La c.d. tortura di Stato: natura del reato ed elementi costitutivi

08 Novembre 2023

Il Tribunale di Siena ha dichiarato colpevoli gli imputati per il reato di tortura di Stato, di cui al comma 2, dell'art. 613-bis c.p., ritenendo che ciascuno di loro, quale appartenete alle pubbliche istituzioni, abbia dato il proprio rilevante contributo causale nell'inflizione di ripetute e plurime violenze nei confronti della persona offesa, cagionandole acute sofferenze fisiche, nonché un complessivo trattamento inumano e degradante.

La vicenda

La vicenda in esame trae origine dalla condotta degli imputati, - tutti agenti, assistenti e ispettori del Corpo di polizia penitenziaria in servizio presso la Casa di reclusione di San Gimignano -, che intorno alle ore 15.00 dell'11 ottobre 2018 ponevano in essere una spedizione punitiva ai danni di un detenuto straniero, scelto in ragione della sua corporatura esile e della sua disagiata condizione psichica, elementi che, con evidenza, lo rendevano maggiormente vulnerabile.  

Tale detenuto, in particolare, veniva dapprima prelevato a forza dalla camera detentiva n. 4 del lato “A” del reparto isolamento dell'istituto penitenziario; poi veniva trascinato e strattonato lungo tutto il corridoio; in prossimità del corpo centrale del reparto, veniva colpito alla testa con due pugni, gettato a terra e percosso con calci ovunque per oltre trenta secondi. Poi veniva rialzato a forza, lasciato privo di vestiti e trascinato oltre la cancellata centrale del reparto, dove veniva nuovamente spintonato dagli agenti, sino a rovinare sul pavimento, veniva qui posto in posizione di decubito e schiacciato per più di quaranta secondi da parte di uno degli imputati; il tutto mentre veniva contemporaneamente afferrato per la gola da un altro imputato, patendo un'acuta sofferenza. Poco dopo, subiva una grave torsione ad un braccio e, a quel punto, ormai confuso e sofferente, veniva di nuovo strattonato e trascinato, per essere poi violentemente scaraventato nella camera detentiva n. 19, situata nel lato “B” del reparto isolamento, dove continuava ad essere picchiato da oltre cinque agenti per più di due minuti. Infine, veniva lasciato senza vestiti, in una cella privata di arredi e suppellettili, idonea a ingenerargli uno stato di profonda prostrazione psicologica, protrattosi fino alla mattina seguente.

La verifica interna alla Casa di reclusione di San Gimignano partiva da una segnalazione del personale dell'area educativa, che informava, il giorno dopo il pestaggio, il Magistrato di Sorveglianza presso l'Ufficio di Sorveglianza di Siena e il Provveditorato regionale dell'Amministrazione penitenziaria.

A seguito di questi fatti, agli imputati venivano stati contestati una pluralità di reati, fra cui, per ciò che a noi interessa, quello di quello di tortura pubblica, di cui all'art. 613-bis comma 2 c.p.

Agli imputati viene contestato il reato di cui all'art. 613-bis, comma 2, c.p. La questione principale affrontata dalla sentenza in esame attiene alla configurabilità del reato di tortura e, più specificamente, della tortura c.d. di Stato o pubblica. In particolare, quali sono i suoi elementi costitutivi? La tortura pubblica è reato autonomo o circostanza aggravante?

Il reato di tortura: premessa

Punto di partenza della sentenza in esame, ai fini dell'individuazione degli elementi costitutivi del reato di tortura e della sua configurabilità nel caso di specie, è costituito da una ricostruzione storica del reato, in particolare, delle sue fonti normative. Il divieto della tortura e dei trattamenti inumai o degradanti, infatti, trova il suo fondamento in una serie di strumenti internazionali, tutti ratificati dal nostro Paese.

Tali atti, da un lato, assumono il valore di norme vincolanti nei confronti dello Stato italiano, che ad esse deve a conformarsi, in forza di norme costituzionali, quali l'art. 117, comma 1 Cost.; e, dall'altro lato, rappresentano importanti strumenti ermeneutici per l'attività giurisdizionale, vincolando l'interprete a dare delle disposizioni interne interpretazioni con esse coerenti e quanto più possibile conformi.

Il divieto di tortura, poi, assume il valore di vera e propria norma imperativa del diritto internazionale generale; ne consegue che il suo ripudio deve ritenersi veicolato, nel nostro ordinamento, non solo per il tramite delle numerose fonti di diritto internazionale pattizio, ma anche in virtù dell'art. 10, comma 1, Cost., che, come è noto, prevede un meccanismo di adattamento automatico nei confronti dello ius cogens (ossia del diritto internazionale generale valevole per tutti gli Stati), così assicurando un perdurante regime di conformità tra ordinamento interno e diritto internazionale generale.

La tortura quale reato riconosciuto dalle fonti internazionali

Fra le Convenzioni internazionali che si occupano di tortura occorre, in primo luogo, citare la Convenzione relativa al trattamento dei prigionieri di guerra (del 1949), che all'art. 17 statuisce che «nessuna tortura fisica o morale né coercizione alcuna potrà essere esercitata sui prigionieri di guerra per ottenere da essi informazioni di qualsiasi natura».

Già qui si individua un elemento costante del meccanismo della tortura, cioè la commissione di tale atto in presenza di un rapporto pubblico di custodia che lega, in condizione di asimmetria e disparità delle parti, l'autore del reato alla vittima dello stesso, quest'ultima identificata nella persona custodita e il primo in un appartenente al personale di custodia. Questo elemento costante è associato alla necessaria qualifica, in capo all'autore del reato, di persona esercente un pubblico potere e appartenente all'apparto di custodia.

Altro atto internazionali che riconosce il divieto di tortura è il Patto internazionale sui diritti civili e politici, da cui è scaturita la Dichiarazione ONU sulla protezione di tutte le persone sottoposte a forme di tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti, a sua volta tradottasi nella Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti (UNCAT), del 1987.

Quest'ultima, oltre a fornire una definizione normativa della tortura, impone, in capo a ciascuno Stato aderente, specifici e vincolanti obblighi positivi di attivazione, tra i quali, quello di prevenzione degli atti di tortura, attraverso l'adozione di ogni provvedimento di natura legislativa, amministrativa o giudiziaria idoneo ad impedire che, in un territorio ricadente nella sua giurisdizione, siano compiuti atti di tortura (v. art. 2); nonché l'obbligo di criminalizzazione degli atti di tortura e della loro adeguata punizione penale, mediante l'istituzione di uno specifico titolo di reato, assistito da un apparato sanzionatorio congruo rispetto al bene-valore da tali atti inciso. La stessa UNCAT, all'art. 16, infine, estende anche ai trattamenti crudeli, inumani o degradanti gli specifici impegni e obblighi prevenzionistici previsti per gli atti di tortura, sempre avendo cura di evidenziare l'elemento centrale e qualificante di un simile meccanismo, che riposa nella commissione di tali atti da parte di un agente delle pubbliche istituzioni.

Il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti è, poi, sancito dall'art. 3 della CEDU. Tale disposizione, che ha carattere assoluto, si concretizza nel diritto a non subire una violazione della propria integrità fisica e psichica a causa di atti di tortura o di un trattamento o una pena disumana o degradante. Nell'ambito della giurisprudenza della Corte EDU relativa all'art. 3 citato, può notarsi una linea interpretativa evolutiva, nell'ambito della quale si distingue una prima e più vecchia fase ermeneutica da una seconda, meno remota, sino a giungere, da ultimo, ad una più recente fase, in cui la nozione di “trattamento inumano e degradante”, ripresa anche dall'art. 613-bis c.p., tende a coincidere con i concetti di “abuso della forza pubblica” e “abuso di autorità”.

Infine, in tema di ripudio della tortura, occorre citare lo Statuto della Corte penale internazionale (del 1998), che la prevede come crimine di guerra e contro l'umanità. La definizione di “tortura” in esso contenuta ruota intorno a due elementi: le gravi sofferenze intenzionalmente inflitte e la condizione di persone sottoposte a custodia dei destinatari di tali atti (v. art. 7, §2). Ne deriva che, anche qui, la commissione di atti di tortura è intimamente legata ad un rapporto di custodia che lega, in condizione di disparità, gli autori degli atti alle vittime degli stessi, con queste ultime identificate nelle persone custodite e i primi in appartenenti all'apparato di custodia.

I corrispondenti doveri del personale appartenente al corpo di polizia penitenziaria a fronte del divieto di tortura

Una volta descritte le fonti del divieto di tortura, il Tribunale si sofferma sul correlativo diritto che attiene al corpo della persona affidata alla custodita dell'autorità pubblica.

In particolare, alla stregua di tale diritto, il corpo della persona privata della libertà personale deve restare inviolabile per chiunque l'abbia in custodia, in quanto chi è detenuto, anche se è privato della maggior parte della sua libertà, ne mantiene comunque un residuo, che appare, per questo, più prezioso, perché costituisce «l'ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale» (così, C. cost., n. 349/1993).

Il valore della dignità personale ex art. 3 Cost., d'altro canto, costituisce l'architrave su cui poggia il sistema costituzionale dei diritti fondamentali, in quanto principio supremo, insuscettibile di riduzione o compressione, metro di giudizio del bilanciamento fra altri diritti fondamentali, nonché misura ultima dello stato di attuazione del sistema di diritti e libertà costituzionalmente garantiti.

Tale principio deve essere salvaguardato anche e soprattutto in quei luoghi, quali sono gli istituti penitenziari, in cui la restrizione della libertà personale raggiunge l'apice consentito dalla Costituzione e dove viene ad instaurarsi una relazione verticale e un rapporto asimmetrico tra una parte forte, qual è l'apparato pubblico di custodia, e una parte debole, qual è la persona ristretta, che in tutto dipende proprio da quella parte forte. Proprio in tali luoghi è necessario che il valore della dignità personale sia massimamente preservato, mantenendosi integro il suo nucleo centrale, che coincide con il principio secondo cui nessuno può essere trattato come mezzo per fini a lui estranei e non suoi.

In definitiva, il trattamento carcerario deve consistere nel massimo rispetto della persona detenuta, ma anche nella tutela costituzionale dei diritti fondamentali, che deve operare pure nei confronti di chi è stato sottoposto a legittime restrizioni della libertà personale, sia pure con le limitazioni imposte dalla sua particolare condizione (così C. cost., n. 20/2017).

Il quadro giuridico sin qui disegnato, in materia di tutela dei diritti e della dignità delle persone detenute, affonda le sue radici nei principi costituzionali di cui agli artt. 2,3,13,27 Cost., e trova conforto nella giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo cui finalismo rieducativo e umanità delle pene compongono un canone costituzionale minimo a salvaguardia del detenuto nella fase dell'esecuzione penale, tale da imporre al potere coercitivo di fermarsi e arretrare ogni qual volta esso consista in trattamenti contrari al senso di umanità.

Quanto delineato, infine, ha trovato recente consacrazione a livello legislativo, all'art. 1 dell'ord. penit., come modificato dal d.lgs. n. 123/2018, che, al comma 1, stabilisce il principio secondo cui «il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona», e, al nuovo comma 3, che «ad ogni persona privata della libertà sono garantiti i diritti fondamentali; è vietata ogni violenza fisica e morale in suo danno».

I requisiti di legittimità dell'impiego della coercizione in contesti penitenziari

Il Tribunale passa, poi, in rassegna i requisiti di legittimità dell'impiego della coercizione in contesti penitenziari, partendo da un dato terminologico.

Nella specie, le espressioni quali “uso della forza fisica”, “ricorso ai mezzi di coazione” ed “esercizio di atti di violenza” ruotano tutte intorno allo stesso oggetto e si riferiscono ad un contesto in cui viene fatto un uso preponderante della forza fisica, dispiegata da parte di un corpo nei confronti di un altro corpo, implicante un trasferimento di energia tale da piegare la resistenza del corpo sopraffatto, sotto l'azione esercitata dal corpo sovrastante.

L'effetto tipico di sopraffazione può in concreto manifestarsi:

- in una variazione nel movimento del corpo soverchiato, che ne comporti, tra l'altro, una modifica della sua posizione esternamente percepibile;

- in un percepibile movimento del corpo soverchiato accompagnato da alterazioni di natura anatomica, processi patologici o compromissioni delle funzioni dell'organismo.

Ferma, dunque, l'identità di senso dei concetti di “impiego della forza fisica” e di “esercizio di atti di violenza”, ciò che distingue l'uno dall'altro, in diritto, è la valutazione giuridica che viene operata dall'ordinamento, in relazione alle diverse fattispecie in cui l'uso di un atto di forza soverchiante può assumere rilievo. Se quest'ultimo viene ritenuto illecito o illegale, prenderà il nome di “violenza”; al contrario, nel caso in cui l'atto di forza non sia né illecito né illegale, si parlerà di “ricorso a mezzi di coazione fisica” o “impiego della forza fisica”.

A prescindere dalle qualificazioni, permane, nei confronti del titolare del corpo soverchiato, la protezione apprestata dall'art. 13 Cost., che tutela la libertà personale, posta in causa in ogni caso di coercizione nei confronti del corpo della persona (in tal senso si vedano, tra le altre, C. cost., n. 22/2022; C. cost., n. 127/2022). Proprio in virtù di tale disposizione ogni persona è titolare di un diritto fondamentale di libertà personale, nel cui ambito ricade anche il diritto di habeas corpus, che fa parte dei valori supremi dell'ordinamento.

È questo diritto costituzionalmente protetto, insieme con la sua priorità assiologica rispetto ai pubblici poteri, a costituire un argine contro l'uso incontrollato della coazione fisica da parte delle autorità pubbliche. Sotto questo aspetto, infatti, l'art. 13 citato consente di identificare, ove letto insieme agli artt. 2 e 3 Cost., il connotato essenziale che distingue il “legittimo impiego della coazione fisica” dall'”illecito esercizio della violenza”. Tale connotato risiede nei canoni di necessità e di proporzionalità-adeguatezza del mezzo al fine, nonché nel principio di legalità.

Alla stregua di tale norma, l'uso della forza pubblica può dirsi legittimo se non sia possibile ricorrere a un mezzo diverso e meno lesivo nell'ambito di quelli comunque efficaci al raggiungimento dello scopo perseguito ed in quanto, al contempo, l'appartenente all'autorità pubblica si trovi nella necessità di respingere una violenza; di vincere una resistenza attiva all'autorità; di impedire la consumazione di una serie di specifici e gravi delitti; ovvero negli altri casi previsti da leggi speciali. Fra tali altri casi rientra l'ambito penitenziario, dove il ricorso alla forza fisica è oggetto di una specifica le disciplina da parte dell'art. 41 ord. penit., che esclude espressamente il ricorso alla forza a scopo disciplinare o di mantenimento dell'ordine negli istituti.

L'impiego della forza, di contro, è ammesso solo in costanza di requisiti individuati dalla legge, quali l'indispensabile necessità di prevenire o impedire atti di violenza; di impedire tentativi di evasione; o di vincere la resistenza all'esecuzione degli ordini impartiti.

Il delitto di tortura come fattispecie costituzionalmente imposta

Il Tribunale, poi, passa all'esame del delitto di tortura, sul piano interno, come fattispecie costituzionalmente imposta, in quanto garanzia del diritto all'intangibilità e salvaguardia del corpo della persona privata della libertà.

Da questo punto di vista, necessario è il riferimento all'art. 13, comma 4, Cost., secondo cui «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà».

A ciò si aggiunga che, a tutela del diritto di libertà personale, la Costituzione ha fissato molti divieti, corrispondenti ad altrettanti limiti alla potestà punitiva, espressi mediante l'uso di formule o termini di negazione (così l'art. 25, comma 2, Cost., secondo cui «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso», o l'art. 27, comma 1, Cost., per cui «non è ammessa la pena di morte»).

Nella Costituzione, pertanto, emerge come la materia penale costituisca terreno prediletto di un linguaggio volto all'idea della limitazione della potestà punitiva, che si traduce nell'uso di espressioni in grado di veicolare divieti e disegnare aree d'intervento normativo precluse al legislatore. Per tale via, risulta inibita al legislatore, ad esempio, - in quanto oggetto di espressi divieti costituzionali -, l'introduzione di fattispecie penali prive di determinatezza o che proibiscano condotte del tutto di fisicità o materialità o totalmente inoffensive.

In tale contesto, l'espresso riferimento nella Costituzione agli abusi da parte della “polizia giudiziaria o politica o carceraria”, costituisce un importante argomento in ordine alla portata del divieto costituzionale impartito al legislatore da parte dell'art. 13, comma 4, Cost. e del correlativo obbligo di criminalizzazione, ben in mente avendosi, con quest'ultima disposizione, gli atti di abuso della forza praticati da appartenenti alle istituzioni pubbliche. In altre parole, nell'intento del costituente, l'obbligo di criminalizzazione statuito all'art. 13 citato ha ad oggetto, principalmente, non già il fenomeno della tortura comune (c.d. privata o impropria o orizzontale), quanto quello della tortura di Stato (detta anche pubblica, propria o verticale).

Il reato di tortura nel nostro ordinamento

Una volta descritta la tortura come una fattispecie costituzionalmente imposta, il Tribunale di Siena si sofferma sulla fattispecie prevista all'art. 613-bis c.p., introdotta, insieme all'art. 613-ter c.p., rubricato “Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura”, con l. n. 110/2017, recante, appunto, “Introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento italiano”.

La nozione di “tortura” accolta dall'art. 613-bis c.p. si connota per il suo disvalore crescente e progressivo, essendo in essa inglobato tanto il fenomeno della tortura comune, cioè quella perpetrata da “chiunque”, quanto quello della tortura di Stato, in cui il soggetto attivo è, invece, un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio.

Gli elementi strutturali della fattispecie sono raccolti nel primo comma del citato articolo, che racchiude sei diversi schemi di integrazione del reato, corrispondenti ad altrettanti “fatti” tipici, tutti accomunati dall'essere commessi nei confronti di «una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa».

I primi tre schemi di consumazione del delitto di tortura sono, a loro volta, legati dal carattere reiterato o comunque plurimo degli atti violenti, gravemente minatori o crudeli, che integrano le tre specifiche condotte previste dal comma 1 dell'art. 613-bis c.p.

La consumazione del delitto di tortura, sotto questo profilo, è, quindi, correlata alla necessaria verificazione di almeno due violenze o minacce gravi o atti crudeli, sempre che da ciascuna di esse derivi poi uno degli eventi tipici del reato (le acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico).

In relazione a questi tre primi schemi di consumazione, la Suprema Corte ha chiarito che la necessaria reiterazione della violenza o degli atti crudeli, imposta dalla locuzione “mediante più condotte”, è relativa «... non già solo ad una pluralità di ordine temporale con episodi eventualmente reiterati nel tempo, ma anche alla perpetrazione di più contegni... nello stesso contesto cronologico...» (così Cass. pen., sez. V, n. 50208/2019, Rv. 277841).

Il delitto di tortura, pertanto, è configurato dal legislatore con reato di durata, necessariamente abituale, essendo la manifestazione in numero quantomeno superiore ad una di condotte crudeli, violente o gravemente intimidatrici un tratto caratteristico e qualificante di tale nuova fattispecie (sul punto Cass. pen., sez. V, n. 47079/2019, Rv. 277544).

Il requisito delle violenze o minacce gravi

La fattispecie di cui all'art. 613-bis c.p. si caratterizza per un ulteriore requisito modale, costituito dalle “violenze o minacce gravi”, oltre che dalla “crudeltà” dell'azione.

A scanso di dubbi interpretativi, secondo il Tribunale di Siena, la locuzione che comprende i termini “con violenze o minacce gravi” deve essere letta insieme al frammento testuale che immediatamente la segue, cioè «... Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona...».

Questa lettura, secondo il Tribunale, si impone in ragione della funzione parentetica della frase “con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà”, rimarcata com'è da virgole che la seguono e precedono, quasi a segnalare all'interprete la sua natura di costrutto sintatticamente indipendente rispetto al periodo principale, costituito da un soggetto (“Chiunque”) e da un verbo (“cagiona”). Si tratta di una chiave interpretativa ben ancorata al dato linguistico.

Infine, a ciò si aggiunga che, la ravvicinata successione di due congiunzioni disgiuntive (“...o ... oppure...”), inserite all'interno di un costrutto unitario e sintatticamente indipendente dal periodo principale (“Chiunque... cagiona”), fornisce all'interprete tre unità linguistiche tra loro ben distinte e autonome: - “con violenze”; - “o minacce gravi”; - “ovvero agendo con crudeltà”.

Gli altri schemi di consumazione del reato

Come accennato, nell'art. 613-bis c.p. è possibile individuare sei schemi di consumazione del reato. Una volta analizzati i primi tre, passiamo alla disamina dei restanti.

Nella specie, gli ulteriori schemi tipici di consumazione del delitto in esame sono accomunati da un elemento che assume natura empirica e valutativa, cioè la nozione di “trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”, eziologicamente associato alle “violenze”, alle “minacce gravi” o ad anche una sola “azione crudele”, purché da esse derivino, in via alternativa, acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico.

La nozione di “trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”, per il Tribunale, rappresenta una condizione obiettiva di punibilità di tipo intrinseco, essendo intimamente collegata al disvalore tipico del fatto punito. Laddove difetti l'abitualità della condotta, in altri termini, l'uso della violenza, grave minaccia o crudeltà integra il delitto di tortura solo se le acute sofferenze o il trauma psichico si traducano in un evento all'evidenza persistente e nel tempo durevole, qual è un “trattamento”, che possa essere altresì qualificato come inumano e, al contempo, degradante.

Riguardo all'agire con crudeltà, si tratta di nozione già utilizzata nel codice penale (ad esempio all'art. 61, comma 1 n. 4, c.p., o all'art. 131-bis, comma 2, c.p.), che ha un contenuto ampiamente valutativo, che rende una singola azione penalmente rilevante solo se sia espressiva di un atteggiamento di totale insensibilità verso l'inflizione di sofferenze e di compiaciuto sadismo per il dolore arrecato ad altri, tenuto da un soggetto che si dimostri non empatico e spietato.

Relativamente al concetto di sofferenza fisica, invece, secondo il Tribunale, è necessario rinviare alla definizione di “dolore” fornita delle neuroscienze (quale «esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole, associata ad un pericolo tissutale o potenziale o descritto in termini di potenziale danno»), anche se con essa non è totalmente sovrapponibile.

Si tratta di una nozione composta da quattro componenti centrali, cioè quella: - sensoriale (relativa alla qualità, quantità, durata, intensità e localizzazione dei cc.dd. messaggi nocicettivi, che costituiscono la modalità di ricezione e trasporto al sistema nervoso centrale di stimoli potenzialmente lesivi per l'organismo); - emozionale (cioè la tonalità umorale e psico-affettiva risultante per effetto del meccanismo nocicettivo); - cognitiva (costituita dall'insieme dei processi mentali che influenzano la percezione del dolore); - comportamentale (costituita dall'insieme delle manifestazioni verbali e visive che è possibile osservare nelle persone che soffrono e patiscono). Le ultime tre componenti del dolore costituiscono la parte c.d. esperienziale, che coincide con la nozione di “sofferenza fisica”, da intendersi quale stato psichico esperienziale collegato alla percezione di una sensazione spiacevole, associata ad un pericolo tissutale o potenziale.

Relativamente al termine acuto, che caratterizza la sofferenza fisica, esso, invece, evoca il ciclo veloce dell'esperienza sensoriale, con riferimento al breve lasso di tempo che separa la sua comparsa dal suo esito, così distinguendosi dal dolore cronico. Inoltre, seleziona, tra le “sofferenze fisiche” penalmente rilevanti ex art. 613-bis c.p., solo quelle che raggiungono un certo grado di intensità, senza che sia tuttavia richiesto il conseguimento di quella soglia di sofferenza che coincide con il dolore straziante.

Passando, infine, alla qualificazione del trauma psichico verificabile, la Suprema Corte ha ne fornito una definizione che ruota intorno al concetto di rottura e destabilizzazione, anche temporanea, di un preesistente equilibrio emotivo e psichico, che non richiede accertamenti medico-legali, ma che può essere, piuttosto, ricavato da segni e indizi comportamentali della vittima (così Cass. pen., sez. V, n. 47079/2019, Rv. 277544-02).

La natura di reato autonomo della tortura pubblica, di cui al comma 2 dell'art. 613-bis c.p.

Il Tribunale si concentra, poi, sulla discussa natura giuridica della c.d. tortura pubblica o di Stato, di cui al comma 2 dell'art. 613-bis c.p., contestata agli imputati, quale reato autonomo o circostanza aggravante.

Nella specie, essa si configura quando i fatti idonei ad integrare la tortura siano commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio. È, quindi, costruita attraverso un rinvio per relationem ai fatti di cui al comma precedente, con una differenza di pena, nel senso di un aggravamento nel caso di commissione di tali fatti da parte di un agente pubblico.

Per come è costruita appare evidente che sia stata pensata per porre un argine e presidiare quelle gravi forme di distorsione impresse ai pubblici poteri da chi, da appartenente alle istituzioni pubbliche, ponga in essere quegli atti di tortura descritti al comma 1, tradendo il proprio mandato istituzionale e ledendo, allo stesso tempo, l'immagine e la dignità delle istituzioni pubbliche di cui fa parte.

Ciò posto, per il Tribunale, la c.d. tortura pubblica costituisce una fattispecie autonoma di reato, in quanto, l'oggetto giuridico della fattispecie descritta dal comma 2 è diverso da quello del comma precedente, perchè con la previsione e punizione, quale delitto, del fenomeno della c.d. tortura di Stato ad essere garantito è il regolare svolgersi del rapporto tra Stato e cittadino, tra autorità pubblica e persona, nel momento più critico in cui tale rapporto può manifestarsi, quale è quello in cui il cittadino e la persona sono affidati alla cura, vigilanza e custodia dello Stato e dell'autorità pubblica.

Il quid pluris che connota e differenzia a livello strutturale le fattispecie descritte dai primi due commi dell'art. 613-bis c.p. consiste, più in particolare, nell'esercizio a tal punto distorto del pubblico potere da far rovinare le ragioni istituzionali che hanno giustificato e legittimato l'attribuzione di esso in capo ad una autorità, cioè la specifica finalità di tutelare le persone a questa affidate e da questa custodite.

La soluzione del Tribunale di Siena

Alla luce della ricostruzione operata, secondo il Tribunale di Siena, la condotta degli imputati, in forza della complessiva dinamica dei fatti, integra la fattispecie di tortura pubblica o di Stato, contemplata al comma 2, in riferimento al comma 1, dell'art. 613-bis c.p.

A sostegno di tale impostazione vengono utilizzati diversi argomenti.

In particolare, sono molte le prove da cui, secondo i giudici, si ricava che l'11 ottobre 2018 si sia fatto, nei confronti della persona offesa, un impiego segreto della forza fisica ad opera degli imputati, tutti appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria in servizio presso l'istituto di San Gimignano.

Essi, hanno, infatti, tutti omesso di segnalare tempestivamente, alla direzione dell'istituto, tale impiego della coazione pubblica, accompagnando l'omissione alla successiva formazione di relazioni e rapporti volutamente falsi in merito a questo episodio, preceduti, peraltro, da un'unica tempestiva relazione, sul punto scientemente lacunosa.

L'assenza di una necessità di prevenire o impedire atti di violenza, tentativi di evasione o di vincere una resistenza da parte della persona offesa, mai accennata, dimostra, secondo il Collegio, come gli imputati abbiano fatto un uso illegale e illecito della forza, in violazione tanto delle numerose normative sopra descritte, quanto della intangibilità del corpo della persona offesa, quando questi era stato affidato alla custodia, cura e vigilanza dello Stato, con conseguente lesione del suo fondamentale diritto di libertà personale, sotto il profilo dell'inviolabile diritto di habeas corpus.

Nel caso di specie, non si è, pertanto, trattato di legittimo uso della forza pubblica, ma di un vero e proprio esercizio di violenza, di abuso della forza pubblica e di abuso di autorità, perpetrato ad opera di componenti dell'apparato pubblico di custodia e, quindi, di appartenenti alle pubbliche istituzioni.

Peraltro, la violenza non è stata esercitata in forma istantanea e isolata, ma si è tradotta in plurimi, reiterati e distinti atti, tra loro legati dall'unitario intento, portato avanti dagli imputati, di dare vita ad una punizione della persona offesa che potesse valere “d'esempio” per tutti gli altri detenuti collocati nel reparto isolamento, così da riaffermare rapporti di dominio attraverso l'uso di esemplari forme di violenza collettiva, e restaurare l'ordine turbato da precedenti inottemperanze e manifestazioni di protesta poste in essere precedentemente, nonché con finalità di generale deterrenza rispetto ad eventuali e futuri comportamenti scorretti e mal tollerati da parte dei detenuti.

Con riguardo al caso di specie, inoltre, secondo il Tribunale, un fatto a cui è stato sottoposta la persona offesa merita di essere ulteriormente approfondito ai fini di giungere ad affermare la penale responsabilità degli imputati, cioè l'isolamento continuo e la sua legittimità.

In materia di regime penitenziario e potere disciplinare dell'amministrazione sussiste l'acquisizione, discendente dai principi sanciti dalla Costituzione, relativa alla natura intrinsecamente limitata del potere di c.d. supremazia speciale che l'Amministrazione penitenziaria può esercitare nei confronti delle persone detenute, attraverso l'irrogazione di sanzioni disciplinari destinate a colpire le infrazioni alle regole della deontologia di gruppo ad opera degli appartenenti a comunità stabili, nel cui novero rientra la comunità penitenziaria.

Le sanzioni disciplinari penitenziarie, in quanto espressione di potere ablatorio personale, incidono, infatti, su fondamentali diritti di libertà della persona detenuta (come la libertà di parlare o di svolgere movimenti nelle attività in comune); tali diritti, tuttavia, possono essere ridotti, ma mai del tutto soppressi da sanzioni disciplinari penitenziarie, e solo per la durata legale della sanzione e sempre che questa sia irrogata dagli organi preposti dalla legge e nel rispetto delle modalità previste. Tali riduzioni possono essere adottate, peraltro, solo per esigenze di sicurezza collegate alla custodia in carcere, perché, in caso contrario, avrebbero solo «un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, non compatibile con l'art. 27, comma 3, Cost.» (così C. cost., n. 135/2013).

L'Amministrazione penitenziaria, quindi, può adottare solo «provvedimenti in ordine alle modalità di esecuzione della pena, che non eccedono il sacrificio della libertà personale già potenzialmente imposto al detenuto con la sentenza di condanna» (C. cost., n. 349/1993). Nel novero delle limitazioni «potenzialmente ricomprese nel quantum di privazione della libertà personale conseguente allo stato di detenzione», non può in ogni caso farsi rientrare la separazione del detenuto dal resto della popolazione ristretta, il c.d. “isolamento continuo”, ciò perché dalle norme sul trattamento penitenziario si ricava che l'ammissione dei detenuti alla vita in comune deve costituire la regola, in quanto ricollegata al finalismo rieducativo della pena. Quale canone costituzionale minimo posto a presidio della persona detenuta nella fase dell'esecuzione penale, il necessario finalismo rieducativo della pena impone, infatti, che il condannato sia inserito in una più ampia comunità, per consentire allo stesso di potervi svolgere le attività dirette al suo reinserimento sociale.

Ne consegue che ogni provvedimento con cui sia eseguita la separazione coattiva del condannato dal resto della popolazione detenuta, con forzata e prolungata permanenza di quest'ultimo all'interno di una camera detentiva, deve allora necessariamente considerarsi una misura di rigore eccezionale, poiché di natura derogatoria rispetto alle ordinarie regole del trattamento penitenziario e implicante una limitazione ulteriore di quel residuo di libertà personale di cui sono titolari le persone detenute e internate, tale da rendere all'evidenza più rigida l'esecuzione della pena detentiva.

L'isolamento non può quindi essere legittimamente disposto o eseguito se non in ipotesi tassativamente tipizzate, quali sono quelle previste dall'art. 33 ord. penit., cioè per ragioni istruttorie, e in tal caso su disposizione dell'Autorità giudiziaria; per ragioni sanitarie; o durante l'esecuzione della sanzione dell'esclusione dalle attività in comune.

L'isolamento disciplinare è, inoltre, applicato da una specifica autorità amministrativa, cioè il Consiglio di disciplina, a seguito dell'accertamento di un fatto riconducibile ad uno degli astratti tipi di infrazione previsti dalla legge. Nelle more della convocazione del Consiglio di disciplina, solo il direttore dell'istituto, in via cautelare, dispone del potere di applicare l'isolamento continuo e solo nel caso in cui vi sia l'assoluta urgenza e la necessità di tutelare l'ordine e la sicurezza dell'istituto (art. 78 Reg. esec.). Inoltre, in ragione della natura gravemente afflittiva dell'intervento cautelare, l'esercizio di siffatto potere è contornato da una serie di garanzie predisposte a tutela dei diritti del detenuto accusato, quali: - l'adozione di tale intervento cautelare esclusivamente a mezzo atto scritto e con “provvedimento motivato” (nel quale dovrà darsi conto della “particolare gravità” dell'infrazione addebitata, dell'esistenza di specifiche esigenze cautelari, dell'urgenza e della necessità di dare immediata esecuzione alla sanzione disciplinare, senza attendere la decisione del Consiglio di disciplina, nonché da ultimo dell'inadeguatezza di ogni altro possibile intervento meno afflittivo); - la necessaria sottoposizione a visita del detenuto destinatario del provvedimento cautelare, ad opera del sanitario, che dovrà rilasciare apposita certificazione attestante la presenza di condizioni di salute tali da permettergli di sopportare l'isolamento continuo; - la limitata durata dell'isolamento continuo cautelare, che non può comunque eccedere i dieci giorni.

Infine, l'isolamento continuo per ragioni disciplinari, deve essere, per previsione legislativa, eseguito in una camera ordinaria e non in altro e diverso locale dell'istituto penitenziario, salvo che il comportamento del detenuto o internato sia tale da arrecare disturbo o da costituire pregiudizio per l'ordine e la disciplina.

Su tale misura di rigore, d'altro canto, l'Amministrazione penitenziaria non vanta alcuno spazio di potere discrezionale, in quanto si tratta di materia direttamente incidente su diritti fondamentali, la cui compressione in tanto può dirsi consentita dalla legge in quanto sia irrogata dagli organi a ciò preposti, nel rispetto delle forme e modalità normative per essa previste e nei soli casi tassativamente previsti dalla legge (ex art. 33 ord. penit.).

Ciò premesso, con riguardo al caso di specie, la prolungata applicazione nei confronti della persona offesa di una misura di forzata permanenza in una camera detentiva individuale, posta all'interno del reparto isolamento della Casa di reclusione di San Gimignano, è comprovata e si rinviene nei numerosi documenti acquisiti in atti, da cui si ricava, senza ombra di dubbio, la palese e manifesta violazione di tutti i requisiti minimi di legalità che presiedono l'applicazione della stessa per ragioni disciplinari.

In conclusione

Una volta tracciato il quadro sul delitto di tortura, ripercorso le fonti internazionali che lo prevedono e la sua determinazione e base normativa sul piano interno, il Tribunale di Siena ha, in maniera condivisibile, riconosciuto colpevoli gli imputati del caso in esame per il reato di tortura pubblica, ex art. 613-bis, comma 2, c.p.

Ciò perché ha ritenuto che ciascuno di loro abbia, consapevolmente, dato il proprio rilevante contributo causale nell'inflizione di ripetute e plurime violenze nei confronti della persona offesa, idonee a cagionarle acute sofferenze fisiche, nonché un complessivo trattamento inumano e degradante, in sfregio al proprio mandato istituzionale e ledendo, allo stesso tempo, l'immagine e la dignità delle istituzioni pubbliche di cui sono parte.

Nella sentenza in commento, molto interessante è apparsa anche la ricostruzione dei presupposti di legittimità del meccanismo del c.d. isolamento continuo, previsto dalla normativa relativa all'ordinamento penitenziario, pensato quale extrema ratio del trattamento del detenuto in carcere e comunque disciplinato in modo tale da essere in linea anche con la finalità rieducativa della pena, di cui all'art. 27 Cost. In relazione al caso in esame, è stato ritenuto, ancora una volta in modo condivisibile, sulla base delle prove raccolte, che siano stati violati tutti i requisiti minimi di legalità che presiedono l'applicazione di tale provvedimento per ragioni disciplinari.

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