Gabriele Carlotti
Gabriele Carlotti
21 Settembre 2022

L'istruttoria è una fase autonoma, ed eventuale, del processo amministrativo, destinata a raccogliere le prove dei fatti allegati dalle parti onde consentire al giudice di decidere sulla controversia. Sono destinati a provare tali fatti i mezzi di prova. Tradizionalmente, i mezzi di prova del processo amministrativo, almeno nell'ambito della giurisdizione generale di legittimità, erano essenzialmente di carattere documentale. Il Codice del 2010 ha però fortemente innovato la materia, dettando, per un verso, una disciplina unitaria, seppur sintetica, dell'istruttoria processuale, qualunque sia la giurisdizione in concreto esercitata (di legittimità, esclusiva o estesa al merito) e, per altro verso, operando un rinvio generale (nell'art. 63, comma 5, c.p.a.) a tutti i mezzi di prova previsti per il processo civile, che, pertanto, il giudice amministrativo può oggi discrezionalmente assumere, fatti salvi unicamente l'interrogatorio formale e il giuramento.
Inquadramento

Contenuto in fase di aggiornamento autorale di prossima pubblicazione

Ai mezzi di prova il codice del processo amministrativo dedica il Capo I (“Mezzi di prova”) del Titolo III (“Mezzi di prova e attività istruttoria”) deI Libro II del Codice. Si tratta di una disciplina assai sintetica, giacché il Capo I si compendia nel solo art. 63 c.p.a., composto a sua volta di cinque commi, recanti la disciplina generale dei mezzi di prova del giudizio amministrativo. Le altre disposizioni del Titolo III sono contenute nel successivo Capo II, dedicato all'ammissione e all'assunzione delle prove, e, in particolare, alle regole sul riparto dell'onere della prova (art. 64 c.p.a.), a quelle sull'istruttoria presidenziale e collegiale (art. 65 c.p.a.) e sui termini e sulle modalità dell'istruttoria (art. 68 c.p.a.). anche il Capo II reca, tuttavia, delle disposizioni (artt. 66 e 67 c.p.a.) dedicate, rispettivamente, alla verificazione e alla consulenza tecnica d'ufficio, che – sebbene non propriamente consistenti in mezzi di prova, ma in strumenti di valutazione del materiale probatorio affidati ad ausiliari del giudice – richiedono una veloce trattazione in questa sede, per gli evidenti nessi logici con il tema in esame.

Una volta premesso che l'istruttoria consiste nell'insieme delle attività processuali del giudice e delle parti dirette alla formazione delle prove, mediante l'assunzione dei mezzi istruttori che siano stati disposti d'ufficio dal giudice e di quelli indicati dalle parti e ammessi dal giudice, l'approfondimento sui mezzi di prova deve necessariamente muovere, alla stregua di quanto appena osservato, dall'esame del contenuto normativo dell'art. 63 c.p.a. che racchiude in poche righe la fondamentale disciplina dei mezzi di prova nel giudizio amministrativo.

I pregi dell'art. 63 c.p.a. sono essenzialmente due. Il primo risiede nella circostanza che la disposizione ha raccolto e riportato a sistema le numerose previsioni in tema di prova processuale, in precedenza disperse nell'ordinamento; il secondo riguarda il fatto che l'art. 63 c.p.a. detta in modo unitario le regole fondamentali che governano i mezzi di prova, a prescindere dalla specifica forma di giurisdizione amministrativa (di legittimità, esclusiva, estesa al merito) in concreto esercitata.

L'art. 63 c.p.a. presenta anche contenuti innovativi quali l'individuazione nell'onere della prova (ancorché poi declinato, con riguardo al suo meccanismo di funzionamento, nel successivo art. 64 c.p.a.) il principio di base del giudizio amministrativo, come processo di parti, e l'introduzione della prova testimoniale in forma scritta. Costituisce un'altra rilevante novità la molteplicità dei richiami alla disciplina dei mezzi di prova recata dal codice di procedura civile; sebbene, infatti, una previsione analoga fosse contenuta nell'ormai abrogato art. 35, comma 3, del d.lg. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall' art. 7 della l. 21 luglio 2000, n. 205, la previsione in commento ha generalizzato la possibilità, per il giudice amministrativo, di assumere i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile (in aggiunta alla consulenza tecnica d'ufficio, ma esclusi l'interrogatorio formale e il giuramento), nell'ambito di tutte le controversie devolute alla sua giurisdizione e non soltanto in quelle rientranti nella giurisdizione esclusiva (come prevedeva il citato art. 35).

Nonostante i pregi e i contenuti innovativi dell'art. 63 c.p.a., consistiti in sintesi nell'ordinare e ampliare lo strumentario probatorio utilizzabile nel processo amministrativo, nondimeno la disposizione ha conservato rilevanti poteri officiosi in capo al giudice; anzi, a ben vedere, l'art. 63 c.p.a. disciplina essenzialmente i poteri e i doveri del giudice in materia probatoria (non a caso il giudice è il soggetto di tutti i periodi che compongono i commi della disposizione).

Va, infine, ricordato che non tutte le disposizioni processuali sull'istruttoria trovano collocazione nell'ambito del Titolo III del Libro II, giacché alcune previsioni si rinvengono in altre parti del Codice, come, ad esempio, l'art. 8, comma 2, c.p.a. che, pur nella forma di un limite alla cognizione incidentale, preclude, nella sostanza, al giudice amministrativo, di assumere qualunque mezzo di prova inteso a dimostrare la falsità di una scrittura o di un atto pubblico e come altresì l'art. 46, comma 2, c.p.a. che impone alla amministrazione, che sia resistente, l'obbligo di produrre in giudizio alcuni documenti.

I mezzi di prova e l'evoluzione del sindacato giurisdizionale

I mezzi di prova sono gli strumenti, tipizzati dalla legge processuale e nella disponibilità delle parti o del giudice, finalizzati a conoscere e a dimostrare l'accadimento di un fatto, allegato all'interno del processo e posto a fondamento di una pretesa azionata nel giudizio. Alla luce di tale definizione, è evidente che la natura e l'intensità del sindacato giurisdizionale esercitabile nei confronti dell'attività amministrativa siano condizionate dallo spettro dei mezzi istruttori utilizzabili dal giudice amministrativo.

Le potenzialità, sotto l'aspetto istruttorio, del sindacato sul “fatto” esercitabile dal giudice amministrativo si sono evolute nel corso degli ultimi decenni.

Non a caso la dottrina ha evidenziato come, a seguito della progressiva estensione del sindacato giurisdizionale e dell'apertura del processo a una pluralità di azioni, il giudice amministrativo sia stato chiamato a conoscere i presupposti tecnici e fattuali dell'esercizio del potere amministrativo e a pronunciarsi, fra l'altro, sul risarcimento del danno. Questa evoluzione ha condotto inevitabilmente a un ampliamento dei strumenti di cognizione, in grado di consentire al giudice, anche attraverso il ricorso a conoscenze tecniche o scientifiche, di accertare in via diretta e di valutare i «fatti» rilevanti ai fini del decidere. In tal modo il giudice amministrativo ha potuto accedere direttamente al «fatto», ossia è stato messo nelle condizioni di compiere un'indagine autonoma sui presupposti fattuali e sulle valutazioni tecniche, anche complesse, compiute dalle pubbliche amministrazioni, senza doversi più limitare a un sindacato circoscritto alla sola verifica della conformità dell'atto impugnato al diritto o della mera logicità del percorso istruttorio seguito dalla amministrazione, siccome ricostruito nel provvedimento impugnato e negli atti del relativo procedimento.

L'evoluzione del controllo giurisdizionale, soprattutto nella direzione di un'accresciuta intensità del controllo sul corretto esercizio della discrezionalità tecnica e sull'esatto apprezzamento dei fatti da parte della pubblica amministrazione – resa necessaria anche dall'esigenza, fortemente avvertita a livello unionale e internazionale, di attuare un modello di «giusto processo» in termini di effettività delle tutele – è stata considerata una fondamentale trasformazione del sindacato giurisdizionale amministrativo, sintetizzata nella formula icastica del “passaggio da un sindacato estrinseco a un sindacato intrinseco”, cioè non più vincolato e intermediato dallo schermo costituito dal provvedimento impugnato, fermo restando il solo limite del divieto per il giudice amministrativo di sostituire le proprie valutazioni a quelle compiute dalla pubblica amministrazione (ossia del divieto di invadere l'ambito che costituisce il vero e proprio «merito amministrativo»).

L'elaborazione o, meglio, l'evoluzione, del concetto di sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione ha, in particolare, riguardato le valutazioni, in genere molto complesse, come quelle, ad esempio, poste alla base degli atti di regolazione delle Autorità indipendenti. La dottrina ha osservato che, rispetto a tale particolare categoria di controversie, la giurisprudenza si era attestata, in passato, sulla possibilità di un mero sindacato estrinseco, ossia unicamente focalizzato sui vizi di manifesta illogicità, senza vagliare il «merito» della decisione. Successivamente, grazie all'introduzione del ricorso generalizzato alla consulenza tecnica, i giudici amministrativi ritennero di poter verificare direttamente l'attendibilità delle valutazioni tecniche compiute dalle amministrazioni e della metodologia da esse seguita (c.d. «sindacato intrinseco»). La giurisprudenza si è poi interrogata sui limiti di detto sindacato intrinseco e ha valutato se esso dovesse essere «forte» (ossia tale da giungere fino alla sostituzione delle valutazioni giurisdizionali a quelle amministrative) o «debole» (cioè destinato ad arrestarsi al solo annullamento dell'atto impugnato, stante i vizi riscontrati nell'esercizio concreto della discrezionalità tecnica, ma senza alcuna sovrapposizione di valutazioni). Tale dicotomia tra sindacato forte e sindacato debole è stata però superata, in tempi recenti, dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte di cassazione che, al di là delle definizioni utilizzate, hanno concordemente messo in luce come il sindacato giurisdizionale debba sempre pieno ed effettivo e così tendere a un modello comune a livello europeo, in cui il principio di effettività della tutela giurisdizionale sia coniugato con la specificità delle controversie, e in cui sia attribuito al giudice il compito, non di esercitare un potere assegnato dalla legge a un'autorità amministrativa, ma di verificare se questo potere sia stato correttamente esercitato nel rispetto delle regole che governano l'azione amministrativa e, in particolare, di quelle che presidiano l'attività procedimentale istruttoria prodromica all'esercizio della discrezionalità tecnica.

In giurisprudenza il superamento della distinzione tra sindacato forte e debole si ebbe con la sentenza del Cons. Stato, Sez. VI, n. 6050/2014, secondo cui il sindacato del giudice amministrativo è pieno e particolarmente penetrante e può estendersi sino al controllo dell'analisi (economica o di altro tipo) compiuta dalle Autorità amministrative indipendenti. Su tale impostazione si sono trovate concordi anche le Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass.S.U.,n. 1013/2014, in materia di provvedimenti dell'Antitrust), le quali hanno affermato che il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell'Antitrust implica la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicare della legittimità del provvedimento medesimo. Tale sindacato è limitato solo quando i richiamati profili tecnici coinvolgano valutazioni e apprezzamenti che presentino un oggettivo margine di opinabilità (come nel caso della definizione di mercato rilevante nell'accertamento di intese restrittive della concorrenza); quindi, al ricorrere di tali ipotesi, il sindacato del giudice amministrativo, pur dovendo comunque svolgere un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, si arresta alla verifica che il provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello espresso dall'Antitrust. Sulla stessa linea si è attestata anche la Corte europea dei diritti dell'Uomo (CorteEdu II, n. 43509/2011, Menarini Diagnostics), secondo cui il sistema giurisdizionale amministrativo italiano non violerebbe l'art. 6 della Convenzione, in quanto, anche quando l'amministrazione dispone di un potere discrezionale, il controllo dei giudici amministrativi è di piena giurisdizione.

In questo quadro l'art. 63 c.p.a., avendo consentito al giudice amministrativo di potersi avvalere (con le sole esclusioni dell'interrogatorio formale e del giuramento) di tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, ha tendenzialmente equiparato i poteri istruttori e cognitori del giudice amministrativo a quelli del giudice civile, risolvendo in via definitiva la questione problematica (almeno in passato) della limitatezza dei mezzi probatori del giudizio amministrativo.

La richiesta di chiarimenti e documenti. L'atto pubblico

Dei mezzi di prova, come è noto, la dottrina processualistica ha elaborato varie classificazioni, sulla base di differenti criteri quali l'oggetto (prova diretta, indiretta, contraria), la natura della valutazione riservata al giudice (prova libera e legale), l'efficacia (piena, argomento di prova), la formazione prima del processo o nel giudizio (prova precostituita, costituenda), l'idoneità dimostrativa (prova storica, logica). Inoltre si è distinto tra i mezzi di prova in senso proprio e gli altri mezzi istruttori: i primi sono volti a dimostrare un fatto; i secondi, a loro volta distinti in mezzi di ricerca della prova o mezzi di valutazione della prova, rispettivamente permettono, invece, al giudice di cercare un mezzo di prova (come avviene per l'ispezione) o ricostruire l'iter logico-giuridico seguito e le valutazioni di fatti compiute dalla pubblica amministrazione ai fini dell'adozione di un provvedimento (come accade per la verificazione .

Il primo mezzo istruttorio indicato nel comma 1 dell'art. 63 c.p.a. è la richiesta di chiarimenti e di documenti che il giudice può chiedere alle parti. Il giudizio amministrativo, nonostante le novità portate dal Codice, rimane infatti un processo in cui la prova è ancora principalmente di carattere documentale, tipica prova precostituita, dal momento che l'attività amministrativa si concreta sempre in atti scritti.

La nozione di documento amministrativo (seppure ai fini dell'applicazione della disciplina sull'accesso) si rinviene nell'art. 22, comma 1, lett. d), l. 7 agosto 1990, n. 241, secondo cui il documento amministrativo è ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale.

La regola scolpita nel comma 1 dell'art. 63 c.p.a. evoca il tenore dell'art. 44, primo comma, del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato (r.d. 26 giugno 1924, n. 1054), in base al quale, quando avesse ritenuto incompleta l'istruzione dell'affare o avesse ravvisato la contraddizione tra i documenti e i fatti affermati nell'atto o provvedimento impugnato, allora il giudice (la sezione) avrebbe potuto richiedere all'amministrazione interessata nuovi schiarimenti o documenti.

La richiamata previsione del testo unico del 1924 riguardava, tuttavia, un giudizio amministrativo «sull'atto» di tipo demolitorio, ossia essenzialmente incentrato sul sindacato di legittimità del provvedimento gravato, sindacato a sua volta basato su una verifica documentale della corrispondenza tra i risultati dell'istruttoria e il contenuto dell'atto impugnato. Al giudice amministrativo la normativa processuale riconosceva, dunque, penetranti poteri inquisitori, esercitabili anche in assenza di un'iniziativa di parte.

Sarebbe errato, pertanto, ritenere che il comma 1 dell'art. 63 c.p.a. sia una mera riformulazione aggiornata del citato primo comma dell'art. 44 del testo unico del 1924. Innanzitutto, perché innovativo è il richiamo, nell'incipit del comma, dell'onere della prova a carico delle parti. Con tale enunciazione il Legislatore delegato ha inteso rimarcare che l'attuale giudizio amministrativo è ormai, a tutti gli effetti, un processo di parti, la cui fondamentale regola di funzionamento è rappresentata dal riparto dell'onere della prova tra le parti medesime. In altri termini, il giudizio amministrativo è dominato dal principio dell'impulso di parte. L'iniziativa delle parti è necessaria sia per instaurare la lite sia per il compimento dell'istruttoria, in conformità al principio dispositivo (del quale si occupa l'art. 64 c.p.a.). In questo quadro il comma 1 stabilisce altresì che il potere del giudice amministrativo di richiedere chiarimenti non è esercitabile senza limiti, ma può estrinsecarsi solo negli ambiti istruttori non riservati all'iniziativa di parte e che postulino l'adempimento del rispettivo onere della prova.

Inoltre, sebbene il potere di chiedere documenti e chiarimenti sia, come in passato, espressione di discrezionalità giurisdizionale, esso non può esercitarsi soltanto nei confronti della pubblica amministrazione, ma può riguardare tutte le parti del giudizio, necessarie o meno (ivi inclusi dunque gli interventori).

Ancora, è venuto meno il presupposto normativo consistente, secondo la precedente disciplina, nella discordanza tra i documenti istruttori e il contenuto dell'atto impugnato. Difatti, la richiesta può essere formulata ogni qualvolta il giudicante ritenga, ai fini della decisione, di dover acquisire al processo chiarimenti o documenti, anche a prescindere da un diretto collegamento con il contenuto degli atti impugnati, ferma restando l'esigenza che la richiesta medesima sia pertinente rispetto all'oggetto del giudizio e al thema probandum, siccome definiti dall'attività processuale delle parti, stante il divieto per il giudice di richiedere documenti investendo ambiti coperti dell'onere della prova oppure ultra petita partium. Ed invero, seppur postulando una valutazione discrezionale, deve ritenersi che la richiesta, da parte del giudice amministrativo, di chiarimenti e documenti, ancorché non più strettamente collegata (come avveniva nella vigenza del succitato art. 44 del r.d. n. 1054/1924) al contenuto del provvedimento gravato, incontri comunque un limite nella pertinenza rispetto all'oggetto della domanda o, più in generale, rispetto all'oggetto del contendere, stante il generale principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato di cui all'art. 112 c.p.c., applicabile anche al processo amministrativo, con il conseguente divieto per il giudice di estendere l'istruttoria a profili estranei alla controversia.

Prevede il comma 1 dell'art. 63 c.p.a. che i chiarimenti e i documenti possono essere richiesti anche d'ufficio dal giudice; sicché, a contrario, essi possono essere richiesti anche ad istanza di altre parti, quantunque tale richiesta debba intendersi come sollecitazione, non vincolante, rivolta al giudice affinché questi eserciti il suo potere acquisitivo.

L'art. 63, comma 1, c.p.a. pone alcuni problemi di coordinamento con altre previsioni codicistiche. Innanzitutto il campo di applicazione della regola dettata dal comma in esame va delimitato rispetto a quello coperto dall'analoga disciplina recata dal comma 3 dell'art. 64 c.p.a., là dove è stabilito che il giudice può disporre, anche d'ufficio, l'acquisizione di informazioni e documenti, utili ai fini del decidere, che siano nella disponibilità della pubblica amministrazione. Ebbene, nonostante le numerose somiglianze tra le due disposizioni (in ragione della natura discrezionale del potere, del suo esercizio ufficioso e della parziale identità di oggetto), esse si distinguono sia con riferimento ai soggetti destinatari della richiesta sia, come accennato, in relazione all'oggetto della medesima. Con riferimento al primo profilo, nel caso disciplinato dal comma 3 dell'art. 64 c.p.a., il potere di richiesta è esercitato genericamente nei confronti della pubblica amministrazione, ossia potenzialmente di ogni pubblica amministrazione, e non delle parti; sicché la richiesta di informazioni e documenti può essere rivolta anche ad una amministrazione pubblica, che non sia parte del giudizio, purché abbia la disponibilità del materiale informativo o documentale richiesto. Inoltre, il giudice, nell'esercizio del potere di cui al comma 3 dell'art. 64 c.p.a., può chiedere non soltanto documenti, ma anche informazioni.

Chiara è, invece, la distanza applicativa che separa il comma 1 dell'art. 63 c.p.a. dal comma 3 dell'art. 65 c.p.a. L'ordine di «esibizione» (melius, di deposito), previsto dal comma 3 dell'art. 65 c.p.a., costituisce, difatti, un provvedimento giurisdizionale ad adozione obbligatoria, ogni qualvolta l'amministrazione non abbia depositato il provvedimento impugnato e gli atri atti indicati dall'art. 46 c.p.a.

Infine la richiesta di chiarimenti e di documenti si distingue dall'ordine di esibizione dei documenti (e quanto altro ritenga necessario) prevista dal comma 2 dello stesso art. 63 c.p.a. L'ordine di esibizione (qui il termine «esibizione» è usato in senso proprio) è, difatti, uno specifico mezzo istruttorio disciplinato negli artt. 210 e ss. c.p.c., i quali, in forza del rinvio operato dal predetto comma 2, troveranno diretta applicazione nel giudizio amministrativo (v. infra). Del resto, l'ordine di esibizione può essere rivolto anche a terzi (e non solo alle parti) e può riguardare anche oggetti diversi dai documenti.

L'art. 63, comma 1, c.p.a. non chiarisce quali siano le conseguenze dell'eventuale ingiustificata inottemperanza delle parti rispetto a una richiesta di documenti o di chiarimenti. È lecito ipotizzare che, trattandosi di una condotta contraria al principio di leale collaborazione (o di cooperazione) desumibile dall' art. 2, comma 2, c.p.a., il giudice amministrativo possa trarre da siffatta inerzia argomenti di prova, valutabili a norma dell'art. 64, comma 4, c.p.a.

Si è sopra accennato che, nel concetto di documenti, rientrano tutte le rappresentazioni grafiche o fotografiche, peraltro ormai (ossia a seguito dell'entrata in vigore del processo amministrativo telematico) acquisibili al fascicolo processuale unicamente su supporto informatico (digitale). Il giudice può richiedere ogni genere di documenti e, quindi, sia scritture private, sia provvedimenti amministrativi (ulteriori e diversi rispetto a quelli impugnati), sia atti pubblici in senso stretto, assistiti cioè da fede pubblica privilegiata a norma degli artt. 2699 e 2700 c.c.

I chiarimenti sono, a loro volta, documenti, giacché si tratta, di norma, di relazioni scritte, volte a precisare alcuni aspetti della controversia. Nella prassi, peraltro, accade frequentemente che il giudice richieda alle parti «documentati chiarimenti», ossia relazioni corredate dalla documentazione di supporto.

Un elemento naturale del provvedimento giurisdizionale con il quale venga disposta una richiesta di chiarimenti è la fissazione di un termine per la loro produzione. Il giudice difatti onera la parte, che abbia la disponibilità dei documenti o che sia nella condizione di poter fornire i chiarimenti, di adempiere all'incombente entro un termine stabilito con lo stesso provvedimento recante la richiesta. La previsione di un termine è funzionale all'esigenza di assicurare la continuità del giudizio e la sua ragionevole durata (come sopra ricordato, l'eventuale, ingiustificata inosservanza di un termine imposto a una delle parti può essere valutata dal giudice amministrativo come argomento di prova).

Tra i documenti un posto di particolare rilievo occupano, rispettivamente, l'atto pubblico e la scrittura privata.

Con riguardo all'atto pubblico gli artt. 2699 e 2700 c.c. prevedono che l'atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato e che esso fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. A differenza, dunque, della scrittura privata che fa piena prova, fino a querela di falso, della sola provenienza delle dichiarazioni da chi l'abbia sottoscritta (a condizione, peraltro, che colui contro il quale la scrittura sia stata prodotta ne abbia riconosciuto la sottoscrizione ovvero che quest'ultima sia da considerarsi legalmente come riconosciuta).

La parte contro la quale siano stati prodotti scritture private, se intende privare di efficacia i relativi documenti, ha l'onere del disconoscimento, negando formalmente la propria scrittura o la propria sottoscrizione, altrimenti la scrittura prodotta in giudizio si ha per riconosciuta (artt. 214,215 c.p.c.).

Inoltre non va dimenticato che talora legge richiede la forma scritta per la validità (forma scritta ad substantiam) o per la prova dell'atto (forma scritta ad probationem). In tali casi la produzione dell'atto pubblico o della scrittura privata è un elemento costitutivo della fattispecie legale o l'unico modo per provarne l'esistenza (sicché nemmeno potrà operare il principio di non contestazione di cui all'art. 64, comma 2, c.p.a.).

Con riferimento a una specifica categoria di documenti, va infine segnalato che, in base all'art. 45, comma 4, c.p.a., il ricorrente ha l'onere di depositare l'atto impugnato, sebbene l'eventuale inadempimento non comporti alcuna decadenza; tale regola processuale si spiega alla luce del comma 2 del successivo art. 46 c.p.a. che impone all'amministrazione, anche se non costituita, di produrre l'eventuale provvedimento impugnato (deposito che il giudice può ordinare a norma dell'art. 65, comma 3, c.p.a.).

L'ordine di esibizione. La controversa applicazione dell'art. 213 c.p.c. al giudizio amministrativo

Il comma 2 dell'art. 63 c.p.a. prevede che il giudice, anche d'ufficio, possa ordinare, pure ai terzi, di esibire in giudizio i documenti e quant'altro ritenga necessario. L'esibizione è ordinata dal giudice quando la parte non produca documenti o altre cose, ritenuti dal giudice necessari ai fini della decisione della causa, che siano nella disponibilità della stessa parte o di un terzo, ossia di un soggetto differente dalle parti in causa. Nella prima ipotesi l'ordine di esibizione può anche far seguito a una richiesta di documenti che sia rimasta inottemperata, qualora il giudice reputi che la produzione del documento (o di altra res) sia comunque necessaria per la decisione della controversia, non potendo supplire a tale scopo il solo ricorso agli argomenti di prova.

Per la disciplina dello specifico mezzo istruttorio la norma rinvia espressamente al codice di procedura civile e, quindi, agli artt. 210, 211, 212 e 213 c.p.c.

In ogni caso l'ordine di esibizione non riguarda il provvedimento impugnato, posto che la produzione di esso è, come sopra accennato, espressamente disciplinata dagli artt. 65, comma 3, e 46, comma 2, c.p.a.

Il codice di procedura civile detta, a proposito dell'esibizione, le seguenti regole:

- essa può essere disposta negli stessi limiti entro i quali può essere ordinata l'ispezione;

- occorre sempre un'istanza di parte;

- può riguardare documenti o altre cose di cui il giudice ritenga necessaria l'acquisizione al processo;

- il giudice, nell'ordinare lo specifico mezzo istruttorio, deve dare i provvedimenti opportuni circa il tempo, il luogo e il modo dell'esibizione;

- se l'esibizione comporta una spesa questa dovrà essere anticipata dalla parte che abbia richiesto il mezzo istruttorio;

- quando l'esibizione sia ordinata a un terzo, il giudice (, il giudice istruttore nel processo civile) deve cercare di conciliare nel miglior modo possibile l'interesse della giustizia con il riguardo dovuto ai diritti del terzo, e prima di ordinare l'esibizione può disporre che il terzo sia citato in giudizio, assegnando alla parte istante un termine per provvedervi; il terzo, peraltro, può sempre fare opposizione contro l'ordinanza di esibizione, intervenendo nel giudizio prima della scadenza del termine assegnatogli;

- il giudice (istruttore) può disporre che, in sostituzione dell'originale, si esibisca una copia anche fotografica o un estratto autentico del documento;

- nell'ordinare l'esibizione di libri di commercio o di registri al fine di estrarne determinate partite, il giudice, su istanza dell'interessato, può disporre che siano prodotti estratti, per la formazione dei quali nomina un notaio e, quando occorre, un esperto affinché lo assista.

Altre previsioni in materia di esibizione, che del pari debbono reputarsi implicitamente richiamate dal comma 2 dell'art. 63 c.p.a., si rinvengono negli artt. 94 e 95 disp. att. c.p.c., secondo cui:

- l'istanza di esibizione di un documento o di una cosa in possesso di una parte o di un terzo deve contenere la specifica indicazione del documento o della cosa e, quando è necessario, l'offerta della prova che la parte o il terzo li possiedano;

- il giudice, nell'ordinanza con la quale dispone l'esibizione di un documento o di una cosa in possesso di una parte contumace o di un terzo, fissa il termine entro il quale l'ordinanza deve essere notificata e indica la parte che deve provvedere alla notificazione.

Sebbene, come ricordato, il comma 2 dell'art. 63 c.p.a. rinvii direttamente alle riferite disposizioni del codice di procedura civile, deve nondimeno ritenersi che esse debbano trovare applicazione con i necessari adattamenti alla natura e alla struttura del processo amministrativo. In primo luogo, infatti, lo stesso comma 2 stabilisce che l'esibizione può essere ordinata dal giudice anche d'ufficio e, dunque, non è indispensabile, come nel rito civile, l'istanza di parte, ancorché questa, se formulata e accolta dal giudice amministrativo, deve essere proposta nel rispetto dell'art. 94 disp. att. c.p.c. Nel processo civile il giudice può poi richiedere d'ufficio soltanto le informazioni scritte alla pubblica amministrazione a norma dell'art. 213 c.p.c., ma l'applicabilità di quest'ultima previsione al giudizio amministrativo è controversa (v. infra). Inoltre, e soprattutto, nel giudizio amministrativo non esiste la figura del giudice istruttore, ma l'adozione dei provvedimenti istruttori è di competenza del presidente della sezione, o di un magistrato da questi delegato (art. 65, comma 1, c.p.a.), o di norma del collegio.

Sebbene l' art. 210 c.p.c. stabilisca che il giudice possa disporre l'esibizione «negli stessi limiti nei quali può essere ordinata... l'ispezione di cose», nondimeno tra i due strumenti probatori non esiste un collegamento funzionale, posto che l'esibizione, come sopra osservato, è strumentale all'acquisizione, al giudizio, di materiale cognitorio, mentre, per definizione, l'ispezione è finalizzata a far acquisire al giudice la conoscenza di una res che non possa essere acquisita al processo nella sua materialità (si pensi a un immobile) o quando un'acquisizione del genere risulterebbe molto difficile. L'illustrata differente finalità dell'esibizione rispetto all'ispezione spiega anche perché la seconda non abbia, di norma, ad oggetto documenti (i quali in originale o in copia possono essere sempre acquisiti al materiale cognitorio del processo).

Onde scongiurare l'abuso del ricorso all'ordine di esibizione e tenuto conto della sua invasività delle sfere giuridiche dei destinatari, il ricordato art. 94 disp. att. c.p.c. precisa che la relativa istanza di parte debba indicare in modo specifico, nei limiti del possibile, la res exhibenda e, per le medesime ragioni, specifico deve essere anche il contenuto motivo del relativo ordine giurisdizionale.

Analogamente l'istanza di parte (ma pure il provvedimento del giudice) deve esplicitare, sia pur succintamente e anche sulla base di presunzioni (specialmente quando il documento o la cosa della cui esibizione di tratti siano presso terzi), le ragioni della ritenuta esistenza e disponibilità della res exhibenda presso il soggetto indicato, si tratti di una delle parti o di un terzo.

Soprattutto il giudice amministrativo, nell'ordinare l'esibizione, deve motivare sulla necessità di essa, ossia sulla indispensabilità del documento o della cosa da acquisire per conoscere i fatti della causa, così come recita l'art. 118 c.p.c.

Nel citato art. 118 c.p.c. si rinvengono anche i limiti entro i quali il giudice può ordinare l'esibizione; in particolare, essa è consentita purché possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo e senza costringerli a violare uno dei segreti previsti dal codice di procedura penale, ora contemplati dagli artt. 200 (segreto professionale), 201 (segreto d'ufficio) e 202 (segreto di Stato) c.p.p.

Per quanto riguarda le conseguenze dell'inottemperanza dell'ordine di esibizione occorre distinguere tra la parte e il terzo. Nel primo caso, ancorché l'art. 210 c.p.c. nulla stabilisca (e tanto meno l'art. 63 c.p.a.), deve ritenersi che il giudice possa trarre argomenti di prova dal contegno omissivo tenuto dalla parte rimasta inadempiente rispetto all'ordine di esibizione. Indicazioni in tal senso possono ricavarsi sia dall'art. 118 c.p.c. sia dall'art. 64, comma 4.

Diversamente, qualora sia il terzo a rimanere inerte, il giudice non potrà far ricadere sulle parti le conseguenze processuali di una condotta di un soggetto estraneo alla causa. Deve allora concludersi che la sanzione per il terzo esuli dal giudizio amministrativo, atteso che il principio di stretta legalità in materia punitiva esclude che possa estendersi all'ipotesi dell'inottemperanza all'ordine di esibizione la sanzione pecuniaria prevista dall'ultimo comma dell'art. 118 c.p.c. per il rifiuto opposto all'ispezione. Sicché deve ritenersi che il terzo inadempiente, quando si tratti di un privato, possa semmai andare incontro a sanzioni penali per non aver ottemperato a un ordine dato per ragioni di giustizia (art. 650 c.p.), oltre ad incorrere nella possibile responsabilità civile per il danno causato alla parte che sia rimasta soccombente nel giudizio esclusivamente a causa dell'omissione del terzo medesimo.

Se, invece, il terzo inadempiente sia una persona fisica che rivesta la qualità di pubblico ufficiale, non può escludersi che nei suoi confronti, oltre alla responsabilità civile, possa configurarsi anche quella penale per rifiuto od omissione di atti d'ufficio a norma dell'art. 328, primo comma, c.p.

Qualora, invece, la parte o il terzo inadempiente sia una pubblica amministrazione, nel giudizio amministrativo si aprono spazi per il ricorso alla figura del commissario ad acta onde consentire al giudice di sostituirsi all'amministrazione, eventualmente rimasta inadempiente, a norma dell'art. 21 c.p.a.

Nulla osta al trapianto nel processo amministrativo della disciplina, contenuta nell' art. 211 c.p.c., sulla chiamata in causa del terzo e sull'intervento volontario di quest'ultimo, contemplandosi entrambe queste possibilità, rispettivamente, in base agli artt. 50 e 51 c.p.a.

Sebbene il codice di procedura civile includa, nella disciplina dedicata all'ordine di esibizione, anche l'art. 213 c.p.c., è tuttavia dubbio che tale disposizione possa trovare applicazione nel giudizio amministrativo. Non si rinviene, difatti, nell'art. 63, comma c.p.a., un aggancio convincente ai fini di tale applicazione, dal momento che ivi è richiamata unicamente la disciplina dettata dagli artt. 210 e ss. c.p.c. e che l'art. 213 c.p.c. si apre con la previsione della sua applicazione al di fuori dei casi di cui agli artt. 210 e 211 c.p.c. Inoltre la tesi contraria all'inclusione, nel rinvio operato dal comma 2, anche dell'art. 213 c.p.c. poggia sul forte argomento, di ordine sistematico, rappresentato dal disposto del comma 3 dell'art. 64 c.p.a., previsione di maggiore latitudine applicativa rispetto alla richiamata disposizione del codice di procedura civile. Il comma 3 dell'art. 64 c.p.a., invero, contempla anche l'attivazione dello specifico strumento istruttorio su istanza di parte (e non soltanto d'ufficio come l'art. 213 c.p.c.) e riguarda, dal punto di vista soggettivo, sia la pubblica amministrazione che sia parte nel processo sia le pubbliche amministrazioni estranee al giudizio; mentre è prevalente l'orientamento secondo il quale la richiesta a norma dell'art. 213 c.p.c. non possa essere indirizzata all'amministrazione che sia parte in causa.

L'ispezione

Il comma 2 dell'art. 63 c.p.a. stabilisce che il giudice possa disporre l'ispezione a norma dell'art. 118 c.p.c. Tale articolo prevede che il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire sulla loro persona o sulle cose in loro possesso (il concetto di «possesso» al quale si riferisce l'art. 118 c.p.c. va intenso nel senso lato di disponibilità materiale del bene da ispezionare) le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti della causa, purché ciò possa compiersi senza grave danno e senza costringerli a violare uno dei segreti previsti dal codice di procedura penale (ossia nei richiamati negli artt. i 200,201 e 202 c.p.p.; v. supra). L'art. 118 c.p.c. sanziona l'eventuale rifiuto ingiustificato della parte in via endoprocessuale, dal momento che il giudice può desumere dal rifiuto argomenti di prova; il rifiuto del terzo, invece, espone quest'ultimo a una pena pecuniaria da euro 250 a euro 1.500. Completano la disciplina, oltre al succitato art. 94 disp. att. c.p.c., gli artt. 93 e 95 disp. att. c.p.c., applicabili anche al giudizio amministrativo, secondo i quali, rispettivamente, chi sia sottoposto ad ispezione corporale può farsi assistere da persona di sua fiducia che sia riconosciuta idonea e il giudice, nell'ordinanza con la quale abbia disposto l'esibizione di un documento o di una cosa in possesso di una parte non costituita in giudizio o di un terzo, fissa il termine entro il quale l'ordinanza deve essere notificata, indicando la parte che debba provvedere alla notificazione.

All'ispezione il codice di procedura civile dedica anche gli artt. 258, 259, 260, 261 e 262 c.p.c. È dubbia l'integrale applicabilità di tali disposizioni al processo amministrativo, dal momento che il comma 2 dell'art. 63 c.p.a. rinvia espressamente soltanto all' art. 118 c.p.c. e che tale rinvio diretto può essere esteso, al più, alle norme di attuazione del medesimo art. 118 c.p.c.; inoltre gli articoli da 258 a 262 c.p.c. sono conformati sulla figura del giudice istruttore (assente nel giudizio amministrativo), disciplinandone i relativi poteri in sede di ispezione. Sicuramente, tuttavia, trova applicazione anche nel processo amministrativo, il disposto dell'art. 259 c.p.c., secondo cui all'ispezione deve procedere il giudice personalmente e che, quando occorra, possa farsi assistere da un consulente tecnico (il quale può essere delegato anche per l'ispezione corporale, in caso in cui il giudice si astenga da tale atto). Vale nel giudizio amministrativo anche l'ulteriore regola in base alla quale l'eventuale ispezione corporale deve essere effettuata osservando ogni cautela diretta a garantire il rispetto della persona (art. 260 c.p.c.).

Come si è sopra accennato e come rivela l'origine latina del termine, l'ispezione consiste nell'osservazione diretta, da parte del giudice, di cose, persone o luoghi: essa viene disposta, pertanto, quando ai fini del decidere sia necessaria una percezione immediata e un apprezzamento diretto della fonte di prova da parte del giudicante e, comunque, nelle evenienze in cui gli oggetti da ispezionare, costituenti fonti di prova, non siano altrimenti acquisibili al processo. Diversamente dall'ordine di esibizione, l'ispezione può riguardare anche persone.

Stabilisce l'art. 118 c.p.c. che l'ispezione possa essere disposta dal giudice solo quando essa risulti indispensabile per conoscere i fatti della causa ossia quando detti fatti non possano essere conosciuti esattamente se non ricorrendo all'ispezione: della sussistenza di tale indispensabilità – rigoroso requisito giustificato dall'invasività dello specifico mezzo istruttorio - il giudice dovrà dar motivatamente conto nell'ordinanza che disponga l'ispezione. Nella medesima ordinanza il giudice dovrà anche adottare le misure idonee a non causare grave danno alla parte o al terzo: orbene l'art. 118 c.p.c., escludendo implicitamente che l'ispezione possa essere disposta allorquando la sua esecuzione rischi di cagionare un grave danno ai soggetti interessati, altrettanto implicitamente ammette che gli stessi soggetti possano subire, a causa dell'ispezione, un qualche pregiudizio, purché questo non superi la soglia di una normale tollerabilità, soglia quest'ultima che sarà il giudice a individuare sulla base del principio di solidarietà. L'ispezione rimane comunque un mezzo istruttorio invasivo e, quindi, ad essa il giudice può far ricorso a condizione che siano esattamente determinati la circostanza o il fatto da provare attraverso di essa: deve, pertanto, reputarsi preclusa un'ispezione che abbia finalità esplorative o che travalichi l'ambito delle allegazioni delle parti.

Nonostante il rinvio all' art. 118 c.p.c. operato dalla previsione in esame, va osservato che si registrano pochissimi casi in cui il giudice amministrativo abbia ordinato ispezioni. A queste, comunque, nel processo amministrativo si può provvedere anche conferendo un apposito incarico a un verificatore (tranne che per l'ispezione personale) o un consulente tecnico, atteso che il comma 4 della disposizione in esame prevede che detti ausiliari (v. infra) possano essere utilizzati ogni volta in cui il giudice reputi necessario l'accertamento di fatti e, quindi, anche quando tale accertamento postuli il compimento di un'ispezione.

La prova testimoniale in forma scritta

L'introduzione in via generalizzata della prova testimoniale nel processo amministrativo marca indubbiamente un progresso, essendone stata estesa l'utilizzabilità anche in sede di giurisdizione di legittimità; sotto altro aspetto, tuttavia, la disciplina codicistica della testimonianza registra un arretramento, là dove si stabilisce che essa debba essere assunta necessariamente in forma scritta, nonostante la Corte costituzionale, fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, abbia ammesso l'escussione dei testimoni nei giudizi sul pubblico impiego (controversie rientranti nella giurisdizione esclusiva). Prima dell'entrata in vigore del Codice, difatti, l'ammissibilità della prova testimoniale era esclusa nell'ambito della giurisdizione di legittimità, ma consentita nell'ambito della giurisdizione di merito e di quella esclusiva (quanto meno, dapprima, in relazione alle liti in materia di pubblico impiego e poi in tutte le liti rientranti nell'alveo di detta giurisdizione). In particolare, va segnalato che la Corte cost., con la sentenza n. 251/1989, ritenne infondata la questione di costituzionalità sollevata in relazione alla mancata previsione della prova testimoniale nel processo amministrativo di legittimità; mentre la stessa Corte, con la sentenza n. 146/1987, estese alle controversie in materia di pubblico impiego (ricadenti, come testé ricordato, entro i confini della giurisdizione esclusiva) gli altri mezzi di prova previsti per il processo dinanzi al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro. Anche il Consiglio di Stato, prima dell'entrata in vigore del Codice, si era espresso nel senso della inammissibilità anche della testimonianza scritta nel processo amministrativo (Cons. Stato, Sez. IV, n. 3772/2004; Cons. Stato, Sez. V, n. 350/2004).

Il comma 3 dell'art. 63 c.p.a. prevede oggi che, su istanza di parte, il giudice amministrativo possa ammettere la prova testimoniale, la quale, tuttavia, deve sempre essere assunta in forma scritta. La testimonianza è la tipica prova (dichiarativa) costituenda e consiste, per l'appunto, in dichiarazioni, rese da un soggetto terzo rispetto alle parti in lite, in merito alla conoscenza dei fatti del processo.

La norma è molto innovativa, posto che introduce la possibilità per le parti di avvalersi della prova testimoniale (seppure necessariamente da assumere in forma scritta) in qualunque tipo di controversia rientrante nella giurisdizione amministrativa (ivi incluse le liti sulle operazioni elettorali).

Nonostante tale significativa apertura, l'ammissibilità della prova testimoniale è stata nondimeno sottoposta dal Codice a condizioni molto rigorose, le quali denotano una qual sorta di diffidenza del Legislatore delegato per lo specifico mezzo istruttorio. Innanzitutto, a) essa può essere richiesta esclusivamente da una delle parti (pur non occorrendo l'accordo, come invece stabilito dall' art. 257-bis c.p.c.). Inoltre, b) il giudice «può» ammetterla, o no, ossia il giudice dispone di un'ampia discrezionalità in ordine all'ammissione della prova testimoniale. Ancora, c), la prova testimoniale deve essere unicamente assunta in forma scritta (mentre tale forma di assunzione non è imposta nel rito civile), secondo le regole al riguardo stabilite dal codice di procedura civile. Quest'ultima condizione è stata inserita, all'evidenza, in ossequio alla tradizionale concezione del giudizio amministrativo come processo documentale (non essendo stato recepito il principio dell'oralità, vigente nel giudizio civile).

Le riferite condizioni, nel loro insieme, obiettivamente non agevolano il ricorso alla testimonianza scritta e, non a caso, il mezzo istruttorio non ha goduto fino ad oggi di una grande fortuna applicativa.

In merito alla residualità della prova testimoniale rispetto agli altri mezzi di prova si è d'altronde pronunciato il Consiglio di Stato (Cons. Ststo, Sez. VI, n. 1522/2014), secondo cui detto mezzo istruttorio, ora ammesso dall' art. 63, comma 3, c.p.a. nel processo amministrativo di legittimità - essenzialmente documentale, perché incentrato sulla domanda di tutela dell'interesse legittimo a fronte di un procedimento amministrativo (cfr. Corte cost., n. 251/1989) -, costituisce un'extrema ratio per consentire al giudice di formarsi un convincimento sui fatti storici rilevanti al fine della decisione.

Il rinvio al codice di procedura civile, contenuto nel comma 3 della disposizione in commento, deve intendersi effettuato agli artt. 257-bis c.p.c. e all'art. 103-bis disp. att. c.p.c., aggiunti, rispettivamente, dagli artt. 46 e 52 della l. 18 giugno 2009, n. 69.

Dal combinato disposto di dette due previsioni si ricava il seguente quadro di regole, applicabili al giudizio amministrativo in materia di testimonianza scritta:

- il giudice, su istanza di parte, può disporre di assumere la deposizione chiedendo al testimone di fornire, per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato;

- il giudice, con il medesimo provvedimento, ordina che la parte che abbia richiesto l'assunzione del mezzo istruttorio predisponga il modello di testimonianza in conformità agli articoli di prova (quesiti) ammessi e lo faccia notificare al testimone;

- il testimone, a sua volta, dovrà rendere la deposizione compilando il modello di testimonianza in ogni sua parte, con risposta separata a ciascuno dei quesiti, e precisando quali siano quelli cui non è in grado di rispondere, indicandone la ragione;

- il testimone sottoscriverà la deposizione, apponendo la propria firma autenticata su ciascuna delle facciate del foglio di testimonianza, e poi la spedirà in busta chiusa con plico raccomandato o la consegnerà alla cancelleria del giudice;

- quando il testimone si avvalga della facoltà d'astensione, ha comunque l'obbligo di compilare il modello di testimonianza, indicando le complete generalità e i motivi di astensione;

- qualora il testimone non spedisca o non consegni le risposte scritte nel termine stabilito, potrà essere condannato dal giudice alla pena pecuniaria di cui all' art. 255, primo comma, c.p.c.;

- nella sola ipotesi in cui la testimonianza abbia ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti, essa può essere resa mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della parte nel cui interesse la prova sia stata ammessa, senza necessità di compilare il modello sopra menzionato. Si tratta, insomma, di una «testimonianza scritta semplificata», relativa unicamente ai documenti di spesa (fatture, preventivi, ecc.), già depositati agli atti dalle parti e per i quali è, dunque, sufficiente una mera conferma del testimone.

Non si ravvisano ragioni per escludere l'applicazione anche al processo amministrativo dell'ultimo comma dell' art. 257-bis c.p.c. , in base al quale il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui (o davanti al giudice delegato); diversamente opinando si perverrebbe a un'interpretazione non costituzionalmente orientata, atteso che, in passato, la Corte costituzionale ammise comunque la possibilità per il giudice amministrativo di disporre, nell'ambito della giurisdizione esclusiva, di tutti i mezzi istruttori del giudice civile e, dunque, anche della testimonianza «in presenza».

L'art. 103-bis c.p.c. dispone che la testimonianza scritta sia resa su di un modulo conforme al modello approvato con decreto del Ministro della giustizia, che individui anche le istruzioni per la sua compilazione, da notificare unitamente al modello. Il modello, sottoscritto in ogni suo foglio dalla parte che ne ha curato la compilazione, deve contenere, oltre all'indicazione del procedimento e dell'ordinanza di ammissione da parte del giudice procedente, idonei spazi per l'inserimento delle complete generalità del testimone, dell'indicazione della sua residenza, del suo domicilio e, ove possibile, di un suo recapito telefonico. Deve altresì contenere: a.) l'ammonimento del testimone, ai sensi dell' art. 251 c.p.c., e la formula del giuramento di cui al medesimo articolo, oltre b.) all'avviso della facoltà di astenersi ai sensi degli artt. 200,201 e 202 c.p.p., con lo spazio per la sottoscrizione obbligatoria del testimone, nonché c.) le richieste di cui all' art. 252, primo comma, c.p.c., ivi compresa l'indicazione di eventuali rapporti personali con le parti, e d.) la trascrizione dei quesiti ammessi, con l'avvertenza che il testimone deve rendere risposte specifiche e pertinenti a ciascuna domanda e deve altresì precisare se abbia avuto conoscenza dei fatti oggetto della testimonianza in modo diretto o indiretto. Al termine di ogni risposta è apposta, di seguito e senza lasciare spazi vuoti, la sottoscrizione da parte del testimone. Le sottoscrizioni devono essere autenticate da un segretario comunale o dal cancelliere di un ufficio giudiziario.

La testimonianza scritta, in mancanza della sottoscrizione del testimone, sarà radicalmente invalida e inutilizzabile.

Il modello di testimonianza scritta e le istruzioni per la sua compilazione sono stati approvati con il decreto del Ministro della giustizia del 17 febbraio 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 1° marzo 2010, n. 49.

Dall'introduzione dello strumento della testimonianza scritta si sarebbe potuta trarre la conseguenza dell'inammissibilità della produzione, nel giudizio amministrativo, di dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà, a firma di terzi (talvolta utilizzate, soprattutto nei giudizi elettorali), atteso che la giurisprudenza amministrativa, in più occasioni, ebbe a considerare tali dichiarazioni come forme surrettizie di aggiramento del divieto della prova testimoniale. Al riguardo il C.g.a.r.s. 13 giugno 2013, n. 581 aveva difatti osservato che, in seguito al riconoscimento dell'ammissibilità della testimonianza scritta — il cui contenuto, seppur liberamente valutabile dal giudicante, è comunque assistito da particolari garanzie di attendibilità derivanti dalla responsabilità penale prevista dall'ordinamento per chiunque affermi, in un giudizio, il falso —, nessun particolare rilievo probatorio, tantomeno ai fini della sollecitazione dell'esercizio dei poteri ufficiosi del giudicante, si sarebbe potuto attribuire a una dichiarazione scritta, ove pure resa nelle forme sostitutive di atto di notorietà, atteso che una dichiarazione del genere, ancor più che in passato, avrebbe assunto il valore di un'inammissibile forma surrettizia di testimonianza. Sennonché, sul punto, è intervenuta l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 32/2014, ha diversamente statuito. Segnatamente l'Alto Consesso ha affermato che è incompatibile con il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale e lesiva del principio di proporzionalità, la tesi in base alla quale la produzione in giudizio di un principio di prova debba essere ammessa esclusivamente nelle forme sacramentali destinate alla formazione di un atto, di valore giuridico compiuto e autosufficiente, qual è la prova per testimoni. Sebbene, invero, sia innegabile che l'introduzione della testimonianza scritta abbia privato di fondamento quello che è stato l'argomento tranciante utilizzato dalla giurisprudenza contraria alla dichiarazione sostitutiva, ossia l'esclusione della testimonianza dal novero dei mezzi di prova ammessi nel processo amministrativo, nondimeno, una volta caduto tale ostacolo, e ammesso, quindi, che le dichiarazioni di soggetti terzi a conoscenza di fatti rilevanti possano trovare ingresso nel processo costituendo principio di prova, la testimonianza e la dichiarazione sostitutiva dell'atto notorio, entrambe garantite, sia pure nella diversa entità della pena, dalla eventuale responsabilità per reati di falso, assumono una rilevanza probatoria sostanzialmente equivalente.

Per la testimonianza scritta valgono, ovviamente, i medesimi limiti di ammissibilità di quella orale. Sicché si deve ritenere che, anche nel giudizio amministrativo:

- la prova per testimoni dei contratti non sia ammissibile quando il valore dell'oggetto ecceda l'importo di euro 2,58, ancorché l'autorità giudiziaria possa comunque ammettere la prova oltre il limite anzidetto, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza (art. 2721 c.c.);

- la prova per testimoni non sia ammissibile quando essa abbia per oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i quali si alleghi che la stipulazione sia stata anteriore o contemporanea ( art. 2722 c.c.); nel caso, invece, di patti, posteriori alla formazione di un documento, aggiunti o contrari al contenuto di quest'ultimo, il giudice potrà consentire la prova per testimoni soltanto se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e a ogni altra circostanza, appaia verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali ( art. 2723 c.c.);

- la prova per testimoni non sia ammissibile (art. 2725 c.c.) se relativa all'oggetto di contratti che debbano avere la forma scritta ad substantiam o ad probationem (per legge o per volontà delle parti), a meno che, in questo secondo caso, il contraente interessato alla prova abbia, senza colpa, perso il documento;

- la prova per testimoni è, peraltro, ammessa in ogni caso:

1) quando vi sia un principio di prova per iscritto, costituito da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato;

2) quando il contraente sia stato nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta;

3) quando il contraente abbia, senza sua, colpa perduto il documento che gli forniva la prova (art. 2724 c.c.).

Analogamente, anche per la testimonianza scritta, valgono le regole in materia di obbligo e di facoltà di astensione. In particolare, hanno l'obbligo di astenersi: i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio su fatti conosciuti per ragioni del loro ufficio che la legge stabilisce che debbano rimanere segreti, salvi i casi in cui la legge stessa preveda l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria, nonché su fatti che in forza di una specifica disposizione di legge siano coperti dal segreto di Stato.

Possono invece astenersi dal testimoniare:

a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano;

b) gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai;

c) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria;

d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosca la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale;

e) i giornalisti professionisti iscritti nell'albo professionale.

La verificazione e la consulenza tecnica

Il riconoscimento generalizzato del potere del giudice amministrativo di disporre una consulenza tecnica anche nell'ambito della giurisdizione di legittimità, risalente all'art. 16 della l. n. 205/2000 (che modificò l'art. 44 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054), segnò una svolta significativa dell'ordinamento processuale amministrativo, concorrendo a dare un forte impulso a quel processo evolutivo del sindacato giurisdizionale (del quale si è dato conto; v. supra) nella direzione di un maggiore e più penetrante controllo sul corretto esercizio della discrezionalità tecnica da parte della pubblica amministrazione. Un potere di diretto accesso al fatto, di intensità pressoché analoga a quella consentita dalla consulenza tecnica, è offerto anche dalla verificazione, tipico e antico mezzo istruttorio del giudizio amministrativo che il Codice ha, per molti aspetti, conformato ai principi del «giusto processo».

Il comma 3 dell'art. 63 c.p.a. stabilisce che il giudice amministrativo, quando reputi necessario l'accertamento di fatti o l'acquisizione di valutazioni che richiedano particolari competenze tecniche, possa ordinare l'esecuzione di una verificazione o, se indispensabile, possa disporre una consulenza tecnica.

Sia il verificatore sia il consulente tecnico sono ausiliari del giudice, tenuti alle stesse condizioni di terzietà, e ne integrano le conoscenze specialistiche (con riferimento a tali figure si rinvia ai commenti degli artt. 19 e 20 c.p.a.).

La verificazione e la consulenza tecnica d'ufficio non sono mezzi di prova in senso stretto, ma consistono piuttosto, almeno di norma, in mezzi di valutazione, sotto il profilo tecnico, del materiale probatorio già acquisito al giudizio. La verificazione poi è, come accennato, un istituto tipico del processo amministrativo e la principale differenza (tra le molte) rispetto alla consulenza tecnica è rappresentata dalla circostanza che le indagini, nel caso della verificazione, sono delegate dal giudice amministrativo a un organismo pubblico, ossia a un plesso amministrativo, dotato di particolari competenze tecniche, siccome stabilisce l'art. 19, comma 2, c.p.a. Sotto altro profilo la consulenza tecnica, meglio della verificazione, si presta alla valutazione dei fatti; alla verificazione, invece, i giudici amministrativi fanno sovente ricorso quando abbiano bisogno di un accertamento tecnico di fatti.

Sulla natura dei due mezzi istruttori, quali strumenti per la valutazione del materiale probatorio già acquisito, si è espressa la concorde giurisprudenza della Cassazione (per tutte, Cass. S.U., n. 10794/2015, secondo cui la verificazione, come la consulenza tecnica d'ufficio, è mezzo di valutazione della prova) e del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. V, n. 879/2015). Va, però, segnalato che specialmente la giurisprudenza civile mostra di aver recepito la distinzione tra consulenza c.d. «deducente» e consulenza c.d. «percipiente» (su cui v. infra), secondo cui (Cass. civ., sez. L, n. 1149/2011) la consulenza tecnica può costituire fonte oggettiva di prova quando si risolva nell'accertamento di situazioni rilevabili solo con l'ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche.

L'orientamento del Consiglio di Stato si rivela invece più cauto, ammettendosi, al più, che la consulenza possa costituire un mezzo di ricerca della prova. L'Alto Consesso ha, difatti, affermato (Cons. Stato, Sez. V, n. 2181/2017) che la consulenza tecnica d'ufficio non costituisce un mezzo di prova ma, al più, di ricerca della prova (c.d. consulenza tecnica percipiente), avente la funzione di fornire al giudice i necessari elementi di valutazione quando la complessità sul piano tecnico-specialistico dei fatti di causa impedisca una compiuta comprensione (c.d. consulenza tecnica deducente), ma non anche la funzione di esonerare la parte dagli oneri probatori sulla stessa gravanti. Si è anche soggiunto (Cons. Stato n. 675/2015) che le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente tecnico d'ufficio neppure nel caso di consulenza cosiddetta «percipiente», con la quale si demandi al consulente l'accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento delle loro pretese.

Nel Codice la disciplina della verificazione e della consulenza tecnica d'ufficio è distribuita tra i richiamati artt. 19 e 20 c.p.a., dedicati ai profili soggettivi dei due istituti (ossia all'individuazione delle categorie di ausiliari nominabili e alle cause di incompatibilità dei medesimi ausiliari), l'art. 63 (che stabilisce quando i due mezzi istruttori possano essere disposti), l'art. 65, comma 2, c.p.a. (che riserva al collegio la competenza all'adozione dei relativi provvedimenti) e gli artt. 66 e 67 c.p.a. (rispettivamente dedicati ai profili procedurali dei due mezzi istruttori).

Sebbene il Codice abbia chiaramente compiuto la scelta di assimilare i due mezzi istruttori sul versante del relativo regime giuridico (in riferimento alla competenza esclusiva del collegio a disporli con ordinanza e alla tendenziale identità della disciplina delle incompatibilità dei due ausiliari del giudice), nondimeno tra la verificazione e la consulenza permangono molte differenze sia con riguardo alla natura soggettiva degli ausiliari (organismi pubblici per la verificazione, dipendenti pubblici, consulenti iscritti negli albi dei tribunali civili o esperti nel caso della consulenza), alla configurazione dei relativi subprocedimenti (molto più improntato al rispetto del principio del contraddittorio quello della consulenza tecnica) e anche ai profili funzionali, posto che, pur trattandosi in entrambi i casi di strumenti di indagine assai versatili, la consulenza, come accennato, è maggiormente utilizzata per il compimento di valutazioni tecniche, mentre alla verificazione si fa ricorso per effettuare accertamenti che postulino talune conoscenze tecniche. Al riguardo va osservato che, sebbene l'art. 63, comma 4, c.p.a. non distingua tra consulenza tecnica e verificazione con riferimento all'oggetto delle indagini delegabili alle due figure di ausiliari (posto che la disposizione menziona indistintamente l'accertamento di fatti e l'acquisizione di valutazioni), tuttavia tale approdo esegetico non si presenta coerente con i caratteri strutturali e funzionali dei due mezzi istruttori. Non può, invero, reputarsi che esista una piena fungibilità tra i due strumenti a disposizione del giudice. La circostanza che le verificazioni siano comunque affidate a un soggetto appartenente alla pubblica amministrazione (e, quindi, più «vicino» a una delle parti in causa) induce, invero, a prediligere la soluzione secondo cui all'organismo verificatore debbano essere prevalentemente affidate indagini che presentino un minor tasso di opinabilità, ossia in relazione alle quali siano minori i margini della discrezionalità valutativa e maggiore l'oggettività delle possibili risposte. In altri termini, la verificazione si presta meglio all'accertamento tecnico di fatti già acquisiti, mentre la consulenza si attaglia all'espressione di un giudizio, ossia alla valutazione sotto un profilo tecnico degli stessi fatti. Riguardata da questa prospettiva la consulenza tecnica consente al giudice amministrativo di compiere un sindacato più approfondito sulla discrezionalità tecnica esercitata dalla pubblica amministrazione.

Si è sopra ricordato che, in giurisprudenza, è riconosciuta la distinzione – condivisa anche dalla dottrina - tra la consulenza deducente, che ricorre quando al consulente sia affidato il compito di valutare fatti esistenti e provati, e la consulenza percipiente, nei casi in cui il consulente non solo sia chiamato a valutare fatti, ma anche a dimostrarne in qualche misura l'esistenza (sebbene le parti non siano esonerate dall'onere della prova). Al riguardo, più in dettaglio, la Cassazione (Cass., Sez. III, n. 6155/2009) ha affermato che il giudice può affidare al consulente non solo l'incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal caso è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l'accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche. In termini, anche Cass., Sez. III, n. 27002/2005, in base alla quale il giudice può affidare al consulente tecnico anche l'incarico di accertare i fatti stessi (consulente percipiente) e, in questa evenienza, la consulenza costituisce essa stessa fonte di prova.

Il comma 3 dell'art. 63 c.p.a. (al pari dell'art. 19, comma 1) sembra accordare una preferenza alla verificazione rispetto alla consulenza tecnica, posto che il giudice potrebbe disporre quest'ultima soltanto «se indispensabile».

La dottrina ritiene, tuttavia, che l'inciso «se indispensabile» debba essere inteso nel senso che il giudice possa, in linea di massima, utilizzare indifferentemente entrambi i mezzi istruttori, sebbene debba ricorrere alla consulenza tecnica quando lo richieda la particolarità della materia. D'altra parte, una differente lettura, nel senso cioè della subvalenza della consulenza rispetto alla verificazione avrebbe il significato di un regresso della normativa processuale amministrativa atteso che il ricorso generalizzato alla consulenza tecnica nel giudizio amministrativo risale, come accennato, all'art. 16 della l. n. 205/2000. Al contrario, secondo altra parte della dottrina, l'inciso «se indispensabile» rivelerebbe l'esistenza di un ambito precluso alle verificazioni e che riguarderebbe le ipotesi in cui al giudice amministrativo sia richiesto un sindacato penetrante ed effettivo sul «fatto», ossia una verifica diretta sull'attendibilità delle operazioni e delle valutazioni tecniche compiute dalla pubblica amministrazione.

L'art. 63 c.p.a. conferma che la scelta di ordinare una verificazione o una consulenza tecnica d'ufficio è una prerogativa del giudice e, in particolare, del collegio, rispetto alla quale le eventuali richieste delle parti possono assumere soltanto il valore di mere sollecitazioni, non sussistendo alcun obbligo per il giudicante di accogliere le suddette richieste.

Dalla considerazione di siffatta ampia discrezionalità del giudice amministrativo nel disporre la consulenza tecnica e la verificazione la giurisprudenza ha tratto la conclusione che nemmeno sia sindacabile il provvedimento con il quale siano stati ordinati, o no (respingendo cioè una richiesta di parte), gli specifici mezzi istruttori, a meno che esso non si sia tradotto in una illogicità della successiva decisione. In tal senso è l'indirizzo del Cons. Stato, Sez. V, n. 3773/2014, secondo cui il giudice di merito dispone di un'ampia sfera di apprezzamento discrezionale sull'opportunità di disporre la consulenza tecnica di ufficio e, quindi, la scelta se avvalersene, o no, è sindacabile solo entro limiti molto circoscritti. In particolare, può ridondare sulla validità della sentenza il provvedimento di rigetto di un'istanza volta a ottenere consulenza tecnica (ma il principio vale anche per la verificazione) quando la parte abbia indicato e motivato le ragioni dell'indispensabilità del relativo accertamento. In tal senso anche la Suprema Corte ha avuto modo di affermare (Cass., Sez. I, n. 10007/2008) che il principio secondo il quale il provvedimento che disponga (o no) la consulenza tecnica rientra nel potere discrezionale del giudice di merito ed è quindi incensurabile, va contemperato con quello in base al quale il giudice stesso deve sempre motivare adeguatamente la decisione adottata, non potendo detto giudice rifiutare sic et simpliciter o con mere argomentazioni di stile la richiesta di disporre una consulenza tecnica.

Sussistono, tuttavia, due precisi limiti, uno di carattere processuale e un altro di natura sostanziale, al potere del giudice di ordinare una consulenza tecnica o una verificazione: il primo vincolo è rappresentato dalle regole sull'onere di allegazione dei fatti e sulla distribuzione dell'onere della prova (attraverso la consulenza tecnica o la verificazione il giudice non può infatti eludere l'applicazione del principio dispositivo, indebitamente agevolando una delle parti). Il secondo limite è costituito dall'oggetto della consulenza tecnica o della verificazione che non può mai consistere nella richiesta di reperire o di interpretare la normativa rilevante nel caso da decidere. Questa, infatti, è un'attività riservata al giudice e non delegabile (fatta eccezione per il diritto straniero, ai sensi dell'art. 14, comma 1, della l. 31 maggio 1995, n. 218, secondo cui, per l'accertamento della legge straniera, il giudice può anche interpellare esperti o istituzioni specializzate). Sarebbero, invece, soltanto superflue (e, dunque, eventualmente disposte in violazione del principio di ragionevole durata del giudizio) una verificazione o una consulenza tecnica che avessero ad accertamento circostanze di fatto o esiti di valutazione non in contestazione tra le parti.

Anche il giudice amministrativo, al pari del giudice civile, ha comunque la possibilità di disattendere le risultanze di una consulenza o di una verificazione, qualora gli esiti delle indagini affidate agli ausiliari poggino su accertamenti non adeguati o su motivazioni intimamente contraddittorie oppure quando il giudice sostituisca ad esse altre argomentazioni. In ogni caso il giudice ha solo l'onere di un'adeguata motivazione del difforme convincimento. Secondo Cons. St. IV n. 4947/2015 vige, infatti, anche nel nostro ordinamento il principio del judex peritus peritorum.

Il rinvio ai mezzi di prova previsti dal c.p.c. L'esclusione dell'interrogatorio formale e del giuramento

Il comma 5 dell'art. 63 c.p.a. reca una previsione di fondamentale importanza sistematica, contenendo un rinvio generalizzato alla possibilità di assumere, nell'ambito del giudizio amministrativo, tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile. Ancorché la norma risulti impropriamente formulata (giacché, nella sistematica codicistica, i mezzi di prova sono disciplinati dal codice civile – fatta eccezione per la sola ispezione —, mentre il codice di procedura di civile contiene esclusivamente la disciplina della loro ammissione e assunzione), nondimeno il comma in esame segna l'approdo di una progressiva evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinale convergente nella direzione di una maggiore «civilizzazione» del processo amministrativo, anche con riferimento alla sua fase istruttoria, come riflesso della parallela trasformazione del giudizio amministrativo da «processo all'atto» in «processo sul rapporto».

Dal punto di vista normativo le tappe fondamentali di tale percorso furono, oltre all'art. 16 della legge n. 2015/2000 (in tema di consulenza tecnica), le sentenze della Corte cost. n. 146/1987 e n. 251/1989, nonché l'art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 80/1998, con il quale introdusse, seppur nel solo alveo della giurisdizione esclusiva, una previsione analoga a quella dell'attuale comma 5 dell'articolo in esame.

Con la citata sentenza n. 146/1987 la Corte costituzionale dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 7, primo comma, della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, nella parte in cui – nelle controversie di pubblico impiego dello Stato e degli enti, riservate alla giurisdizione esclusiva amministrativa – la citata disposizione non consentiva l'esperimento dei medesimi mezzi istruttori previsti per il processo del lavoro.

L'esclusione dell'interrogatorio formale e del giuramento nel giudizio amministrativo è una regola risalente nel tempo e ritenuta coerente con l'impianto del processo amministrativo come processo essenzialmente documentale. A tale originaria giustificazione (ormai non più convincente) si affianca la spiegazione, più sofisticata, secondo cui l'esclusione riposa sulla indisponibilità, per le parti, degli interessi legittimi, fronteggiando tali situazioni giuridiche soggettive poteri pubblici autoritativi; sotto altro aspetto, si è sostenuto che, stante il loro carattere di prova legale, l'interrogatorio formale (prodromico alla confessione giudiziale) e il giuramento sarebbero inconciliabili con la libertà di apprezzamento del giudice amministrativo (così il T.A.R. Lombardia, (Milano) III, n. 904/2011, ord., su cui v. infra).

Va però segnalato che la giurisprudenza amministrativa, pur escludendo l'ammissibilità dell'interrogatorio formale, ha precisato che il divieto della prova confessoria, contenuto nell'art. 63, comma 5, c.p.a. afferisce unicamente alla confessione giudiziale (alla quale va peraltro assimilata la confessione stragiudiziale resa alla parte), ma non anche alla confessione stragiudiziale resa a terze persone, che rimane, invece, liberamente valutabile dal giudice e, dunque, ammissibile anche nel processo amministrativo (T.A.R. Aosta I, n. 71/2011).

Sviluppando tale principio giurisprudenziale deve allora ritenersi ammissibile anche l'eventuale confessione resa spontaneamente da una delle parti, anche nel corso dell'interrogatorio libero (v, infra); analogamente è a dirsi per le affermazioni di carattere confessorio eventualmente contenute nei documenti prodotti dalle parti o negli scritti difensivi, stante anche il principio di non contestazione.

L'accertamento tecnico preventivo

Fortemente dibattuta in passato era la possibilità di esperire nel giudizio amministrativo un accertamento tecnico preventivo, disciplinato dall' art. 696 c.p.c., secondo cui chi ha urgenza di far verificare, prima del giudizio, lo stato di luoghi o la qualità o la condizione di cose, può chiedere, tra l'altro, all'autorità giudiziaria di disporre un accertamento tecnico (ma anche un'ispezione giudiziale).

La finalità dell'istituto è quella di compiere un'attività istruttoria onde scongiurare il pericolo della dispersione della prova prima che la parte interessata attivi un giudizio e durante il lasso temporale necessario all'instaurazione del processo. Presupposto essenziale per la esperibilità dello specifico mezzo istruttorio è la sussistenza di un'urgenza concreta di far verificare, ante causam, lo stato dei luoghi, ovvero la qualità o la condizione di una cosa. Si tratta, dunque, di un mezzo processuale tipicamente preordinato, attesa la sua valenza preventiva e conservativa, all'anticipazione del momento di acquisizione della prova e che, quindi, è intimamente connesso a un successivo giudizio di merito (nel quale in via ordinaria dovrebbe assumersi la prova richiesta).

L'esperibilità dell'accertamento tecnico preventivo nel giudizio amministrativo è stata riconosciuta dal Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. IV, n. 5769/2011), che – oltre ad aver riconosciuto la natura cautelare dell'istituto – ne ha anche ammesso espressamente l'esperibilità nel rito amministrativo, in virtù del comma 5 dell'art. 63 c.p.a. che, per l'appunto, richiama tutti i mezzi di prova del codice di procedura civile, con esclusione dell'interrogatorio formale e del giuramento. Qualora non sia stata accolta in primo grado, la domanda di accertamento tecnico preventivo ai sensi dell'art. 696 c.p.c. può essere riproposta in appello (Cons. Stato, Sez. VI, n. 5521/2018, ord.).

La dichiarata ammissibilità dell'accertamento tecnico preventivo ha indotto la dottrina a interrogarsi sull'esperibilità, nel giudizio amministrativo, di altri istituti di istruttoria preventiva, propri del rito civile. In particolare, la riflessione si è soffermata sulla consulenza tecnica preventiva, di cui all' art. 696-bis c.p.c. Al riguardo, si è affermato che, in mancanza di pronunce giurisprudenziali espresse, un eventuale inquadramento di tale istituto nell'ambito della disciplina cautelare, sarebbe difficoltoso in quanto la consulenza tecnica preventiva (ai fini della conciliazione della lite) non condivide i caratteri cautelari degli altri mezzi di istruzione preventiva.

L'interrogatorio libero

Si è sopra ricordato che il comma 5 dell'art. 63 c.p.a. esclude dal novero dei mezzi di prova esperibili nel giudizio amministrativo l'interrogatorio formale, volto a ottenere la confessione di una parte.

Il Codice non contiene, invece alcun accenno all'interrogatorio non formale o «libero» delle parti, disciplinato dall' art. 117 c.p.c., secondo cui il giudice, in qualunque stato e grado del processo, ha facoltà di ordinare la comparizione personale delle parti in contraddittorio tra loro per interrogarle liberamente sui fatti della causa, assistite (facoltativamente) dai rispettivi difensori.

L'interrogatorio libero non è un mezzo di prova, ma è uno strumento, connotato dalla oralità e nella esclusiva disponibilità del giudice, che assolve a una funzione di chiarificazione e di precisazione dei fatti della causa e delle difese delle parti. Attraverso l'esperimento dell'interrogatorio libero, infatti, il giudice può meglio comprendere le circostanze rilevanti della controversia e le parti hanno l'occasione, grazie al contatto con il giudice, di spiegare più accuratamente e senza formalità alcuni aspetti del contenzioso; tale opportunità, nel giudizio amministrativo, si rivela di particolare utilità nelle liti in cui debba essere sindacata la ragionevolezza di provvedimenti dall'elevato contenuto tecnico (quali, ad esempio, gli atti delle Autorità indipendenti di regolazione). Nondimeno dalle risposte e dai comportamenti delle parti in occasione dell'interrogatorio libero il giudice può anche trarre argomenti di prova.

Le principali caratteristiche dell'interrogatorio libero riguardano la discrezionalità che ha il giudice nel disporlo, sicché l'eventuale richiesta di una delle parti in tal senso avrebbe soltanto il valore di una sollecitazione rivolta al giudice, e dovendo assicurarsi il contraddittorio tra le parti o, almeno, la possibilità di un contraddittorio tra le stesse, è necessario che le parti sia convocate congiuntamente, ai fini della loro comparizione personale per rendere l'interrogatorio non formale.

Le parti possono anche farsi rappresentare da un procuratore speciale, con poteri di transigere e di conciliare, che si sottoponga all'esame in luogo della parte interessata; tale regola è particolarmente utile nel caso del giudizio amministrativo, in cui la parte resistente è una pubblica amministrazione.

Il merito di aver valorizzato il ricorso all'interrogatorio libero nel processo amministrativo va riconosciuto al T.A.R. per la Lombardia, sede di Milano (ordinanza della sez. III, n. 904/2011) che ha analizzato l'utilità, le caratteristiche e i limiti dell'istituto. In particolare, il tribunale lombardo ha chiarito che le dichiarazioni rese in sede d'interrogatorio libero assumono un ruolo probatorio «suppletivo» e «indiziario», non potendo le risposte date nel corso del suo svolgimento avere valore di confessione né potendo le stesse essere apprezzate in modo isolato quali elementi di piena prova; piuttosto la loro deduzione fornisce al giudice motivi sussidiari di convincimento per corroborare o disattendere le prove già acquisite al processo. Pur con i predetti limiti, l'interrogatorio libero costituisce un importante ausilio alla chiarificazione e precisazione delle allegazioni di fatto contenute negli scritti defensionali, soprattutto nelle controversie in cui solo il «contatto» tra il giudice e le parti possa fornire indispensabili elementi «sensitivi» di convincimento ai fini del riscontro e della valutazione delle prove (in specie, documentali) già acquisite. Il colloquio informale, altresì, può consentire al giudice di comprendere in maniera più esauriente i termini reali delle operazioni economiche e dei meccanismi tecnici celati dietro il linguaggio specialistico utilizzato, facilitando allo stesso tempo l'espunzione dal thema probandum dei fatti non oggetto di specifica contestazione e per i quali il deducente può essere esonerato ab onere probandi.

Infine, il T.a.r. per la Lombardia ha soggiunto che il rinvio al codice di procedura civile, effettuato dal comma 5 dell'art. 63 c.p.a., deve ritenersi indirizzato anche all'interrogatorio libero delle parti la cui ammissibilità, oltre a non essere preclusa dal carattere formale dell'attività amministrativa procedimentale, come si desume dall'ammissibilità della testimonianza scritta e dalla possibilità del giudice di desumere argomenti di prova anche dal comportamento delle parti nel corso del processo (art. 64, comma 4), si impone sia in considerazione della pari dignità delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte (pari dignità che impone di evitare disparità di tutela sul terreno probatorio tra la sede giurisdizionale ordinaria e quella amministrativa) sia in ossequio al principio di parità delle parti (art. 2 c.p.a.), concretizzando così la facoltà anche per la parte privata di fornire chiarimenti (non a caso l' art. 63, comma 1, c.p.a. riferisce il potere del giudice di chiedere chiarimenti «alle parti»).

Su queste stesse posizioni si è attestato anche il Consiglio di Stato che, nella sentenza, III, n. 1069/2012, ha affermato che l'interrogatorio libero (che – si ripete - non costituisce un mezzo di prova, ma solo uno strumento di possibile convincimento del giudice di natura sussidiaria, in particolare laddove le dichiarazioni di parte trovino riscontro in altri elementi di prova) è compatibile con la funzione e la struttura del processo amministrativo e, dunque, esso può essere disposto dal giudice pure in difetto di una specifica previsione normativa.

Le presunzioni

L'onere della prova è oggetto di una regola, di carattere generale, fissata da una norma di rango primario (in ossequio alla riserva di legge in materia processuale); è quindi possibile che il Legislatore con altre norme primarie stabilisca, in relazione a determinate fattispecie, una differente distribuzione tra le parti dell'onere della prova. Ciò si verifica allorquando il Legislatore preveda una presunzione (legale), ossia quando ritenga che l'esistenza di un fatto noto costituisca prova dell'esistenza di diverso fatto (ignoto) sulla base di un collegamento logico tra i due fatti. Secondo quanto recita l'art. 2727 c.c., le presunzioni legali sono le conseguenze che la legge trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto. Notoriamente le presunzioni legali (si tratterà infra di quelle giurisprudenziali e di quelle semplici) sono relative o assolute: solo le prime, a differenza delle seconde, ammettono la prova contraria. Da ciò discende che, mentre le presunzioni legali relative danno luogo effettivamente a una modifica (non necessariamente un'inversione) dell'ordinario riparto dell'onere della prova, al contrario le presunzioni assolute, nella sostanza, non hanno nulla a che fare con la materia della prova, dal momento che esse consistono in un modo particolare di descrivere la fattispecie sostanziale. Più in particolare, l'art. 2728, primo comma, c.c. stabilisce che le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite. In pratica, il Legislatore, per varie ragioni (ad esempio, sulla base di una valutazione fondata sull'id quod plerumque accidit), attraverso la previsione di una presunzione legale relativa, esonera una parte dall'onere (che su di essa altrimenti graverebbe ai sensi dell' art. 2697 c.c.) di provare un fatto, potendo la stessa parte limitarsi ad allegarlo; il fatto da provare, insomma, si ritiene dimostrato ex lege, salvo la controparte riesca a fornire la prova contraria ad essa spettante (secondo un criterio di allocazione dell'onere probatorio che deroga al regime ordinario). Interferendo sulla regola di giudizio dettata dall'art. 2697 c.c., deve ritenersi che pure la disciplina delle presunzioni legali attenga, per l'appunto, al diritto sostanziale.

Si è sopra accennato che la regola di giudizio sull'onere della prova, al pari delle norme recanti presunzioni legali, è stabilita da norme di rango primario. Accade, tuttavia, non infrequentemente che la giurisprudenza introduca surrettiziamente inversioni dell'onere della prova e ciò avviene, di solito, sulla base della considerazione delle conseguenze derivanti dall'applicazione di consolidati indirizzi esegetici o quando, sempre sulla base di costanti orientamenti pretori, i giudici ritengano, in applicazione di tralatizie presunzioni semplici, che dall'esistenza di un fatto noto debba indursi (più che «dedursi», come erroneamente talora si afferma) la prova di un diverso fatto (ignoto). Si parla, in genere, in questi casi di presunzioni giurisprudenziali. Un esempio celebre di presunzione giurisprudenziale creata dai giudici amministrativi, ancorché in qualche modo imposta da alcune decisioni della Corte di giustizia dell'Unione europea, riguarda la prova della responsabilità civile della pubblica amministrazione nel caso di illegittime procedure di affidamento di contratti (sul punto si rinvia al commento dell'art. 64 c.p.a.).

Una modifica delle regole del riparto dell'onere della prova in via giurisprudenziale può realizzarsi indirettamente anche attraverso il mutamento in via esegetica della qualificazione giuridica di un istituto: può accadere, ad esempio, che un tipo di responsabilità, dapprima reputata di natura extracontrattuale o ascrivibile a titolo di colpa, sia successivamente qualificata dalla giurisprudenza come contrattuale oppure oggettiva. In questo modo, invero, una volta cambiata la qualificazione, muta anche il relativo regime della prova.

Diverse dalle presunzioni legale e quelle giudiziarie sono, infine, le presunzioni semplici (c.d. presunzioni hominis), tipiche prove critiche (o logiche o indirette), alle quali è dedicato l' art. 2729 c.c., secondo cui il giudice, secondo il suo prudente apprezzamento, può ritenere provato un fatto sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, ossia sulla base di un procedimento logico di tipo inferenziale (procedimento logico che il giudice dovrà spiegare nella motivazione della decisione), attraverso il quale il giudice muovendo dalla conoscenza di uno o più fatti (secondari), ossia da indizi provati, noti o non contestati, può risalire, applicando massime di esperienza o di leggi scientifiche o statistiche di copertura, alla conoscenza di un diverso fatto (primario) ignoto.

In questo senso si è espresso anche il Supremo Collegio (Cass., Sez. III, n. 2431/2004), secondo cui le presunzioni semplici consistono nel ragionamento del giudice, il quale, una volta acquisita, tramite fonti materiali di prova (o anche tramite il notorio o a seguito della non contestazione), la conoscenza di un fatto secondario, deduce (rectius, induce) da questo l'esistenza del fatto principale ignoto.

A ben vedere le presunzioni semplici non interferiscono direttamente sulla regole in materia di riparto dell'onere della prova e attengono, invece, al diverso profilo della valutazione, da parte del giudice, dei mezzi istruttori acquisiti al giudizio, ossia pertengono ai profili applicativi del principio del prudente apprezzamento della prova da parte del giudice (v. l'art. 64, comma 4, c.p.a.) e, quindi, alla strutturazione del ragionamento decisorio e ai limiti in cui, secondo il Legislatore, detto ragionamento possa esser ritenuto valido ed epistemologicamente corretto.

La giurisprudenza amministrativa fa sovente ricorso alle presunzioni semplici per dimostrare la sussistenza di illecite intese anticoncorrenziali. Il Consiglio di Stato (Sez. VI, n. 5864/2009) ha, ad esempio, affermato, in tema di intese vietate, che la prova della esistenza e della durata di esse deve essere fornita dall'Autorità garante per la concorrenza ed il mercato in modo rigoroso e che, a tal fine, possono anche essere utilizzate le presunzioni semplici (dall'Antitrust, ma anche dal giudice amministrativo), purché fondate su indizi gravi, precisi e concordanti.

Perché il ragionamento inferenziale sia validamente formato occorre che il giudice ponga alla base di esso concreti fatti indizianti che presentino i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza. La gravità implica che, secondo le massime di esperienza o le leggi scientifiche utilizzate, il fatto secondario nella disponibilità del giudice costituisca un indice di elevata probabilità (non della certezza) o di verisimiglianza di esistenza di un fatto primario.

Sulla gravità delle presunzioni il Supremo Collegio (Cass., sez. lav., n. 2632/2014) ha statuito che, per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida, non occorre che l'esistenza del fatto ignoto rappresenti l'unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla scorta della regola della inferenza necessaria), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'id quod plerumque accidit, in virtù della regola dell'inferenza probabilistica.

La precisione dei fatti indizianti consiste nella determinatezza o univocità di essi, ossia nella coerente (ancorché non assoluta) valenza esegetica degli stessi fatti.

Maggiori difficoltà interpretative ha sollevato il requisito della concordanza che condurrebbe ad escludere la sufficienza di un solo elemento di carattere presuntivo. Sennonché tale requisito non è stato ritenuto determinante: in particolare, si è ritenuto sufficiente, per fondare una valida presunzione, anche un solo elemento indiziario purché grave e preciso e che, tuttavia, nel caso in cui il giudice ponga a fondamento del ragionamento decisorio più elementi presuntivi, allora questi devono essere valutati nel loro complesso e devono anche concordare, cioè convergere verso una coerente conclusione inferenziale.

Così la Cassazione (Cass., sez. trib., n. 17574/2009; Cass., Sez. I, n. 19088/2007), secondo cui, in tema di presunzioni semplici, gli elementi assunti a fonte di prova non debbono essere necessariamente più d'uno, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su di un solo elemento purché grave e preciso, dovendo il requisito della «concordanza» ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale, ma non necessario concorso di più elementi presuntivi.

Sul piano dell'efficacia, se correttamente formate e motivate, le presunzioni semplici costituiscono prova piena, non inferiore agli altri mezzi di prova (tenuto conto che, nel giudizio amministrativo, non sono ammesse prove legali diverse dall'atto pubblico).

Il principio della pienezza della prova basata su presunzioni semplici è stato enunciato dalla Corte di cassazione (Cass., Sez. III, n. 2394/2008), secondo cui la prova per presunzioni costituisce prova completa, alla quale il giudice del merito può legittimamente ricorrere, anche in via esclusiva, nell'esercizio del potere discrezionale istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, non esistendo una gerarchia di tali fonti, e fatto comunque salvo il dovere del giudicante di motivare il proprio convincimento.

Anche nel giudizio amministrativo la prova presuntiva va incontro ai limiti stabiliti dal secondo comma dell'art. 2729 c.c., ossia essa non può validamente formarsi nei casi in cui la legge escluda la prova per testimoni (ora ammessa anche nel giudizio amministrativo e pure nell'ambito della giurisdizione di legittimità; v. supra).

Della prova presuntiva si è occupata anche l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Ed invero, nella sentenza n. 2/2017, l'Adunanza plenaria ha ribadito che, per la configurazione di una presunzione giuridicamente rilevante, non occorre che l'esistenza del fatto ignoto rappresenti l'unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame logico di necessarietà assoluta ed esclusiva (ossia sulla base della regola della inferenza necessaria), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'id quod plerumque accidit (in virtù della regola della «inferenza probabilistica»), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici.

La querela di falso

Uno dei limiti all'attività istruttoria del giudice amministrativo è previsto, come sopra accennato, dall'art. 8 c.p.a. che, nel comma 2, ribadisce un limite tradizionale alla giurisdizione amministrativa, rappresentato dall'impossibilità, per il giudice amministrativo, di conoscere, anche in via incidentale, delle questioni relative alla capacità delle parti di stare in giudizio, nonché dell'incidente di falso.

Siffatta preclusione, con particolare riferimento all'incidente di falso, risulta particolarmente incisiva, soprattutto in relazione ai processi elettorali i quali – oltre ad essere caratterizzati da una marcata celerità (essendo intuibile l'esigenza di una loro rapida definizione) – spesso hanno al centro del contendere questioni che implicano un controllo giurisdizionale sulla veridicità di taluni atti o di elementi di essi (specialmente delle firme dei candidati).

Stante l'impossibilità, per i giudici amministrativi, di conoscere incidentalmente le questioni di falso, accade non infrequentemente che i giudizi relativi a tali liti debbano essere sospesi in attesa della definizione della pregiudiziale di falsità, riservata alla cognizione in via principale del giudice ordinario.

Onde ovviare a tale situazione, il Consiglio di Stato, con l'ordinanza della Sezione Quinta n. 1000/2011, sollevò una questione di legittimità costituzionale; in particolare, l'Alto Consesso amministrativo ritenne rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 8, comma 2, 77 e 126-131 e dell'art. 2700 c.c., in riferimento agli artt. 24, 76, 97, 103, 111, 113 e 117 Cost., nella parte in cui tali disposizioni riservano al giudice ordinario la definizione dei giudizi di accertamento della falsità di atti pubblici, mediante la speciale procedura della querela di falso e la preclusione per il giudice amministrativo dell'accertamento, anche solo incidentale, di detta falsità, preclusione quest'ultima che costituisce un limite particolarmente intenso nei giudizi, quale è quello elettorale, caratterizzati da una tempistica estremamente serrata.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 304/2011, reputò, tuttavia, infondata la questione avendo affermato che la riserva al giudice civile dell'incidente di falso risponde all'esigenza di assicurare una sede e un modello processuale unitari, in modo da evitare il rischio di contrastanti pronunce e il ricorso a modelli variegati di accertamento, dipendenti dalle specificità dei procedimenti all'interno dei quali simili questioni pregiudicanti possano intervenire. Secondo l'opinare della Corte, i valori fondamentali della certezza e della speditezza del traffico giuridico potrebbero risultare, infatti, non adeguatamente assicurate ove l'accertamento sulla autenticità dell'atto fosse rimesso ad un mero incidente, risolto all'interno di un determinato procedimento giurisdizionale, senza che tale verifica abbia effetti giuridici al di là delle parti e dell'oggetto dello specifico procedimento.

I mezzi di prova atipici

In ragione del rinvio effettuato dal comma 5 dell'art. 63 c.p.a. ai «mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile», si pone il problema dell'ammissibilità nel giudizio amministrativo delle c.d. «prove atipiche», ossia dei mezzi di prova non disciplinati dal codice di procedura civile o assunti con modalità difformi da quelle stabilite dal medesimo codice di rito. Il problema è stato risolto in senso positivo dalla giurisprudenza (ossia a favore dell'ammissibilità delle prove atipiche), stanti i molti esempi di mezzi istruttori appartenenti a tale novero. Si è già accennato alle dichiarazioni sostitutive di atto notorio rese da soggetti terzi rispetto alle parti in lite (v. supra) e, in aggiunta, possono essere ricordate anche le perizie di parte o stragiudiziali o, ancora, le prove assunte in un diverso giudizio amministrativo o in processi differenti da quello amministrativo. Tali soluzioni, elaborate dalle prassi curiali, sono d'altronde coerenti con i principi generali del processo amministrativo, presidiato, in materia istruttoria, dal libero convincimento del giudice o, come recita l'art. 64, comma 4, c.p.a. dal suo prudente apprezzamento. Un corollario di tale principio concerne, infatti, la possibilità che il giudice amministrativo ritenga dimostrato un fatto sulla base di un mezzo istruttorio provvisto di idonea capacità dimostrativa, ancorché non disciplinato espressamente dalle leggi processuali. Del resto, il catalogo dei mezzi di prova previsti dal codice di rito (e, quindi, anche dal codice del processo amministrativo) non è chiuso e, in più, esso si presenta sensibilmente condizionato dall'evoluzione tecnologica. Gli unici limiti alla possibilità di decidere una controversia sulla base di prove atipiche vanno ravvisati nella necessaria dimostrazione argomentativa, da parte del giudice (nella motivazione del provvedimento che abbia disposto l'ammissione e l'assunzione di una prova atipica o che su di essa abbia fondato una decisione), della idoneità probatoria del mezzo istruttorio atipico e nel divieto di assumere prove illecite (ossia contrarie a espresse preclusioni stabilite dalla legge), fermo restando l'obbligo, per il giudicante, di far sì che pure il mezzo di prova atipico sia assunto nel contraddittorio tra le parti. Non è, peraltro, vietata l'utilizzabilità, purché sulla base di una specifica valutazione giurisdizionale, anche di mezzi di prova, non già illeciti, ma illegittimamente acquisiti (ossia senza il rispetto delle regole procedurali di volta in volta previste), vigendo anche nel giudizio amministrativo il principio sintetizzato dal brocardo male captum bene retentum.

In tema di prove atipiche il Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. IV, n. 3838/2016) ha recentemente affermato che l'art. 11, comma 6, c.p.a. ha cristallizzato un principio giurisprudenziale risalente nel tempo, in forza del quale le prove raccolte in processi svoltisi dinanzi a giudici successivamente riconosciuti privi della potestas iudicandi, assumono la consistenza di argomenti di prova rientrando fra le c.d. prove atipiche soggette a rigorose condizioni di valutazione (v. anche Cass., Sez. II, n. 5440/2010) e ciò anche in base al principio secondo il quale il potere del giudice di libera valutazione delle prove ai sensi dell'art. 116 c.p.c. non consente allo stesso di attribuire efficacia probatoria esaustiva e vincolante a indizi o argomenti di prova.

Per quanto riguarda le prove assunte in un diverso processo il Consiglio di Stato ha affermato (Cons. Stato, Sez. IV, n. 4120/2012) che, in mancanza di un divieto di legge e in ossequio al principio di atipicità delle prove, il giudice amministrativo può legittimamente utilizzare, anche come fonte esclusiva del proprio convincimento, le prove raccolte in un giudizio penale conclusosi con una sentenza non ancora divenuta irrevocabile, a condizione che gli elementi probatori, così acquisiti, siano sottoposti a un autonomo vaglio critico da parte del giudice amministrativo.

Le richieste di prova di cui agli artt. 40 e 46 c.p.a.

In linea con il principio dispositivo in materia di prova e con le regole sul riparto dell'onere probatorio, gli artt. 40, comma 1, lett. e), e 46, comma 1, c.p.a. prevedono, rispettivamente, che il ricorrente e le parti intimate debbano indicare, fin dal momento della loro costituzione in giudizio e nei relativi atti, i mezzi di prova di cui intendano avvalersi. L'art. 46, in particolare, distingue tra «mezzi di prova» e «documenti», atteso che, per i primi, è stabilito soltanto un onere di indicazione (nelle memorie di costituzione delle parti intimate), mentre per i secondi si prescrive l'immediata produzione.

Il procedimento e la forma dei provvedimenti istruttori. Cenni

I provvedimenti istruttori assumono, di regola, la forma dell'ordinanza, a prescindere dall'organo collegiale o monocratico (presidente di sezione o magistrato delegato) che in concreto li adotti. Converge verso tale conclusione il combinato disposto degli artt. 33, comma 1, lett. b), e 36, comma 1, c.p.a. secondo cui il giudice pronuncia ordinanza quando assume misure interlocutorie e in tutti i casi in cui non definisca nemmeno in parte il giudizio. D'altronde, negli artt. 65, comma 2, 66 e 67, c.p.a. il provvedimento con il quale il collegio dispone una verificazione o una consulenza tecnica d'ufficio è espressamente qualificato come ordinanza. Può però accadere che il provvedimento istruttorio sia contenuto all'interno di una sentenza e ciò si verifica quando il giudice decida solo in parte la controversia, adottando al contempo provvedimenti istruttori. Non va dimenticato che l'istruttoria può esser svolta anche in sede cautelare. In questo caso i relativi provvedimenti avranno sempre la forma dell'ordinanza qualora essi siano adottati dal collegio; potrebbero invece assumere, non invalidamente, anche la forma del decreto là dove adottati dal presidente del tribunale o della sezione prima della trattazione della domanda cautelare (a norma dell'art. 56) o ante causam (secondo quanto previsto dall'art. 61).

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