Patti tra coniugi per il mantenimento dei figli come interpretarli?
15 Settembre 2023
Massima
Qualora l'accordo convenzionalmente raggiunto tra i coniugi abbia conseguito il suo riconoscimento con la sentenza, è il giudicato (sia pure, rebus sic stantibus) a dover essere preso in considerazione. La natura del giudicato, quale regola del caso concreto, comportandone l'assimilabilità agli elementi normativi della fattispecie, esclude peraltro la possibilità di ricorrere, ai fini della sua interpretazione, ai criteri ermeneutici dettati per le manifestazioni di volontà negoziale, trovando invece applicazione, in via analogica, i principi dettati dall'art. 12 preleggi. Il caso
Con sentenza di divorzio passata in giudicato il Tribunale ha recepito l'accordo raggiunto dai coniugi prevedente l'obbligo del marito di corrispondere l'assegno di mantenimento per la figlia di complessivi € 30.000,00 di cui € 20.000,00 da versare sul conto corrente della moglie con lei convivente ed euro 10.000,00 da versare direttamente sul conto corrente bancario intestato alla figlia stessa fino al raggiungimento del 25 anno di età. Successivamente, avendo la figlia deciso di trasferirsi a vivere dal padre, il Tribunale ha revocato l'assegno di mantenimento previsto a carico del marito e disposto, con decorrenza dall'avvenuto trasferimento, la cessazione dell'obbligo di corrispondere sia alla madre sia alla figlia le somme concordate in sede di divorzio. Tale decisione è stata confermata dalla Corte d'Appello che ha riconosciuto la correttezza della decisione dei Giudici di prime cure di disporre la cessazione dell'intero obbligo contributivo assunto dal padre in sede di divorzio nelle sue diverse componenti rilevando, in particolar modo, come il tenore delle pattuizioni raggiunte dai coniugi in sede di divorzio evidenziasse l'unicità della prestazione relativa al mantenimento della minore seppure fossero articolate le modalità del versamento della somma complessivamente dovuta. La ex moglie ha, quindi, proposto ricorso per Cassazione eccependo tra i motivi proposti: a) l'erroneità della decisione impugnata per avere la Corte d'Appello fatto retroagire la revoca dell'assegno al mese in cui la figlia si è trasferita dal padre invece che alla data della pronuncia. b) per violazione degli artt. 1411, 1372 c.c., art. 9 l.898/1970. La ricorrente ha dedotto nel secondo motivo di ricorso che l'obbligo del marito di versare sul conto corrente della figlia la somma di € 10.000,00 non poteva essere revocato in ragione del suo cambio di collocamento trattandosi di una rendita di cui la stessa era beneficiaria e configurandosi, quindi, come obbligazione insensibile all'avvenuto cambio di collocamento. La Suprema Corte di Cassazione, con l'ordinanza in commento: a) ha ritenuto infondato il primo motivo del ricorso ritenendo che la revoca del contributo di mantenimento della figlia dovesse decorre dalla data del fatto sopravvenuto (il cambio di collocamento) e non dalla data della decisione; b) ha accolto il secondo motivo, cassando con rinvio il decreto impugnato, in quanto i Giudici di appello hanno trascurato di considerare quanto espressamente previsto dalla sentenza di divorzio facendo, erroneamente, applicazione dei criteri ermeneutici dettati per le manifestazioni di volontà negoziale invece che dei principi dettati dall'art. 12 delle preleggi. A giudizio della Suprema Corte la corresponsione della somma di denaro di € 10.000,00 sul conto corrente della figlia non doveva essere revocata in quanto nella sentenza era stabilito che detto importo fosse destinato all'accantonamento (e non al consumo) fino al compimento del venticinquesimo anno di età della figlia. La questione
L'ordinanza della Suprema Corte solleva due questioni giuridiche differenti. La prima concernente la decorrenza del provvedimento che modifica e/o revoca l'assegno di mantenimento della prole. La seconda riguardante l'interpretazione dei provvedimenti giurisdizionali (e, segnatamente, dei titoli esecutivi di formazione giudiziale) onde comprendere se la stessa deve essere condotta nel rispetto dei canoni ermeneutici stabiliti dall'art. 12 disp. sulla legge in generale oppure nell'osservanza dei criteri esegetici dettati, per gli atti negoziali, dagli art. 1362 e ss. c.c. Le soluzioni giuridiche
1) La decorrenza della decisione di revoca dell'assegno dei figli. Preliminarmente la Suprema Corte di Cassazione si sofferma ad analizzare la questione della decorrenza della revoca dell'assegno dei figli nel caso in cui si verifichi un evento estintivo, incidente non già sull'obbligo di contribuire al mantenimento del figlio, ma sulla legittimazione del genitore convivente, affidatario o collocatario, di percepire, a questo titolo, un contributo dall'altro. Si premette che l'assegno a titolo di contributo per il mantenimento del figlio è imposto all'altro coniuge per rispettare il principio di proporzionalità nella contribuzione (art. 316-bis c.c.), in quanto il genitore convivente assume maggiori oneri di spesa, anche per predisporre una stabile organizzazione domestica; mutate questa circostanze di fatto, ciascuno dei due genitori può chiedere la revisione delle condizioni già concordate o stabilite. La giurisprudenza ha più volte chiarito che quando si discuta del momento estintivo dell'obbligo di cui precedentemente sia stata accertata l'esistenza, il limite alla retroattività della statuizione è costituito dall'espressa domanda della parte. Gli effetti della decisione giurisdizionale di modificazione possono retroagire indipendentemente dal momento dell'accadimento innovativo, alla data della domanda di modificazione (Cass. civ., 26 settembre 2011,n. 19589; Cass. civ., 30 liuglio 2015,n. 16173). Si è inoltre affermato che la decisione del giudice, relativa al contributo per il mantenimento del figlio a carico del genitore non affidatario o collocatario, non ha effetti costituitivi, bensì meramente dichiarativi di un diritto che, nell'an, è direttamente connesso allo status genitoriale. Il diritto a percepirlo di un coniuge e il corrispondente obbligo a versarlo dell'altro, nella misura e nei modi stabiliti dalla sentenza di divorzio, conservano la loro efficacia, sino a quando non intervenga la modifica di tale provvedimento, rimanendo ininfluente il momento in cui di fatto sono maturati i presupposti per la modificazione o la soppressione dell'obbligo suddetto, sicché la decisione giurisdizionale di revisione non può avere decorrenza anticipata al momento dell'accadimento innovativo rispetto alla data della domanda di modificazione, ma la sua decorrenza è di regola collegata alla domanda di revisione ovvero, motivatamente, da un periodo successivo (Cass., n. 6975/2005; Cass., n. 8235/2000; Cass. n. 4224/2021; Cass. n. 10974 /2023). La revisione dell'assegno di mantenimento presuppone dunque che rispetto a quando fu stabilito dal Giudice, siano sopravvenuti fatti nuovi che giustifichino la sua modifica, in aumento o in diminuzione, o revoca. Il provvedimento con cui il Giudice aumenta, riduce o revoca l'assegno non decorre però da quando si sono verificati questi nuovi fatti, ma da quando la parte interessata alla modifica ne ha fatto domanda. Ciò significa, in altre parole, che, se una circostanza che giustifica la modifica o revoca dell'assegno si è verificata ad esempio nel 2020, ma si attende fino il 2023 per sottoporla alla valutazione del Giudice, la modifica che quest'ultimo disporrà avrà efficacia dal 2023, e non dal 2020. Pertanto, con la decisione in commento, visti i summenzionati principi, è stato escluso che la decorrenza delle modifiche in tema di assegno di mantenimento per il figlio, legate allo spostamento della sua stabile collocazione da un genitore all'altro, possa essere fissata alla data della sentenza.
2) La natura delle condizioni pattuite tra i coniugi e recepiti nella sentenza di divorzio. La Corte di Cassazione nell'ordinanza in commento ha stabilito altresì l'inapplicabilità agli accordi raggiunti dai coniugi in sede di divorzio e recepiti in sentenza dei criteri di interpretazione ed applicazione del contratto escludendo che alle condizioni pattuite possa essere attribuita natura negoziale. Ciò alla luce di due considerazioni: a) Le richieste dei genitori non vincolano il Giudice di merito le cui decisioni restano comunque ispirate all'esclusivo interesse della prole. Si ricorda al riguardo che il giudice adotta i provvedimenti che reputa idonei a tutelare l'interesse morale e materiale della prole (art. 337-ter c.c.) e, nel corso di tali procedimenti, egli non è vincolato al principio dispositivo o della rispondenza tra il chiesto e il pronunciato (Cass. 25055/2017). Infatti, per giurisprudenza costante, sia in tema di separazione e divorzio, ma anche in relazione ai figli di genitori non coniugati, opera il principio per cui il criterio di riferimento è rappresentato dall'esclusivo interesse morale e materiale della prole. Da ciò discende che il giudice non sia vincolato dalle richieste avanzate dai genitori o dagli accordi intervenuti tra gli stessi (Cass. 11412/2014; Cass. 10174/2012, Cass. 6606/2010; Cass. 17043/2007). Anche di recente la Cassazione ha infatti chiarito che l'autonomia contrattuale delle parti incontra un limite, sotto il profilo della perdurante e definitiva vincolatività fra le parti del negozio concluso, nell'effettiva corrispondenza delle pattuizioni in esso contenute all'interesse morale e materiale della prole (cfr. Cass. civ. ord. n. 663/2022)
b) Se l'accordo raggiunto dai genitori è stato recepito in una sentenza è il giudicato (sia pure rebus sic stantibus) a dover essere preso in considerazione con conseguente applicazione in via analogica dei principi dettati dall'art. 12 delle preleggi. Trova quindi applicazione la regola per la quale fintanto che una statuizione del Giudice è vigente (tempus regit actum) esattamente come avviene rispetto alla legge, nessun effetto diverso può ricondursi a quel provvedimento, se non al momento in cui lo stesso non risulti modificato o sostituito da altro. Trattasi della regola del giudicato che, per quanto rebus sic stantibus, ossia con la possibilità di successivi provvedimenti che, al mutare delle circostanze, subiscono la modifica dei loro contenuti, prevede comunque la stabilità delle regole in essi contenute senza che il comportamento delle parti possa direttamente determinarne la cessazione o la modifica. Ai fini dell'interpretazione di provvedimenti giurisdizionali – nel caso di specie la sentenza di divorzio – si deve fare applicazione, in via analogica, dei canoni ermeneutici prescritti dagli artt.12 e seguenti disp. prel. c.c., in ragione dell'assimilabilità per natura ed effetti agli atti normativi, secondo l'esegesi delle norme (e non già degli atti e dei negozi giuridici), al pari del giudicato interno ed esterno e della sentenza rescindente, in quanto dotati di “vis imperativa” e indisponibilità per le parti. La predetta interpretazione si risolve, quindi, nella ricerca del significato oggettivo della regola o del comando di cui il provvedimento è portatore. La suddetta norma prevede al primo comma che «nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore». L'interpretazione è ammissibile soltanto se è conforme al «significato proprio delle parole” e con riferimento alla “intenzione del legislatore». È, quindi, privilegiata l'interpretazione letterale: è la lettera che costituisce il primo –e prioritario–termine di riferimento per riscoprire il significato di una disposizione normativa. La Corte di Cassazione chiarisce dunque che nell'interpretazione dei provvedimenti giurisdizionali, in ragione dell'assimilabilità di tali provvedimenti (per natura ed effetti) agli atti normativi, si deve fare applicazione, in via analogica, dei canoni ermeneutici di cui all'art. 12 preleggi ricercando quindi il significato oggettivo della regola o del comando di cui il provvedimento è portatore. La giurisprudenza ha, inoltre, evidenziato che il giudice del merito, nell'indagine volta ad accertare l'oggetto ed i limiti del giudicato esterno, non può limitarsi a tener conto della formula conclusiva in cui si riassume il contenuto precettivo della sentenza previamente pronunziata e divenuta immodificabile, ma deve individuarne l'essenza e l'effettiva portata, da ricavarsi non solo dal dispositivo, ma anche dai motivi che la sorreggono, costituendo utili elementi di interpretazione le stesse domande delle parti, che possono avere una funzione integratrice nella ricerca degli esatti confini del giudicato ove sorga un ragionevole dubbio al riguardo (Cfr. Cass. civ. ord., 26 agosto 2020, n. 17799). Osservazioni
La pronuncia della Corte di Cassazione è certamente significativa in quanto interviene su due questioni importanti e spesso dibattute: da una parte la decorrenza della revoca del contributo di mantenimento dei figli e dall'altra l'interpretazione del provvedimento giurisdizionale che recepisce un accordo raggiunto in sede di divorzio dai dai coniugi. Quanto alla prima, la Corte ha fatto applicazione dei principi già elaborati dalla giurisprudenza (cfr. Cass. civ. ord., 23 giugno 2023, n. 18089) secondo cui la decorrenza delle modifiche in tema di assegno di mantenimento per il figlio, legate allo spostamento della sua stabile collocazione da un genitore all'altro, va fissata a far data dalla domanda e non già dalla sentenza, salvo l'accertamento di una qualche ragione specifica. Pare quindi immune da censure la decisione della Corte di revocare il contributo di mantenimento della figlia con decorrenza dalla data di avvenuto trasferimento della stessa dal padre essendo tale fatto sopravvenuto verificatosi comunque solo nelle more del giudizio e quindi in un momento successivo alla presentazione della domanda ma anteriore a quello della decisione. Quanto alla seconda questione, con la decisione in commento la Corte di Cassazione - dopo aver chiarito che i provvedimenti del giudice del divorzio relativi all'affidamento dei figli ed al contributo per il loro mantenimento, dovendo ispirarsi all'esclusivo interesse dei minori, non sono vincolati dalle richieste dei genitori, né dal loro accordo - conferma la centralità del dato letterale nell'ambito dell'attività interpretativa che deve compiere il Giudice. Gli accordi sul mantenimento dei figli recepiti nella sentenza di divorzio diventano “legge” tra le parti e come una legge la sua vigenza è legata alla sua esistenza, fino alla sua disposta cessazione e su questo le parti non hanno certo possibilità di intervento alcuno. Le regole per l'interpretazione dei provvedimenti giurisdizionali sono, quindi, equivalenti a quelle per l'interpretazione della legge. Ne consegue che la sentenza di divorzio, che tale accordo recepisca, non può essere interpretata in base ai criteri stabiliti dall'art. 1362 c.c. - astenendosi, cioè, dall'esclusivo riferimento al senso letterale delle espressioni usate ed indagando, invece, la comune intenzione delle parti - non potendo essere attribuita natura negoziale alle condizioni in essa stabilite. La Suprema Corte, nell'ordinanza in commento, ha applicato tali principi, e quindi cassato con rinvio la decisione della Corte d'Appello non essendo stato preso in considerazione il “comando oggettivato nella sentenza” ovvero il fatto che la stessa riconoscesse la corresponsione della somma di € 10.000,00 sul conto corrente della figlia non come erogazione di una somma destinata al consumo ma come una forma di risparmio per le future esigenze di vita della figlia. |