La Consulta spiega la ratio della restituzione degli atti al P.M. in caso di mancata contestazione dell'aggravante
17 Novembre 2022
Le censure del giudice a quo. La pronuncia in commento trae origine dalla questione di legittimità costituzionale dell'art. 521, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice disponga con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero quando accerta che risulta una circostanza aggravante non oggetto di contestazione. In sostanza, il rimettente sollecita una pronuncia additiva della Corte costituzionale, per effetto della quale il giudice dovrebbe essere tenuto alla restituzione degli atti al pubblico ministero, non solo quando risulti che il fatto sia “diverso” da quello contestato, ma anche quando risulti dagli atti una circostanza aggravante non contestata dal pubblico ministero.
Il giudice a quo dubita della compatibilità di tale disciplina con gli artt. 3 e 112 Cost.: sotto il primo profilo, l'impossibilità di procedere alla restituzione degli atti al pubblico ministero nel caso in cui emerga una circostanza aggravante non contestata avrebbe l'effetto di ricondurre casi meno gravi a un regime sanzionatorio più pesante di quello riservato a casi di pari gravità o addirittura più gravi; sotto il secondo profilo, il principio di obbligatorietà dell'azione penale non dovrebbe intendersi limitato agli elementi essenziali del fatto, ma dovrebbe riguardare anche gli elementi circostanziali, tenuto conto dell'incidenza che la loro presenza o assenza ha sul complessivo trattamento sanzionatorio.
Il diritto vivente. Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, la disposizione censurata non abiliterebbe il giudice alla restituzione degli atti al pubblico ministero allorché dagli atti emerga la sussistenza di una circostanza aggravante non contestata, risultando l'eventuale provvedimento di restituzione in tale ipotesi addirittura abnorme (cfr. Cass. pen., n. 25882/2015, n. 30498/2011 e n. 31446/2008). La premessa ermeneutica da cui muove il rimettente – relativa all'impossibilità di estendere la disciplina dettata per il fatto “diverso” all'ipotesi del fatto connotato da una circostanza aggravante non contestata dal pubblico ministero – è, quindi, conforme al diritto vivente.
Parimenti, è innegabile che la soluzione consacrata dal diritto vivente possa produrre differenze di trattamento censurabili al metro dell'art. 3 Cost.: emblematico è il caso sottoposto all'esame del rimettente in cui, a parità di delitto commesso (concorso in truffa aggravata dall'aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante entità), un imputato al quale è stata ritualmente contestata la recidiva rischierebbe di essere punito più severamente rispetto ad altro imputato al quale la recidiva non è stata contestata dal pubblico ministero, nonostante i numerosi precedenti risultanti dai certificati del casellario giudiziale. Ed infatti, la disciplina censurata implica fisiologicamente la possibilità di un trattamento sanzionatorio del condannato meno severo di quello che deriverebbe dall'applicazione di circostanze aggravanti ritenute sussistenti dal giudice, ma non contestate dal pubblico ministero; e, correlativamente, la possibilità di identici trattamenti sanzionatori per imputati di fatti di reato analoghi, alcuni dei quali però connotati dalla presenza di una o più circostanze aggravanti, anche in questo caso rilevate dal giudice, ma non contestate dal pubblico ministero.
La correlazione tra accusa e sentenza e le sue implicazioni. Per il giudice delle leggi, queste possibili alterazioni della logica del principio di eguaglianza nella commisurazione della pena sono, però, la fisiologica conseguenza della regola della necessaria correlazione tra accusa e sentenza, saldamente radicata nel sistema del codice di procedura penale (cfr. C. cost. n. 88/1994). Tale regola di sistema è, innanzitutto, funzionale al corretto svolgersi del contraddittorio e a garantire la pienezza del diritto di difesa dell'imputato. In secondo luogo, essa tutela la stessa posizione del pubblico ministero, che l'ordinamento vigente – imperniato sul principio accusatorio – individua come esclusivo titolare dell'azione penale. Infine, la regola assicura la posizione di terzietà e imparzialità del giudice rispetto alle opposte allegazioni delle parti.
La regola in questione chiama il giudice a pronunciarsi sulla responsabilità dell'imputato per i soli fatti descritti nel capo di imputazione, o che siano stati oggetto delle eventuali contestazioni suppletive durante il processo, proprio perché unicamente su tali fatti si è svolto il contraddittorio tra le parti; ed esclude che il giudice possa affermare la responsabilità dell'imputato – e applicare la relativa sanzione – per fatti “nuovi” o “connessi” non ritualmente contestati, per un fatto “diverso” da quello contestato, o ancora per circostanze aggravanti anch'esse non oggetto di contestazione.
Fatto “diverso”: spiegata la ratio della restituzione degli atti al P.M. La disposizione censurata è espressione di questa regola, precludendo al giudice di condannare l'imputato per il fatto che risulti dal compendio delle prove, ma sia “diverso” da quello descritto nell'imputazione. Nell'ipotesi, tuttavia, in cui il giudice rilevi la presenza di un fatto “nuovo” – connesso o meno con quello contestato – ulteriore rispetto a quello oggetto di imputazione, egli può comunque pronunciare condanna per il fatto contestato e ritenuto provato, lasciando poi che sia il pubblico ministero a procedere eventualmente per tale ulteriore fatto di reato emerso durante il processo. Nell'ipotesi, invece, di fatto “diverso” da quello contestato, il giudice dovrebbe limitarsi ad assolvere l'imputato; onde, in assenza di una disposizione come quella censurata, al pubblico ministero sarebbe precluso iniziare una nuova azione penale, per effetto della regola generale del ne bis in idem consacrata dall'art. 649 c.p.p. Per evitare tale risultato, che condurrebbe alla radicale non punibilità di un imputato che risulti comunque aver commesso un reato, seppur diverso da quello contestato dal pubblico ministero, l'art. 521, comma 2, c.p.p. dispone che il giudice, in questo caso, non definisca il processo attraverso una pronuncia di assoluzione, ma restituisca gli atti al pubblico ministero perché questi possa procedere, se del caso, a un nuovo esercizio dell'azione penale sulla base del fatto emerso in giudizio.
Restituzione degli atti al P.M.: disciplina non irragionevole. La scelta del legislatore è stata, dunque, quella di calibrare la regola della restituzione degli atti al pubblico ministero, con il suo carico di allungamento dei tempi processuali, sulla sola ipotesi del fatto “diverso”, in cui la definizione del giudizio con una sentenza assolutoria determinerebbe la totale impunità di chi sia risultato autore di un fatto di reato, privilegiando invece le ragioni di tutela della ragionevole durata del processo e della posizione di terzietà e imparzialità del giudice nel caso in cui l'errore del pubblico ministero si ripercuota soltanto sulla misura della pena da infliggere a un imputato comunque condannato per il fatto di reato risultato provato in sede processuale.
Per il giudice delle leggi, tale scelta individua un punto di equilibrio non implausibile tra gli opposti interessi e principi in gioco, tutti di grande rilievo nel vigente sistema del processo penale. Tale scelta, in ogni caso, non può essere qualificata in termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà (cfr., ex plurimis, C. cost., n. 74/2022, n. 213/2021 e n. 95/2020): ne consegue l'infondatezza della censura ex art. 3 Cost.
Neanche l'obbligatorietà dell'azione penale è violata. La Consulta ritiene infondata anche la doglianza relativa all'invocata violazione del principio di obbligatorietà dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost. Tale principio, infatti, non può essere ragionevolmente esteso sino al punto di negare qualsiasi spazio valutativo al pubblico ministero sulla concreta configurazione dell'imputazione, nella quale egli è tenuto a enunciare i fatti storici corrispondenti all'insieme delle fattispecie astratte contenute nelle disposizioni da cui dipende la rilevanza penale di una condotta, ivi comprese quelle configuranti circostanze, che spesso contengono clausole generali o requisiti elastici che rimandano necessariamente ad apprezzamenti discrezionali di chi debba applicare la norma, a cominciare, appunto, dal P.M.
D'altra parte, il legislatore non può non preoccuparsi di garantire l'effettività del diritto di difesa dell'imputato, il quale – una volta formulata l'imputazione da parte del pubblico ministero – ha un'ovvia aspettativa a poter articolare la propria strategia difensiva in relazione, appunto, all'imputazione così cristallizzata, e non ad eventuali imputazioni alternative emerse nel corso del giudizio, anche solo in termini di circostanze aggravanti non ritualmente contestategli dal P.M.
Pertanto, la disposizione in questione individua – anche sotto il profilo della sua compatibilità con l'art. 112 Cost. – un punto di equilibrio non irragionevole tra il complesso dei principi e interessi sottesi al delicato meccanismo del processo penale, con conseguente infondatezza della relativa censura.
*Fonte: DirittoeGiustizia |