, ricadono nella giurisdizione del G.O. l'espulsione prefettizia, i respingimenti e la convalida delle misure di esecuzione dell'allontanamento. Spetta infine al G.O. la tutela civile nei confronti dei comportamenti discriminatori prevista dall'art. 44 T.U.I.
Le ordinanze di protezione civile
Il codice della Protezione civile, d.lgs. n. 1/2018, all'art. 25, comma 9, ha previsto che la tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo avverso le ordinanze di protezione civile e i consequenziali provvedimenti commissariali nonché avverso gli atti, i provvedimenti e le ordinanze emananti ai sensi del presente articolo è disciplinata dal codice del processo amministrativo. La norma, in particolare, prevede che siffatte ordinanze provvedono in ordine: a) all'organizzazione ed all'effettuazione degli interventi di soccorso e assistenza alla popolazione interessata dall'evento; b) al ripristino della funzionalità dei servizi pubblici e delle infrastrutture di reti strategiche, alle attività di gestione dei rifiuti, delle macerie, del materiale vegetale o alluvionale o delle terre e rocce da scavo prodotti dagli eventi e alle misure volte a garantire la continuità amministrativa nei comuni e territori interessati, anche mediante interventi di natura temporanea; c) all'attivazione di prime misure economiche di immediato sostegno al tessuto economico e sociale nei confronti della popolazione e delle attività economiche e produttive direttamente interessate dall'evento, per fronteggiare le più urgenti necessità; d) alla realizzazione di interventi, anche strutturali, per la riduzione del rischio residuo nelle aree colpite dagli eventi calamitosi, strettamente connesso all'evento e finalizzati prioritariamente alla tutela della pubblica e privata incolumità, in coerenza con gli strumenti di programmazione e pianificazione esistenti; e) alla ricognizione dei fabbisogni per il ripristino delle strutture e delle infrastrutture, pubbliche e private, danneggiate, nonché dei danni subiti dalle attività economiche e produttive, dai beni culturali e paesaggistici e dal patrimonio edilizio, da porre in essere sulla base di procedure definite con la medesima o altra ordinanza; f) all'avvio dell'attuazione delle prime misure per far fronte alle esigenze urgenti di cui alla lettera e), anche attraverso misure di delocalizzazione temporanea in altre località del territorio nazionale, entro i limiti delle risorse finanziarie e secondo le direttive dettate con apposita, ulteriore delibera del Consiglio dei ministri, sentita la Regione interessata. Il comma 4 prevede poi che l'efficacia di tali ordinanze decorre dalla data della loro adozione e sono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.
Il legislatore, dunque, ha previsto espressamente che le ordinanze di protezione civile e i consequenziali provvedimenti commissariali siano soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, sul presupposto che si tratti di atti autoritativi a fronte dei quali si pongono interessi legittimi. Tale intervento normativo va, peraltro, coordinato con le ipotesi di giurisdizione esclusiva. In particolare, rileva l'art. 133, comma 1, lett. p), che prevede la giurisdizione esclusiva in relazione alle controversie aventi ad oggetto le ordinanze e i provvedimenti commissariali adottati in tutte le situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell'articolo 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992 n. 225, nonché gli atti, i provvedimenti e le ordinanze emanati ai sensi dell'articolo 5, commi 2 e 4, della medesima legge n. 225 del 1992 e le controversie comunque attinenti alla complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti, seppure posta in essere con comportamenti della pubblica amministrazione riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere, quand'anche relative a diritti costituzionalmente tutelati.
Le ipotesi di giurisdizione esclusiva possono verificarsi anche in relazione ad altre materie come quella relativa all'urbanistica.
Si veda, peraltro, sul punto la giurisprudenza amministrativa, secondo cui appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia urbanistica la domanda risarcitoria per i danni causati dalla realizzazione, sulla base di ordinanze ministeriali, di interventi urgenti di protezione civile, a rimedio e salvaguardia del regime delle acque e dei suoli inondati a seguito degli eventi alluvionali dell'autunno 2000 nel territorio della Regione Piemonte, derivando essi dall'attuazione di provvedimenti, giustificativi degli interventi, sulla cui legittimità il giudice ordinario non può pronunciarsi (Cass. S.U. 22511/2015).
Ulteriore casistica
In tema di riparto di giurisdizione, si è posta la questione della sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo in relazione ai provvedimenti che in generale neghino la forza pubblica per tutte le esecuzioni degli sfratti per un certo periodo dell'anno. La giustizia amministrativa, sia in primo grado che in appello, aveva ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice ordinario, in quanto tali provvedimenti incidono su un diritto soggettivo.
La Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 17620/2017 hanno ritenuto che l'impugnazione di tali provvedimenti che, in via generale, neghino la forza pubblica per tutte le esecuzioni degli sfratti per un certo periodo dell'anno, spetti alla giurisdizione del giudice amministrativo, mirando all'annullamento di provvedimenti, asseritamente lesivi dell'interesse generale di tutti i proprietari degli immobili all'esecuzione suddetta, comunque volti al fine di prevenzione e controllo del territorio, come tali espressione di attività pubblicistica.
Diversa è, invece, la questione qualora ad essere contestati siano gli atti specifici con cui sia negata o concessa l'utilizzo della forza pubblica per attuare nel singolo caso concreto l'ordine di rilascio contenuto in un provvedimento giurisdizionale. Le Sezioni unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 5233/1998 hanno evidenziato che tali specifici provvedimenti si colloca come momento di un più complesso procedimento di esecuzione, sicché la loro illegittimità, intingendo posizioni di diritto soggettivo, trova il suo giudice naturale nel giudice delle esecuzioni.
Quando, invece, sono impugnati i provvedimenti che in generale dispongono la sospensione della forza pubblica per l'esecuzione degli sfratti, viene in rilievo l'interesse legittimo, attesa la finalizzazione della domanda all'annullamento dei provvedimenti amministrativi che costituiscono espressione di attività provvedimentale pubblicistica (Cass. S.U., n. 17620/2017, cit.).
In relazione alla responsabilità precontrattuale, la Corte di Cassazione ha precisato che: quando la pubblica amministrazione, agendo iure privatorum, intrattiene, con una controparte già individuata, delle trattative finalizzate alla stipulazione di un contratto di diritto privato, incorre in responsabilità precontrattuale ai sensi dell'articolo 1337 c.c., in tutti i casi in cui il suo comportamento contrasti con i principi della correttezza e della buona fede, alla cui puntuale osservanza è tenuto ogni contraente nella fase precontrattuale. La regola costituisce ius receptum così come le conseguenze che se ne traggono in tema di sindacato del giudice ordinario sull'idoneità del comportamento della pubblica amministrazione ad ingenerare nei terzi, anche per mera colpa, un ragionevole affidamento in ordine alla conclusione del contratto. Secondo la Corte va perciò affermato che la responsabilità precontrattuale della P.A. è configurabile in tutti i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, abbia compiuto azioni o sia incorso in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede, alla cui puntuale osservanza anch'esso è tenuto, nell'ambito del rispetto dei doveri primari garantiti dall'articolo 2043 c.c.; in particolare, il recesso dalle trattative è sindacabile ai sensi dell'articolo 1337 c.c., ove l'ente pubblico sia venuto meno ai doveri di buona fede, correttezza, lealtà e diligenza, in rapporto anche all'affidamento ingenerato nel privato circa il perfezionamento del contratto, a prescindere dalle ragioni che abbiano indotto l'ente ad interrompere le trattative o a rifiutare la conclusione del contratto ( Cass. S.U., n. 10413/2017).
In ordine alla domanda di risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale proposta da una P.A., in qualità di stazione appaltante, nei confronti del soggetto affidatario di lavori o servizi pubblici, le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno statuito che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la relativa controversia, trattandosi di richiesta afferente non alla fase pubblicistica della gara ma a quella prodromica, nella quale si lamenta la violazione degli obblighi di buona fede e correttezza. In tale ipotesi, infatti, il giudice predetto è chiamato a decidere di una controversia avente ad oggetto un diritto soggettivo la cui lesione sia stata non conseguente, bensì soltanto occasionata da un procedimento amministrativo di affidamento di lavori o servizi (Cass. S.U., n. 16419/2017).
In linea generale si veda però Cons. St. III, n. 3755/2016, secondo cui sussiste la giurisdizione amministrativa esclusiva nelle controversie di responsabilità precontrattuale disciplinata dall'art. 133, comma 1, lett. e) laddove l'amministrazione appaltante deduca la responsabilità precontrattuale del privato partecipante alla gara
Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi, benefici e sovvenzioni pubbliche, deve essere attuato sulla base del generale criterio fondato sulla natura della situazione soggettiva dell'interessato prima e dopo la concessione del beneficio, posto che nella fase procedimentale che precede il provvedimento concessorio è ravvisabile unicamente una posizione di interesse legittimo, mentre nella fase successiva la posizione del privato può assumere una diversa configurazione giuridica (Trib. Roma II, 1° giugno 2017, n. 11101).
In tema di riparto di giurisdizione, le controversie concernenti il trattamento economico per l'esercizio delle funzioni di cui al d.lgs. n. 545 del 1992 (nella specie, di componente delle commissioni tributarie centrali) sono devolute al giudice ordinario, ai sensi dell'art. 3, comma 121, della l. n. 350 del 2003, venendo in rilievo il bene della vita cui gli attori aspirano e, cioè, il diritto patrimoniale e non l'interesse legittimo al corretto esercizio della potestà amministrativa di scelta dei criteri di determinazione del compenso (Cass. S.U., n. 13722/2017).
In tema di occupazioni abusive si è evidenziato che il punto di discriminazione tra le diverse giurisdizioni va individuato con riguardo all'adozione della dichiarazione di pubblica utilità, ritenendo che in caso di mancanza di tale dichiarazione la lite rientri nella giurisdizione del giudice ordinario; pertanto, la domanda con cui parte ricorrente deduce un'occupazione sostanzialmente illecita, in difetto di qualsiasi procedura amministrativa legittimante l'occupazione del suolo, esula dalla giurisdizione amministrativa, alla luce dell'orientamento giurisprudenziale per cui le domande risarcitorie e restitutorie relative a fattispecie di occupazione usurpativa, intese come manipolazione del fondo di proprietà privata avvenuta senza dichiarazione di pubblica utilità ovvero a seguito della sua sopravvenuta inefficacia, rientrano nell'ambito della giurisdizione ordinaria (T.A.R. Lazio (Roma), Sez. II, 15 maggio 2017, n. 578).
In tema di atti di macro-organizzazione, è sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo in tema d'impugnazione “in parte qua” di un d.m., posto che viene in rilievo la stessa regola ordinatoria posta a presidio dell'ingresso in graduatoria dato che oggetto di contestazione sono atti di macro-organizzazione. La pubblica amministrazione, infatti, con l'adozione dei provvedimenti in esame, a prescindere dalla loro natura di atti normativi o amministrativi generali, definisce le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, determinando anche le dotazioni organiche complessive. La giurisdizione compete, pertanto, al giudice amministrativo. Né, in senso contrario, potrebbe rilevare la questione relativa all'incidenza “diretta” o “indiretta” di tali provvedimenti sui singoli rapporti di lavoro, trattandosi di un profilo che non ne muta la intrinseca natura e dunque le regole di riparto della giurisdizione. Questo aspetto può, al più, assumere rilevanza ai fini della individuazione dell'ambito del potere disapplicativo del giudice ordinario e se cioè esso può essere esercitato soltanto quando il provvedimento amministrativo di macro-organizzazione rilevi in via “indiretta” ai fini della risoluzione della controversia in linea con la regola generale posta dall'art. 5, l. 20 marzo 1865, n. 2248, All. E, ovvero anche quando esso venga in rilievo quale fonte “diretta” della lesione della posizione soggettiva individuale fatta valere in giudizio (Cons. Stato, Sez. VI, n. 1220/2017).
In tema di pubblico impiego le sezioni unite civili della Corte di cassazione (ord. 107/2016) hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), «nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000», deducendo la violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione ai parametri interposti dell'art. 6, paragrafo I, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e dell'art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione stessa. La disposizione censurata prevede che «Sono attribuite al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie di cui all'art. 63 del presente decreto, relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998. Le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore a tale data restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000». Le Sezioni unite partono dal presupposto che, in ordine alle controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 iniziate dopo il 15 settembre 2000, si era formato, in principio, un orientamento giurisprudenziale secondo cui esse spettavano alla giurisdizione del giudice ordinario; nel tempo, tuttavia, era prevalso un diverso orientamento sia della Corte di cassazione sia del Consiglio di Stato (avallato dalla Corte costituzionale) che ricollega alla scadenza del termine la radicale impossibilità di fare valere il diritto dinanzi ad un giudice. La sentenza del Consiglio di Stato rientrerebbe in uno di quei casi estremi in cui il giudice amministrativo adotta una decisione «anomala o abnorme», omettendo l'esercizio del potere giurisdizionale per errores in iudicando o in procedendo che danno luogo al superamento dei limiti esterni e diventano sindacabili per motivi inerenti alla giurisdizione, in linea con una concezione moderna ed evoluta di giurisdizione intesa in senso dinamico o funzionale.
Questa ricostruzione ermeneutica, tuttavia, non è stata seguita dalla Corte Costituzionale che, con sentenza n. 6 del 2018, ha evidenziato l'erroneità della concezione dinamica di giurisdizione, perché priva di fondamento o estranea ad una questione qualificabile come propriamente di giurisdizione, in quanto sono richiamati princìpi fondamentali, quali la primazia del diritto comunitario, l'effettività della tutela, il giusto processo e l'unità funzionale della giurisdizione, che non legittimano un allargamento del concetto di giurisdizione. Secondo la Corte, nell'ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, “il problema indubbiamente esiste, ma deve trovare la sua soluzione all'interno di ciascuna giurisdizione, eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all'art. 395 cod. proc. civ., come auspicato dalla stessa Corte Costituzionale, con riferimento alle sentenze della Corte EDU (sent. n. 123/2017).
Secondo la Corte, quindi, “l'«eccesso di potere giudiziario», denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l'avvento della Costituzione, va riferito, dunque, alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all'amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull'erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull'erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici”. Questo perché “il concetto di controllo di giurisdizione, così delineato nei termini puntuali che ad esso sono propri, non ammette soluzioni intermedie” e non può quindi essere esteso ai casi in cui si sia in presenza di sentenze "abnormi" o "anomale" ovvero di uno "stravolgimento", a volte definito radicale, delle "norme di riferimento". Ne deriva, quindi, che “non è consentita la censura di sentenze con le quali il giudice amministrativo o contabile adotti una interpretazione di una norma processuale o sostanziale tale da impedire la piena conoscibilità del merito della domanda”.
Le Sezioni unite si sono anche pronunciate sul riparto di giurisdizione in relazione all'azione di responsabilità per danno all'immagine proposta dalla p.a. nei confronti del proprio dipendente, ritenendo sussistente la giurisdizione del g.o. In particolare, hanno evidenziato che: “Poiché l'azione di responsabilità contabile nei confronti del dipendente di un'amministrazione pubblica non è sostitutiva delle ordinarie azioni civilistiche di responsabilità nei rapporti tra l'amministrazione e il soggetto danneggiante, la singola P.A. danneggiata ben può promuovere dinanzi al giudice ordinario l'azione civilistica di responsabilità a titolo risarcitorio, facendo valere il proprio interesse particolare e concreto in relazione agli scopi specifici che essa persegue, non essendo neppure in astratto ipotizzabile che la P.A. non possa agire in sede giurisdizionale a tutela dei propri diritti (artt. 3 e 24 Cost.), tanto più in mancanza di specifiche norme derogatorie (Cass. S.U., 10 settembre 2013, n. 20701; Cass. S.U., 19 febbraio 2019, n. 4883). L'azione può essere proposta dinanzi al giudice ordinario anche per far valere il risarcimento del danno all'immagine arrecato all'ente pubblico, non essendo prevista una riserva di giurisdizione esclusiva in favore del giudice contabile, in quanto l'art. 17, comma 30-ter, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, nella legge 3 agosto 2009, n. 102, nel prevedere la proposizione dell'azione per il risarcimento del danno all'immagine da parte delle procure regionali della Corte dei conti nel giudizio erariale, si limita a circoscrivere oggettivamente l'ambito di operatività dell'azione, senza introdurre una preclusione alla proposizione della stessa dinanzi al giudice ordinario da parte dell'amministrazione danneggiata” (cfr., Cass. S.U., n. 24859/2019).
Con riguardo alla giurisdizione in tema di revoca della patente di guida dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 99 del 2020 (che aveva dichiarato l'illegittimità̀ costituzionale dell'art. 120, comma 2, del codice della strada, nella parte in cui dispone che il prefetto “provvede”, invece che “può̀ provvedere”, alla revoca della parte di guida nei confronti dei soggetti che sono o sono stati sottoposti a misure di prevenzione ai sensi del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, le S.U. (sentenza n. 26391/2020) hanno evidenziato che la revoca della patente si presenta come espressione dell'esercizio, non di discrezionalità̀ amministrativa, ma di un potere che non degrada e non affievolisce la posizione di diritto soggettivo del privato; ne consegue che la giurisdizione sulla controversia avente ad oggetto il provvedimento di revoca adottato dal prefetto continua a spettare, secondo la regola base di riparto, al giudice ordinario.
Tale orientamento delle S.U. richiama la teoria della degradazione dei diritti che il Consiglio di Stato ha recentemente scartato Cons. Stato, Sez. III, 21 ottobre 2020, n. 6371, citato sub par. 3.
Con riguardo al riparto di giurisdizione in relazione alle domande proposte da investitori e azionisti nei confronti delle autorità̀ di vigilanza (Banca d'Italia e Consob) per i danni conseguenti alla mancata, inadeguata o ritardata vigilanza su banche e intermediari, le Sezioni unite (n. 25953/2020) hanno evidenziato che le relative sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, non venendo in rilievo la contestazione di poteri amministrativi, ma di comportamenti “doverosi” posti a tutela del risparmio, che non investono scelte ed atti autoritativi, essendo tali autorità̀ tenute a rispondere delle conseguenze della violazione dei canoni comportamentali della diligenza, prudenza e perizia, nonché́ delle norme di legge e regolamentari relative al corretto svolgimento dell'attività̀ di vigilanza, quali espressione del principio generale del neminem laedere.
In tema di immissioni, Cass. S.U., n. 25578/2020 ha chiarito che spetta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia nella quale il privato chieda di accertare che gli aerogeneratori di un vicino parco eolico generano immissioni rumorose, moleste e intollerabili, con effetti pregiudizievoli sia al bene primario della salute dell'attore e dei suoi familiari sia al valore economico della sua proprietà̀, e domandi l'emissione delle conseguenti pronunce inibitorie e risarcitone.
Le controversie aventi ad oggetto le indennità̀ dovute dall'Amministrazione exartt. 46 della legge n. 2359 del 1865 o 44 del d.P.R. n. 327 del 2001 (indennità̀ per l'imposizione di una servitù̀) non rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo: atteso, per un verso, che nei confronti del terzo proprietario, confinante con il fondo dove sono state collocate le pale eoliche, non è configurabile un rapporto diretto con l'amministrazione-autorità̀, nel cui ambito possa individuarsi una posizione d'interesse legittimo, soggetta alla giurisdizione generale di legittimità̀ del giudice amministrativo; e considerato, per altro verso, che l'art. 133, comma 1, lettera g), cod. proc. amm. prevede una riserva di giurisdizione ordinaria per la determinazione delle indennità̀ conseguenti all'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa.