Ritiro fascicoli di parte

Antonio Scarpa
30 Dicembre 2016

L'art. 169 c.p.c. stabilisce che ogni parte possa essere autorizzata dal giudice istruttore a ritirare il proprio fascicolo di parte, rimanendo comunque obbligata a restituire lo stesso ogni volta che il giudice lo richieda.
Inquadramento

L'art. 169 c.p.c. stabilisce che ogni parte possa essere autorizzata dal giudice istruttore a ritirare il proprio fascicolo di parte, rimanendo comunque obbligata a restituire lo stesso ogni volta che il giudice lo richieda. Al momento della rimessione della causa in decisione la facoltà di ritiro del fascicolo di parte è incondizionata, ma in tal caso la restituzione deve necessariamente coincidere al più tardi col deposito delle comparse conclusionali.

Disponibilità dei fascicoli di parte e principio di non dispersione delle prove

La facoltà di ritiro del proprio fascicolo è riconosciuta alla parte dall'art. 169 sia durante la fase della trattazione e dell'istruzione della causa (subordinatamente ad un'autorizzazione da parte del giudice istruttore e fin quando questi non ne disponga il rideposito), sia al momento del passaggio della causa alla fase decisoria.

Il comma 2 della norma in commento conferisce, in realtà, alle parti la facoltà di ritirare liberamente i propri fascicoli dopo la rimessione della causa in decisione, prescindendo dall'autorizzazione del giudice stabilita, per ogni altra ipotesi di ritiro, dal comma 1, ma non comporta deroga al principio, di cui all'art 77 disp. att. c.p.c., il quale stabilisce che la restituzione del fascicolo si esegue previa dichiarazione scritta della parte che lo ritira e contemporanea annotazione nel fascicolo d'ufficio ad opera del cancelliere: ne consegue che, mancando siffatta annotazione, non può desumersi che la parte si sia avvalsa della facoltà di ritiro (Cass., 10 aprile 1979, n. 2053).

Tale disciplina contempera le esigenze, proprie del sistema delle prove, attinenti ai poteri della parte come a quelli della controparte e del giudice, sicché, in forza del principio dispositivo, il fascicolo potrebbe dirsi soggetto alla volontà di ciascuno dei contendenti, mentre, per effetto del principio di acquisizione, il contenuto del fascicolo si direbbe soggetto ad un vincolo di destinazione, che limita la disponibilità delle parti sul materiale documentale nell'ambito definito dalla norma in commento (si vedano al riguardo Petrucci, Fascicolo di parte, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 871 ss.; Pala, Fascicolo d'ufficio e fascicolo di parte, in Novissimo dig. it., VII, 1963, 103 ss.): le formalità di formazione, ritiro e restituzione del fascicolo di parte garantiscono, pertanto, la tutela del contraddittorio quanto ai documenti prodotti, nonché del diritto di difesa, poiché, conseguentemente alla produzione avversaria, sorge l'interesse dei contendenti ad avvalersi di una prova contraria ovvero anche dello stesso documento esibito dalla controparte.

È pacifico, del resto, che anche le prove documentali sono soggette al principio di acquisizione processuale (sulla cui generale enunciazione, Luiso, Diritto processuale civile, Milano, 2009, I, 234 e II, 122; Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, 1991, 132 ss.). Di recente, esso è stato ancora elaborato dalle Sezioni Unite della S.C. quanto ai rapporti tra documenti prodotti in primo grado e cognizione del giudice del gravame (Cass.,Sez. Un., 8 febbraio 2013, n. 3033), nonché ai rapporti fra documenti allegati alla richiesta di decreto ingiuntivo e documenti utilizzabili nella fase di opposizione (Cass.,Sez. Un., 10 luglio 2015, n. 14475).

È costante nelle sentenze l'argomentazione secondo cui le norme relative alla produzione di documenti sono essenzialmente finalizzate a garantire il diritto di difesa della parte contro la quale la medesima produzione abbia luogo, sicché tale finalità si deve ritenere comunque conseguita quando il giudice del grado o della fase precedente abbia tenuto conto dei documenti pur irritualmente prodotti, fondando su di essi la propria decisione, e la parte che lamenta l'irritualità della produzione abbia censurato siffatta pronuncia, dimostrando, in tal modo, di aver avuto conoscenza di quei documenti (Cass., 22 aprile 2010, n. 9545; Cass., 20 gennaio 2004, n. 771). Appare, quindi, la conseguita conoscenza dei documenti in favore della controparte il metro secondo cui orientare la verifica dell'avvenuto rispetto del bisogno di tutela del contraddittorio e del diritto di difesa.

Può perciò affermarsi che, una volta prodotto in una fase o in un grado di un processo unitario un documento, lo stesso, in quanto “conosciuto” e perciò definitivamente acquisito alla causa, se sia successivamente ritirato e poi ancora allegato, dalla stessa parte che se ne fosse originaria avvalsa o da altra parte, non può considerarsi “nuovo” né in primo grado, agli effetti dell'art. 183, comma 6, c.p.c., né in appello, ai sensi dell'art. 345, comma 3, c.p.c., né pure nel giudizio in cassazione (intendendosi costantemente che il divieto di cui all'art. 372 c.p.c. di produrre nuovi documenti in sede di legittimità non riguarda gli atti e i documenti già facenti parte del fascicolo d'ufficio o di parte di un precedente grado del processo: Cass. 31 gennaio 2014, n. 2125; Cass. 15 marzo 2006, n. 5682; Cass. 23 novembre 2000, n. 15148).

Indicativa della libera facoltà di deposito, ad opera dell'appellante che voglia giovarsene, dei documenti già prodotti in primo grado dall'appellato, senza soggiacere alle limitazioni poste dall'art. 345 c.p.c., Cass. 3 marzo 2006, n. 4723, la quale affermava: «il documento in questione era contenuto nel fascicolo di parte del Ministero in primo grado. In secondo grado la predetta parte è rimasta contumace e dunque non ha depositato il proprio fascicolo, restando a tal fine irrilevante il fatto che ancora la Avvocatura non avesse ritirato quello depositato in primo grado. La constatazione della mancata produzione del documento in secondo grado da parte del (XXX) avrebbe dovuto indurlo, essendo egli a tanto legittimato ed essendo, come afferma con la richiesta odierna, in possesso anch'egli del medesimo, a depositarlo almeno innanzi al giudice di secondo grado, dal momento che questi, a seguito della contumacia di una parte, non può utilizzarne la produzione inserita nel fascicolo di parte di primo grado”.

Si conclude così in dottrina: «I giudici ammettono de plano l'appellante al deposito dei documenti già prodotti in primo grado dall'appellato, senza verificare le condizioni cui l'art. 345 c.p.c. subordina la produzione di documenti nuovi in appello. Ma questa soluzione muove appunto dal presupposto che la contumacia dell'appellato non faccia venir meno l'acquisizione dei documenti da lui prodotti; altrimenti la produzione dei documenti «ritirati» dal contumace non potrebbe sfuggire alle limitazioni previste dall'art. 345 c.p.c. Ci sembra dunque possibile sostenere che l'acquisizione non si esaurisca nel singolo grado di giudizio» (Turroni, Produzione e acquisizione del documento nel processo civile, in Riv. trim. dir. e proc civ. 2011, 203).

In verità, un conto è sostenere che i documenti prodotti in una fase o in un grado anteriori dell'unico giudizio siano automaticamente utilizzabili per la formazione del convincimento del giudice che debba decidere nella fase o nel grado successivi, seppur non (ri)prodotti dalla parte interessata, purché in qualche modo pervengano alla sua attenzione (così, ad esempio, Chiarloni, Documenti favorevoli al vincitore non (ri)prodotti in secondo grado e convincimento del giudice: alcune spiacevoli conseguenze ascrivibili all'imperfetta attuazione del principio di acquisizione processuale per le prove precostituite, in Giur. it. 2003, 255 ss.), un conto è affermare che, ove tale parte interessata voglia produrli, debba perciò in ogni caso soggiacere ex novo alle preclusioni ed ai limiti dettati per le nuove attività istruttorie di quella fase o di quel grado.

Il principio di immanenza della prova documentale implica, quindi, che l'efficacia istruttoria di essa, una volta che sia stata prodotta in una fase del giudizio, non rivesta caratteri di “novità” in ipotesi di successiva allegazione nelle fasi seguenti, ferma sempre la necessità per chi ne abbia interesse di procurarne la disponibilità al giudice della rispettiva fase.

Non è agevolmente contestabile, secondo gli orientamenti della Cassazione, che, ove si voglia che un documento sia utilizzato in una fase o in un grado ulteriore a quello della sua originaria produzione, sussiste un onere della parte interessata (semmai anche diversa da quella che l'aveva dapprima allegato) di attivarsi affinché il documento stesso sia materialmente in atti (si veda, ad esempio, Cass. 8 gennaio 2007, n. 78: «Il fascicolo di parte che l'attore ed il convenuto debbono depositare nel costituirsi in giudizio dopo avervi inserito, tra l'altro, i documenti offerti in comunicazione, ai sensi dell'art. 165 comma primo c.p.c. e art. 166 c.p.c., applicabili anche in appello a norma dell'art. 347 dello stesso codice, pur essendo custodito, a norma dell'art. 72 delle disp. att. c.p.c., con il fascicolo di ufficio formato dal cancelliere (art. 168 c.p.c.), conserva, rispetto a questo, una distinta funzione ed una propria autonomia che ne impedisce l'allegazione di ufficio nel giudizio di secondo grado ove, come in quello di primo grado, la produzione del fascicolo di parte presuppone la costituzione in giudizio di questa; ne consegue che il giudice di appello non può tenere conto dei documenti del fascicolo della parte, ancorché sia stato trasmesso dal cancelliere del giudice di primo grado con il fascicolo di ufficio, ove detta parte, già presente nel giudizio di primo grado, non si sia costituita in quello di appello»).

La giurisprudenza, cioè, si è dimostrata soprattutto in passato avversa all'elaborazione di una regola di irreversibilità dell'acquisizione documentale, regola elaborata, invece, da certa dottrina, ad avviso della quale la stessa sarebbe imposta da un'applicazione coerente del principio di acquisizione ai documenti, dovendo esso operare similmente sia per le prove costituende (ad esempio, si veda l'art. 245, comma 2, c.p.c.) che per le prove costituite [cfr. Villata, Prova documentale e principio di acquisizione: un difficile connubio (specialmente) nel giudizio di appello?, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2006, 315 ss.]. Né si potrebbe rimettere, ad avviso di questi Autori, il funzionamento del principio di acquisizione per la prova documentale al solo diritto ex art. art. 76 disp. att. c.p.c. per le altre parti di ottenere copia dei documenti prodotti, giacché, in ipotesi di mancato esercizio di tale facoltà, la prova verrebbe sottratta al processo: ed è, appunto, quanto accade quando la parte non ottempera all'ordine, di per sé incoercibile, di restituire il fascicolo dopo averlo ritirato, ai sensi dell'art. 169 c.p.c., ovvero quando l'appellato non riproduca in appello i documenti prodotti in primo grado, o anche quando l'opposto non esibisca nel giudizio di opposizione i documenti allegati nella fase monitoria. L'accezione più rigorosa del principio di acquisizione applicato alle prove documentali nega, in sostanza, ai contendenti la piena disponibilità del rispettivo fascicolo di parte (come dei singoli documenti in esso contenuti), e questo in forza dell'art. 116 c.p.c., invocando in danno di chi abbia ritirato la produzione perfino una decisione sfavorevole per violazione del dovere di lealtà e di probità, dal quale trarre argomenti di prova (cfr. Comoglio, Le prove civili, Torino, 2010, 759; per un assonante richiamo giurisprudenziale, Cass. 3 luglio 1975, n. 2580).

Una chiara teorizzazione del connotato di irreversibilità dell'acquisizione documentale espone: «La c.d. relatività del vincolo di indisponibilità delle prove documentali esibite o offerte in comunicazione dalle parti, lungi dal costituire un'applicazione del principio dispositivo, appare pertanto il frutto indigesto di un'infelice scelta normativa adottata da un legislatore dimentico che, in un sistema informato al principio di acquisizione delle risultanze istruttorie, scopo dell'offerta in comunicazione e dell'esibizione è quello di assicurare durevolmente al processo le prove precostituite, in modo che ciascuna delle parti possa dedurne conclusioni a proprio vantaggio e il giudice possa trarne elementi per la formazione del proprio convincimento, anche contro l'interesse della parte producente» (Ruffini, Produzione ed esibizione dei documenti, in Riv. dir. proc. 2011, 433 ss.).

Lì dove giudici e studiosi sembrano distanti non è, allora sull'elaborazione del principio di acquisizione probatoria con riguardo ai documenti, visti come rappresentazione di fatti rilevanti per il decidere, quanto ai mezzi utilizzabili dal giudice allo scopo di conseguire in ogni modo e con pienezza degli effetti il recupero della disponibilità dei documenti (e della correlata rappresentazione) dapprima prodotti e poi ritirati.

Ad esempio, sosteneva Cerino Canova, Dell'introduzione della causa, in Comm. al c.p.c., diretto da Allorio, Torino, 1980, 438, "l'asseverata esistenza del documento, quale risulta dal fascicolo” dovrebbe far sì che “il processo possa ovviare alla sua successiva materiale assenza, come può ovviare a quella di ogni altro atto comunque scomparso; e dunque permette un'attività ricostruttiva del contenuto dell'atto asportato".

La dottrina sollecita l'adozione di iniziative officiose del giudice volte a ripristinare l'utilizzabilità probatoria dei documenti prodotti e poi sottratti, fondandole su un principio di “best evidence principle”, che obbligherebbe il magistrato, pur nel rispetto del canone di imparzialità e del divieto di utilizzo della scienza privata, ad acquisire pure d'ufficio la «prova migliore» (in tal senso, emblematicamente, Ferrari, La "prova" migliore, Milano, 2004, 351 ss.). Questo non soltanto valutando, ad esempio, le copie della documentazione prodotta dalla controparte o reperite nei fascicoli dei gradi precedenti, o la trascrizione del testo ad essa pertinente operata in un provvedimento, in un atto difensivo, o in una relazione peritale, o nel verbale dell'udienza (al che perveniva, per la verità, in motivazione, già Cass. 11 novembre 1998, n. 11383, la quale, nell'escludere che il giudice d'appello potesse fondare la propria decisione su documenti inseriti nel fascicolo di parte di primo grado dell'appellato contumace, in quanto non prodotti nel giudizio di gravame, osservava tuttavia: «il contenuto sostanziale di quei documenti restava percepibile e valutabile dal giudice del merito se ed in quanto reso noto dalla riproduzione eventuale in atti facenti parte del fascicolo dell'appellante e del fascicolo d'ufficio del giudizio di primo grado dei quali potesse essere assunta legittima e doverosa cognizione».) Si arriva a teorizzare che il giudice, in caso di contumacia dell'appellato, potrebbe proprio acquisire d'ufficio il fascicolo di parte di primo grado (non rinvenendosi un rilievo ostativo nel dato testuale del terzo comma dell'art. 347 c.p.c., il quale prevede la trasmissione del solo fascicolo di ufficio; ed, anzi, valorizzando la portata dell'art. 123-bis disp. att. c.p.c., che accorda al giudice di appello il potere di “ordinare alla parte interessata di produrre copia di determinati atti”. Oppure, si auspica il ricorso all'art. 213 c.p.c., nel senso che il giudice possa richiedere alla cancelleria i documenti non riprodotti, o all'ordine di esibizione degli stessi, o al sequestro giudiziario ex art. 670, n. 2, c.p.c. (si rinvia a Graziosi, L'esibizione istruttoria nel processo civile italiano, Milano, 2003, 397 ss.; Dittrich, Appunti per uno studio del fatto notorio giudiziale, in Studi in onore di Giuseppe Tarzia, Milano, 2005, 833 – 834). Infine, il giudice, ove non gli sia stato possibile recuperare al proprio esame i documenti prodotti e non restituiti, dovrebbe rimettersi alla regola di giudizio di cui all'art. 2697 c.c. e affermare la soccombenza della parte onerata: «le conseguenze negative della mancata (ri)produzione in secondo grado di documenti in precedenza prodotti, vengono fatte gravare su chi aveva il potere di effettuare quella (ri)produzione e, con la scelta di una condotta processuale di disinteresse, non lo ha esercitato» (in tal senso, Ronco, Appello e mancata (ri)produzione di un documento già prodotto in primo grado: onere della prova sulla fondatezza del motivo di gravame od onere della prova sulla fondatezza della domanda devoluta al giudice dell'impugnazione?, in Giur. it., 2007, 3, 672 ss.).

Come si è invece ricordato, per la giurisprudenza, in ogni distinta e successiva fase o grado del giudizio, dovrebbe rinvenirsi un attore sul quale ricade l'onere di dimostrare la fondatezza dei propri motivi di opposizione o di gravame, quale che sia stata la posizione processuale assunta nella fase o nel grado precedente, sicché sempre su costui ricadrebbe l'onere di estrarre copia dei documenti prodotti dalla controparte e da questa non ridepositati. Sarebbe quindi l'appellante o l'opponente per i giudici a meritare sanzione, col rigetto della sua iniziativa impugnatoria, ove non abbia avuto l'accortezza di procurarsi e di produrre nell'ulteriore grado o fase le copie dei documenti di controparte. Il che, contesta la dottrina, trasforma, però, in onere la “facoltà” offerta dall'art. 76 disp. att. c.p.c. e "ripone nella solerzia della controparte, e sempre che ne abbia il tempo, il rimedio dell'abuso dell'altra" (cfr. Parisi, Oggetto dell'appello, onere della prova e principio di acquisizione processuale al vaglio delle Sezioni Unite, in Corr. giur. 2006, 1083 ss. ; Magnone Cavatorta, Sul ritiro dei documenti prodotti e sulle conseguenze della loro mancata restituzione, in Riv. dir. proc., 1984, 169 ss., in part. 182; Cerino Canova, Dell'introduzione della causa, cit., 437, nota 39).

Il deposito nel giudizio di appello del fascicolo di parte, ritirato e non restituito in primo grado all'atto della rimessione della causa al collegio, neppure costituisce introduzione di nuove prove documentali, escludendo il ricorso appropriato a tale aggettivo il dato che i relativi documenti ivi contenuti fossero stati inizialmente esibiti nell'osservanza delle preclusioni istruttorie risultanti dagli artt.165, 166 e 183 c.p.c. (Cass. 19 dicembre 2013, n. 28462).

Mancata restituzione del fascicolo di parte

Il giudice che accerti l'avvenuto rituale ritiro del fascicolo di parte, ex art. 169 c.p.c., senza che poi lo stesso risulti, al momento della decisione, nuovamente depositato o reperibile entro il termine previsto dall'art. 190, non è tenuto, in difetto di annotazioni della cancelleria e di ulteriori allegazioni indiziarie attinenti a fatti che impongano accertamenti presso quest'ultima, a rimettere la causa sul ruolo per consentire alla medesima parte di ovviare alla carenza riscontrata, ma ha il dovere di decidere la controversia allo stato degli atti (Cass. 25 maggio 2015, n. 10741/2015). Viceversa, ove non risulti alcuna annotazione dell'avvenuto ritiro del fascicolo della parte, il giudice non può rigettare una domanda, o un'eccezione, per mancanza della prova documentale ivi inserita, ma deve disporre le opportune ricerche tramite la cancelleria, e, in caso di esito negativo, concedere un termine all'interessato per la ricostruzione del proprio fascicolo, presumendosi che le attività delle parti e dell'ufficio si siano svolte nel rispetto delle norme processuali e, quindi, che il fascicolo, dopo l'avvenuto deposito, non sia mai stato ritirato. Soltanto in caso di insuccesso delle ricerche da parte della cancelleria, ovvero in caso di inottemperanza della parte all'ordine di ricostruire il proprio fascicolo, il giudice può, quindi, pronunciare sul merito della causa in base agli atti a sua disposizione (Cass. 3 giugno 2014, n. 12369; Cass. 3 luglio 2008, n. 18237).

L'art. 169, comma 2, c.p.c. afferma che il fascicolo ritirato ritualmente all'atto della rimessione della causa in decisione, deve essere ridepositato «al più tardi al momento del deposito della comparsa conclusionale». Tale termine deve essere inteso come perentorio agli effetti dell'art. 153, comma 2, c.p.c., ma, come detto, in forza del principio dell'acquisizione processuale dei documenti prodotti, non rende gli stessi “nuovi” se riprodotti nel successivo giudizio di appello, agli effetti dell'art, 345 c.p.c., sicchè l'inosservanza di tale termine produce effetti limitati alla decisione del giudice di primo grado (Cass. 19 dicembre 2013, n. 28462/2013; Cass. 10 dicembre 2014, n. 26030). Diversamente, si è ritenuto che nel rito del lavoro, il fascicolo di parte ritirato nel corso del giudizio di primo grado e non depositato prima della decisione, nonostante il rilievo del giudice circa la sua assenza, non è poi utilizzabile ove prodotto in appello, poiché solo con il rispetto delle forme imposte dall'art. 74 disp. att. c.p.c. vi sarebbe la prova dell'effettività e della tempestività della produzione documentale nel precedente grado di giudizio (Cass. 21 giugno 2016, n. 12285).

Il processo civile telematico

Com'è noto, ai sensi dell'art. 16-bis, comma 1, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito in legge 17 dicembre 2012, n. 221, a decorrere dal 30 giugno 2014, nei procedimenti civili innanzi al tribunale, il deposito degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle parti precedentemente costituite ha luogo esclusivamente con modalità telematiche, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Per effetto del comma 1-bis di tale norma, introdotto dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2015, n. 132, nell'ambito dei medesimi procedimenti innanzi ai tribunali e, a decorrere dal 30 giugno 2015, innanzi alle corti di appello, è sempre ammesso il deposito telematico dei documenti che si offrono in comunicazione, da parte del difensore o del dipendente di cui si avvale la pubblica amministrazione per stare in giudizio personalmente. In tal caso il deposito si perfeziona esclusivamente con le prescritte modalità telematiche.

La modifica introdotta nel 2015 implica, pertanto, che il deposito dei documenti con modalità telematiche possa avvenire sin dall'atto di costituzione in giudizio anche davanti agli uffici giudiziari sprovvisti del provvedimento dirigenziale di accertamento dell'installazione, dell'idoneità delle attrezzature informatiche e della funzionalità dei servizi di comunicazione di cui all'art. 35 del Decreto Ministero Giustizia 21 febbraio 2011, n. 44.

Il comma 7 del citato art. 16-bis precisa, peraltro, come il deposito dei documenti con modalità telematiche si ha per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del ministero della giustizia.

Si assume, allora, che quando sarà ultimato l'integrale passaggio al processo civile digitale il problema dell'acquisizione probatoria delle prove documentali sia destinato a tramontare, in quanto l'invio telematico del documento lascia intatta al giudice ed alla controparte la definitiva disponibilità dello stesso: «i documenti saranno prodotti in formato elettronico e per via telematica, quindi rimarranno stabilmente custoditi nell'apposito database della cancelleria; in più, la produzione di nuovi documenti seguirà una procedura obbligata atta ad assicurare l'ordinata formazione del fascicolo. Ciò garantirà al giudice e alle parti la costante e ordinata visibilità “in rete” degli atti e dei documenti trasmessi»[Turroni, Produzione e acquisizione del documento nel processo civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 2011, 194].

Sfuma, allora, alla luce delle necessaria forma digitale del documento da produrre in giudizio, la distinzione tra «originale» e «copia» su cui poggia la tradizionale disciplina codicistica della prova documentale.

Le regole tecniche, peraltro, postulano che il documento informatico, da depositare telematicamente all'ufficio giudiziario, sia necessariamente versato in formato PDF; il che però suppone che il documento da produrre sia in origine cartaceo, mentre preclude, per assurdo, l'allegazione in giudizio di materiale (come, ad esempio, i files video o audio) che non sia convertibile in PDF.

Viepiù, nel sistema del processo civile telematico sembrerebbe venir meno in radice la stessa facoltà di ritiro dei fascicoli di parte assentita dall'art. 169 c.p.c. Nel funzionamento del processo telematico, la facoltà di ritiro del fascicolo di parte varrebbe in pratica, come un'istanza (evidentemente inaccoglibile) volta a non rendere più visibile lo stesso alla controparte ed al giudice. Perciò in dottrina si conclude che «l'inapplicabilità delle norme in tema di ritiro del fascicolo di parte paiono in grado di configurare il principio di acquisizione come assoluto e non più relativo; sembra, quindi, possibile ritenere che all'interno del processo telematico i documenti, se ritualmente acquisiti, siano sempre nella reale ed effettiva disponibilità del giudice e di tutte le parti, a prescindere dal successivo comportamento della parte che li ha prodotti».

Riferimenti

Andrioli, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964;

Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, 1991;

Cerino Canova, Dell'introduzione della causa, in Comm. al c.p.c., diretto da Allorio, Torino, 1980;

Chiarloni, Documenti favorevoli al vincitore non (ri)prodotti in secondo grado e convincimento del giudice: alcune spiacevoli conseguenze ascrivibili all'imperfetta attuazione del principio di acquisizione processuale per le prove precostituite, in Giur. it. 2003, 255 ss.;

Comoglio, Le prove civili, Torino, 2010;

Comoglio, Processo civile telematico e codice di rito. Problemi di compatibilità e suggestioni evolutive, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 953 ss.;

Dittrich, Appunti per uno studio del fatto notorio giudiziale, in Studi in onore di Giuseppe Tarzia, Milano, 2005;

Ferrari, La "prova" migliore, Milano, 2004:

Graziosi, L'esibizione istruttoria nel processo civile italiano, Milano, 2003;

Luiso, Diritto processuale civile, Milano, 2009;

Magnone Cavatorta, Sul ritiro dei documenti prodotti e sulle conseguenze della loro mancata restituzione, in Riv. dir. proc., 1984, 169 ss.;

Mandrioli, Carratta, Diritto processuale civile, III, I procedimenti speciali. L'arbitrato e la mediazione, XXIII ediz., Torino 2014;

Pala, Fascicolo d'ufficio e fascicolo di parte, in Novissimo dig. it., VII, 1963, 103 ss.;

Parisi, Oggetto dell'appello, onere della prova e principio di acquisizione processuale al vaglio delle sezioni unite, in Corr. giur. 2006, 1083 ss.;

Petrucci, Fascicolo di parte, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 871 ss. ;

Ronco, Appello e mancata (ri)produzione di un documento già prodotto in primo grado: onere della prova sulla fondatezza del motivo di gravame od onere della prova sulla fondatezza della domanda devoluta al giudice dell'impugnazione?, in Giur. it., 2007, 3, 672 ss.;

Ruffini, Produzione ed esibizione dei documenti, in Riv. dir. proc. 2011, 433 ss.;

Ruffini, La prova nel giudizio civile di appello, Padova, 1997;

Satta, Commentario al codice di procedura civile, IV, 1, Milano, 1968;

Turroni, Produzione e acquisizione del documento nel processo civile, in Riv. trim. dir. e proc civ. 2011, 203 ss.;

Villata, Prova documentale e principio di acquisizione: un difficile connubio (specialmente) nel giudizio di appello?, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2006, 315 ss.

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