Lorenzo Cattelan
Lorenzo Cattelan
07 Settembre 2020

Il regime di carcere duro disciplinato dall'art. 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 rappresenta una deroga alle ordinarie regole del trattamento penitenziario, così come descritto e disciplinato dal Titolo I della medesima legge sull'ordinamento penitenziario (di seguito, ord. pen.).In linea generale, deve sottolinearsi che i padri costituenti ed il legislatore del 1975 hanno inteso approcciarsi alla regolamentazione dell'esperienza carceraria in termini non solo di valida modalità di retribuzione per la sofferenza causata dall'illecito commesso bensì anche di occasione di riscatto personale, consistente nella possibilità di affrontare un individualizzato programma trattamentale avente lo scopo di realizzare una consapevole rieducazione del condannato ed un suo graduale reinserimento nel tessuto sociale.
Inquadramento

Il regime di carcere duro disciplinato dall'art. 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) rappresenta una deroga alle ordinarie regole del trattamento penitenziario, così come descritto e disciplinato dal Titolo I della medesima legge sull'ordinamento penitenziario (di seguito, ord. pen.).

In linea generale, deve sottolinearsi che i padri costituenti ed il legislatore del 1975 hanno inteso approcciarsi alla regolamentazione dell'esperienza carceraria in termini non solo di valida modalità di retribuzione per la sofferenza causata dall'illecito commesso bensì anche di occasione di riscatto personale, consistente nella possibilità di affrontare un individualizzato programma trattamentale avente lo scopo di realizzare una consapevole rieducazione del condannato ed un suo graduale reinserimento nel tessuto sociale.

Tuttavia, non tutti i detenuti presentano le medesime potenzialità criminali. Non tutti i detenuti, in altri termini, vengono condannati per (o vengono accusati di aver commesso) la medesima tipologia di reati.

Ne consegue che spiccate esigenze di sicurezza e di prevenzione connesse ad illeciti particolarmente offensivi hanno suggerito al legislatore di apprestare, nel medesimo contesto carcerario, rigidi strumenti di trattamento differenziato, sì da minimizzare (rectius, escludere) qualsiasi contatto tra il sottoposto al 41-bis sia con il mondo esterno sia con la restante popolazione carceraria.

In evidenza

Attraverso l'istituzione del carcere duro il legislatore abbandona gli ideali della rieducazione e della scommessa anticustodialistica compiutamente realizzati dalla legge Gozzini (legge 10 ottobre 1986, n. 663) per ripiegare verso obiettivi securitari, in perfetta sintonia con l'andamento definito “a fisarmonica” che per lungo tempo ha caratterizzato l'azione repressiva dello Stato contro la violenza mafiosa.

Volendo affrescare il contenuto del regime differenziato di cui all'art. 41-bisord. pen., la legge dispone a carico dei destinatari del provvedimento le seguenti limitazioni:

  • i colloqui vengono audio e video-registrati e sono ridotti ad uno al mese (per i detenuti comuni sono previsti sei colloqui mensili). La loro fruizione, preclusa salvo casi eccezionali a persone diverse da familiari e conviventi, deve avvenire in locali muniti di vetro divisorio a tutta altezza;
  • le telefonate, anch'esse registrate, vengono concesse soltanto in alternativa al confronto visivo nel numero di una al mese per la durata massima di dieci minuti (i detenuti comuni ai sensi dell'art. 18-bisord. pen. possono fruire di una telefonata a settimana della durata massima di dieci minuti);
  • alla corrispondenza è applicato il visto di censura, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia;
  • la limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall'esterno;
  • l'esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati;
  • la permanenza all'aria aperta è fruibile per un massimo di due ore giornaliere e deve svolgersi in gruppi di socialità non superiori a quattro persone.

In ogni caso, regole specifiche sono dettate per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, in relazione ai quali l'art. 41-bisord. pen. detta appropriati poteri di intervento in capo all'autorità giudiziaria competente.

Le origini

L'art. 41-bisord. pen. è stato introdotto dalla legge Gozzini (L. 10 ottobre 1986, n. 663) che, con contestuale abrogazione dell'art. 90 ord. pen., ha voluto riaffermare in maniera incisiva la necessità di predisporre rimedi nella prospettiva di ripristinare l'ordine e la sicurezza all'interno degli istituti di pena. Com'è noto, il substrato storico di riferimento era caratterizzato dalla violenza terroristica e, ancor di più, dalla pervasività del fenomeno mafioso, che solamente qualche anno più tardi si sarebbe reso protagonista della cd. stagione stragista. Per di più, ci si rese conto che il carcere nella sua veste ordinaria non era in grado di svolgere un'adeguata funzione deterrente per il mafioso, non essendo da costui temuto sia per una falsa concezione di coraggio, di prestigio e di onore personale, sia per la possibilità di mantenere contatti con la propria famiglia e con il sodalizio criminale di appartenenza.

In ogni caso, la versione originaria dell'art. 41-bis presentava una forte continuità rispetto al contenuto dell'abrogato art. 90 ord. pen., dal momento che già questo attribuiva al Ministro della Giustizia, in presenza di gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza, la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l'applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari, per un periodo determinato strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge che possano porsi in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza.

La reale novità si ebbe solo qualche anno più tardi – ad opera del D.L. 8 giugno 1992 n. 306, drammaticamente approvato pochi giorni dopo la strage di Capaci – attraverso l'introduzione di un secondo comma all'art. 41-bisord. pen. Per la prima volta venne infatti riferito il carcere duro a coloro che fossero detenuti o internati per taluno dei reati di cui al primo comma dell'art. 4-bisord. pen. o comunque per un delitto che commesso al fine di agevolare la societas sceleris. Nato sotto forma di istituto a carattere temporaneo, con termine di efficacia fissato in tre anni dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto, il legislatore ha via via prorogato questo termine sino al 2002, quando la legge 23 dicembre 2002 n. 279 ne ha sancito la definitiva stabilizzazione, traducendo in norme giuridiche i principi espressi dalla Consulta nel periodo ante riforma.

Al citato intervento normativo si è, poi, succeduta la legge 15 luglio 2009 n. 94 ad opera della quale il 41-bis è stato sottoposto a profonde modifiche, con l'intento di ripristinarne l'originario rigore e di rendere ancor più difficile ai detenuti la possibilità di mantenere collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza.

L'attuale formulazione dell'istituto, infine, è la risultante di plurimi interventi correttivi della Corte Costituzionale, di cui si darà conto nel proseguo della trattazione.

Gli interventi della legge n. 70 del 2020

Da ultimo, la legge 25 giugno 2020, n. 70, in tema di misure di contrasto alla diffusione del COVID-19, ha stabilito che quando i condannati e gli internati sottoposti al regime previsto dall'art. 41-bis ord. pen., sono ammessi alla detenzione domiciliare o usufruiscono del differimento della pena per motivi connessi all'emergenza sanitaria da COVID-19, il MdS o il TdS che ha adottato il provvedimento, acquisito il parere del p.m. presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di condanna e del PNA, valuta la permanenza dei motivi legati all'emergenza sanitaria entro il termine di quindici giorni dall'adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile. La valutazione è da effettuata immediatamente, anche prima della decorrenza dei termini sopra indicati, nel caso in cui il DAP comunichi la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell'internato ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena.

Su un ulteriore fronte, la legge in parola ha stabilito che il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, quale meccanismo nazionale di prevenzione (NPM) secondo il Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, firmato a New York il 18 dicembre 2002, ratificato e reso esecutivo ai sensi della legge 9 novembre 2012, n. 195, possa accedere senza limitazione alcuna all'interno delle sezioni speciali degli istituti incontrando detenuti ed internati sottoposti al regime speciale di cui all'art. 41-bisord. pen. e svolgere con essi colloqui visivi riservati senza limiti di tempo, non sottoposti a controllo auditivo o a videoregistrazione e non computati ai fini della limitazione dei colloqui personali di cui al comma 2-quater.

Invece, i garanti regionali dei diritti dei detenuti possono accedere, nell'ambito del territorio di competenza, all'interno delle sezioni speciali degli istituti incontrando detenuti ed internati sottoposti al regime speciale di cui al 41-bis e svolgere con essi colloqui visivi esclusivamente videoregistrati, che non sono computati ai fini della limitazione dei colloqui personali.

Infine, i garanti comunali, provinciali o delle aree metropolitane dei diritti dei detenuti, comunque denominati, nell'ambito del territorio di propria competenza, possono accedere esclusivamente in visita accompagnata agli istituti ove sono ristretti i detenuti di cui all'art. 41-bis. Tale visita è consentita solo per verificare le condizioni di vita dei detenuti. Non sono consentiti colloqui visivi con i detenuti sottoposti al regime in parola.

I destinatari

Il provvedimento di sospensione delle normali regole di trattamento è individualizzato. Ai sensi del comma 2 dell'art. 41-bisord. pen., infatti, l'istituto è rivolto a:

  • singoli detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell'articolo 4-bis;
  • singoli detenuti o internati per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l'associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un'associazione criminale, terroristica o eversiva.

In prospettiva critica occorre osservare che il riferimento al “primo periodo del comma 1 dell'art. 4-bis”, introdotto dalla legge n. 94 del 2009, è rimasto immutato pur a seguito dei numerosi interventi di ius superveniens. Ciò comporta da un lato il continuo incremento delle ipotesi contemplate dall'art. 4-bisord. pen., con conseguenti ricadute in ordine all'assoggettabilità al provvedimento ministeriale; dall'altro lato, invece, il tradizionale “parallelismo” tra gli artt. 4-bis e 41-bis ord. pen. viene drasticamente ridimensionato.

In dottrina si è infatti evidenziato che la decisa dilatazione dei destinatari del regime differenziato, operata anche attraverso il riferimento alle persone detenute ovvero internate “per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l'associazione di tipo mafioso”, è sintomatica della volontà del legislatore di svincolare le prerogative del potere amministrativo dalle garanzie offerte dalla giurisdizione. Detto altrimenti, quand'anche le limitazioni derivanti dall'art. 4-bis ord. penit. dovessero venir meno, o per avvenuta espiazione del c.d. delitto ostativo, o per effetto di attività collaborative (circostanza notevolmente ridimensionata a seguito dell'intervento della sentenza della Corte Costituzionale, 23 ottobre 2019, n. 253), il potere ablativo dell'amministrazione rimarrebbe intatto, assolutamente autonomo dalle vicende concernenti l'accesso ai benefici, configurandosi a guisa di regime penitenziario “speciale” (FIORIO).

La scindibilità del cumulo

La definizione dell'ambito di operatività dell'istituto di cui al 41-bis ord. pen. operata mediante il rinvio all'art. 4-bisord. pen. ha posto il problema, oramai risolto, relativo alla scindibilità del cumulo di pena per individuare i delitti legittimanti il regime sospensivo.

Un primo indirizzo giurisprudenziale ha ritenuto applicabile il regime differenziato anche nell'ipotesi di intervenuta espiazione della pena riferibile ai delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell'art. 4-bisord. pen. in forza del principio di unicità della pena espresso dall'art. 76 c.p. (cfr. Cass. pen., Sez. I, 11 luglio 2008, n. 28962; Trib. Sorv. Napoli, 27 maggio 2005). Il fondamento di tale presa di posizione stava nella valorizzazione del dato afferente al mantenimento dei collegamenti fra detenuto ed organizzazione criminale di riferimento, a nulla rilevando l'espiazione della quota parte di pena riferita ai reati in discussione. Tale tesi non è andata esente da critiche, assunto che secondo taluni non teneva in debito conto i risvolti applicativi dell'ipotesi in cui un soggetto, condannato solo per delitti cd. ostativi, “dopo aver espiato la relativa pena riacquistava la dovuta libertà”; in simili situazioni il problema della pericolosità sociale dell'interessato richiede(va) necessariamente – si diceva – di essere affrontato con altri strumenti. Il raffronto con il caso del condannato completamente ostativo, secondo i critici dell'inscindibilità del cumulo, manifestava l'ingiustificato trattamento diversificato che si sarebbe venuto a creare nella diversa (ma analoga) ipotesi in cui il detenuto, ristretto in virtù di un provvedimento di unificazione di pene concorrenti, finiva di scontare la condanna per uno dei reati ex art. 4-bisord. pen. e, ciononostante, continuava ad essere sottoposto al regime differenziato in ragione di istanze di tutela della collettività che il legislatore è incapace di affrontare in altro modo (CESARIS).

La dottrina prevalente, invece, ha sposato (e sposa) un orientamento garantista che dipana dall'assunto espresso dalla Corte Costituzionale con sentenza 19 luglio1994, n. 36, secondo cui l'art. 4-bis ord. pen. non ha creato uno status di detenuto pericoloso. Ne deriva che il cumulo, quando il soggetto abbia interamente scontato la condanna per i delitti ostativi, è scindibile ai fini della fruizione dei benefici penitenziari. A detta dei sostenitori di questa impostazione, le Sezioni Unite – Cass. pen., Sez. Un., 30 giugno 1999, n. 14, Ronga – applicando tale principio al regime di carcere duro, avrebbero affermato che se è pur vero che l'art. 41-bisord. pen. deroga alle normali regole del trattamento, tuttavia esso sarebbe comunque parte integrante dell'ordinamento penitenziario e del trattamento ivi disciplinato e, in quanto tale, non potrebbe sottrarsi alle regole giurisprudenziali più accreditate che si ispirano al principio del favor rei e del favor libertatis. Sarebbe così contraddittorio che l'espiazione della quota parte di pena relativa ad uno degli illeciti ostativi giovasse ai fini dell'ammissione ai benefici penitenziari e non invece per escludere il regime differenziato. Ancora, si è sostenuto che, diversamente opinando, si verrebbe a creare una disparità di trattamento tra soggetti in forza di una mera casualità, ossia l'aver scontato la pena per più reati senza soluzione di continuità o l'aver scontato separatamente tali pene.

La tesi accolta, in ogni caso, esclude la scindibilità del cumulo motivando con la necessità di dare prevalenza alle finalità di prevenzione rispetto alla commissione di ulteriori reati.

In evidenza

Con la richiamata legge n. 94 del 2009 il legislatore ha espressamente recepito la tesi tradizionale, stabilendo che in caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, la sospensione può essere disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nell' articolo 4-bis (ultimo periodo del secondo comma dell'art. 41-bis).

I contenuti

Come accennato, la significatività del 41-bis si iscrive nella scelta del legislatore di operare una netta distinzione tra i regimi differenziati intesi ad assicurare il mantenimento della sicurezza all'interno degli istituti penitenziari e i regimi finalizzati, invece, a prevenire situazioni di grave allarme sociale, esterne alle mura carcerarie, ma indotte dalla capacità delle organizzazioni criminali, soprattutto di stampo mafioso, di gestire le attività delittuose anche dal carcere.

Alla prima tipologia appartengono il regime sospensivo previsto dall'art. 41-bis co. 1 ord. pen. e il regime di sorveglianza particolare di cui all'art. 14-bis ord. pen., i quali risultano finalizzati a prevenire o reprimere situazioni di emergenza all'interno del carcere, ristabilendo l'ordine.

Alla seconda tipologia va ricondotto, invece, il regime previsto dal co. 2 dell'art. 41-bisord. pen., che mira a recidere i possibili contatti del detenuto con le organizzazioni criminali operanti all'esterno.

Tanto premesso, l'aspetto più insidioso della disciplina rimane quello attinente all'oggetto della sospensione, la quale cade sulle normali regole del trattamento dei detenuti e degli internati. Ritenuto pacifico che il carcere duro non può comunque derogare alle regole volte al riconoscimento dei diritti fondamentali della persona o comunque alle norme relative al soddisfacimento dei bisogni primari dei detenuti (es. vitto, igiene, permanenza all'aria aperta), v'è da sottolineare che la nozione di trattamento è particolarmente ampia, dal momento che è definito dalla serie dei capi che compongono il titolo I della legge 354/75, i quali comprendono in pratica tutte le regole suscettibili di interferire negativamente con le esigenze di ordine e sicurezza quando si prospetti una situazione di emergenza (PADOVANI).

Con specifico riferimento al secondo comma dell'art. 41-bisord. pen., viene stabilito che la sospensione in parola può comportare solamente quelle restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle esigenze di ordine e sicurezza e per impedire i collegamenti con l'associazione criminale di appartenenza.

Resta fermo, in ogni caso, il monito della Corte Costituzionale, a detta del quale anche nei confronti di coloro che sono sottoposti a legittime restrizioni della libertà personale (Corte Cost., 24 giugno 1993, n. 349) opera la tutela costituzionale dei diritti fondamentali dell'uomo (Corte Cost., 5 novembre 1993, n. 410).

La sospensione in caso di rivolta

Il primo comma dell'art. 41-bis ord. pen. esordisce facendo riferimento ai casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza.

La norma mira a regolamentare situazioni imprevedibili, di particolare gravità e non governabili altrimenti. Gli ordinari problemi di ordine e sicurezza, infatti, sono gestibili attraverso il ricorso all'istituto della sorveglianza particolare di cui all'art. 14-bisord. pen.

La non definita espressione “altre gravi situazioni di emergenza”, che potrebbe essere foriera di applicazioni incontrollate, risulta in realtà contenuta dall'art. 93 d.P.R. n. 230 del 2000 (di seguito reg. esec.), a detta del quale l'intervento della forza pubblica è consentito quando si verifichino disordini collettivi con manifestazioni di violenza o tali da far ritenere che possano degenerare in manifestazioni di violenza. Pertanto, il ricorso al 41-bis deve quantomeno presentare i requisiti applicativi dell'art. 93 reg. esec.; soluzione che appare corrispondente anche alla ratio della legge Gozzini, volta a fare del carcere duro un istituto dal carattere eccezionale.

Nello stesso senso appare delimitato l'ambito di operatività relativo ai luoghi, mediante il riferimento all'istituto interessato o a parte di esso, evitando così un'applicazione indiscriminata ed estesa ad una pluralità di istituti penitenziari (come, peraltro, era astrattamente possibile alla luce del precedente art. 90 ord. pen.).

Sospensione per gravi motivi di ordine pubblico

A pochi giorni dal 23 maggio 1992, data in cui persero la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, il legislatore reagì emanando il decreto legge 8 giugno 1992, n. 306 (conv. legge 7 agosto 1992, n. 356) con l'obiettivo di fornire una risposta incisiva anche alla più cruenta offensiva della criminalità mafiosa.

L'intervento normativo ha operato in una duplice direzione: da un lato ha previsto un sistema di favore nei confronti dei collaboratori di giustizia e, dall'altro, ha vietato la concessione di qualsiasivoglia beneficio penitenziario a coloro che continuassero a vantare rapporti con il sodalizio mafioso. Di qui, il trattamento penitenziario offre oramai tre circuiti differenziati:

  • uno ordinario con riguardo ai detenuti cd. comuni;
  • uno di favore riservato ai collaboratori di giustizia;
  • uno rigoroso destinato ai detenuti per i delitti di cui alla prima parte del co.1 dell'art. 4-bisord. pen. che non abbiano scelto di collaborare con la giustizia.

Nelle ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 41-bisord. pen., dunque, il provvedimento sospensivo delle normali regole di trattamento è giustificato da gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica. Si tratta, in sostanza, di elementi estranei al contesto carcerario e che si presume abbiano un così forte impatto pubblico da determinare un pericolo per l'intera collettività. L'intento del legislatore, com'è noto, è quello di recidere ogni legame fra il carcere e il mondo esterno, allo scopo di isolare gli appartenenti ad organizzazioni criminali e quindi di annullare le loro potenzialità criminali.

L'importante compressione dei diritti dei condannati sottoposti al regime di carcere duro ha determinato costanti e vivaci critiche sia nel panorama interno che sovranazionale. Anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (C.P.T.) ha stigmatizzato la totale assenza di attività risocializzative e la rarità dei contatti umani dei destinatari del 41-bis, tanto da concludere che la protrazione per lungo tempo di un siffatto regime è tale da provocare effetti dannosi costituiti da alterazioni delle facoltà sociali e mentali spesso irreversibili, come dimostrerebbe peraltro il significativo tasso di suicidi.

Risvolti applicativi

A seguito della notifica del decreto di applicazione del regime di cui all'art.41-bisord. pen., il detenuto è assegnato o trasferito in un istituto esclusivamente dedicato alla gestione di detenuti sottoposti al carcere duro, collocato preferibilmente in aree insulari, ovvero all'interno di sezioni speciali logisticamente separate dal resto dello stesso o di altro carcere (art.41-bis comma 2 quaterord. pen.). Una volta giunto nello specifico istituto penitenziario l'interessato è posto nella custodia di reparti specializzati della Polizia Penitenziaria; quindi, viene immatricolato, spogliato, perquisito, ed è chiamato a lasciare i suoi abiti ed effetti personali, e riceve al loro posto oggetti dell'Amministrazione standardizzati uguali per tutti; viene visitato da un medico, ha la possibilità di parlare con un educatore o con uno psicologo e, quindi, viene invitato ad occupare una cella, da solo (ROMICE).

Oltre a quanto già osservato in sede di inquadramento, è opportuno evidenziare che plurime circolari del DAP specificano i beni che non possono essere posseduti dai detenuti al 41-bis. Si tratta in particolare di: medicinali, fotografie, quadri e poster, orologi parietali, apparecchi elettrici o elettronici (ad eccezione di un televisore, facente capo all'Amministrazione, con ricezione di canali selezionati). Ai fini di garantire una costante osservanza di tali prescrizioni, sono previste frequenti perquisizioni e controlli – consistenti anche nella battitura delle inferriate delle finestre e nell'ispezione dei muri perimetrali.

I critici dell'istituto affermano che nella cella, il detenuto potrà liberamente pensare, ma non potrà liberamente scrivere, perché i suoi scritti e, in particolare, le sue lettere, salve particolari eccezioni, saranno sottoposti a censura o a visto di controllo; né potrà liberamente leggere, perché le sue letture saranno limitate a quei pochi libri o a quelle riviste che avrà acquistato esclusivamente tramite la Direzione del carcere ospitante; mentre tutte le eventuali annotazioni di studio a matita sul libro o su fogli di carta che potrà richiedere di avere a disposizione, saranno controllate, scrutate, verificate, interpretate; anche i movimenti in cella per alcuni detenuti più pericolosi saranno controllati a distanza a mezzo videosorveglianza (AMATO).

Per quanto riguarda la sfera affettiva, il detenuto sottoposto al 41-bis può incontrare i parenti più stretti (ossia i familiari e i conviventi) in appositi “locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti”. Il contatto fisico, pertanto, è inibito, dal momento che fra il recluso e i visitatori viene frapposto un vetro a tutt'altezza (l'unica eccezione riguarda il colloquio col figlio infra-dodicenne). Secondo la prassi penitenziaria, "tra un incontro e l'altro dovrà trascorrere un intervallo di tempo di circa un mese", escludendosi così la possibilità che i colloqui possano concedersi a distanza ravvicinata, come ad esempio negli ultimi giorni di un mese e nei primi del mese successivo e per una durata di una sola ora, salvo quanto previsto dall'art. 37, comma 10 reg. esec.

Il colloquio visivo è alternativo alla fruizione della corrispondenza telefonica. Quest'ultima, concedibile sempre con riguardo ai soli familiari nell'ipotesi di mancato godimento del colloquio visivo nell'arco del medesimo mese solare, è possibile previa fonoregistrazione e per un massimo di dieci minuti, sempreché siano trascorsi almeno sei mesi dal momento della prima applicazione del regime.

Diversa è la previsione con riguardo ai contatti con il difensore. Il detenuto, infatti, può ricevere assistenza legale attraverso colloqui – non sottoposti ad alcun tipo di limite, ad eccezione di quelli posti dal regolamento interno dell'istituto ospitante – e telefonate; anche queste ultime, dovrebbero ritenersi possibili senza limiti, ai sensi dell'art. 39 reg. esec., ma sul punto continuano a registrarsi incertezze applicative. Resta comunque fermo che il difensore dovrà continuare a ricevere le telefonate presso l'istituto penitenziario più vicino al luogo ove ha sede lo studio legale.

Per quanto riguarda la partecipazione ai processi che lo riguardano, il sottoposto al carcere duro può solamente giovarsi del sistema della videoconferenza.

Ancora, non può ricevere dall'esterno somme in peculio superiori all'ammontare mensile stabilito ai sensi dell'art. 57, comma 6, reg. esec.; così come non può ricevere dall'esterno pacchi contenenti generi ed oggetti, in quantità superiore a due pacchi al mese, complessivamente di peso non superiore a dieci chili, e due pacchi annuali straordinari contenenti esclusivamente abiti, biancheria, indumenti intimi, calzature ciascuno del peso non superiore a dieci chili.

Il DAP ha precisato che il detenuto al 41-bis non può ricevere dall'esterno o acquistare al sopravvitto, generi alimentari che per il loro utilizzo richiedano cottura, mentre può utilizzare fornelli personali solo per riscaldare liquidi e cibi già cotti, nonché per la preparazione di bevande calde e cibi di facile e rapido approntamento. Nella sostanza, quindi, i cibi che il recluso può consumare sono quelli confezionati in carcere attraverso la mensa comune.

Nell'ipotesi di comportamenti devianti e trasgressivi delle regole, i sottoposti al regime differenziato possono essere puniti con l'isolamento e potranno subire l'inflizione della sorveglianza particolare ex art 14-bisord. pen.

Orientamenti a confronto. Legittimità del carcere duro: orientamenti a confronto

È legittimo se le attività di trattamento non sono sospese, bensì semplicemente riorganizzate

Corte Cost., 26 novembre 1997, n. 376

È legittimo se l'eventuale provvedimento di proroga è adeguatamente motivato

Corte Cost., 13 dicembre 2004, n. 417

Di per sé non integra trattamento disumano e degradante

Corte EDU, 6 aprile 2000, Labita c. Italia; Corte EDU, 9 gennaio 2001, Natoli c. Italia; Corte EDU, 18 ottobre 2001, Indelicato c. Italia.

La violazione dell'art. 3 CEDU ha infatti riguardato solo il profilo procedurale, per omissione dello Stato italiano nella predisposizione di un'inchiesta effettiva e reale in presenza di denunce di abusi e di maltrattamenti da parte dei detenuti.

Astrattamente viola gli artt. 6, 8 e 13 CEDU ma complessivamente non viola l'art. 3 CEDU

Corte EDU, sez. II, 28 settembre 2000, Messina c. Italia; Corte EDU, 28 settembre 2000, Ganci c. Italia; Corte EDU, sez. III, 29 giugno 2006,Viola c. Italia.

L'orientamento giurisprudenziale interno e sovranazionale afferma l'astratta conformità del regime speciale di detenzione alla CEDU e precisa che, affinché si possa integrare una violazione dei diritti umani, sia necessario esaminare le peculiarità del caso concreto. Solamente laddove, infatti, nel caso specifico, le misure restrittive, oltrepassino la soglia minima di gravità di cui all'art. 3 CEDU allora sarà possibile individuare, nei casi più gravi un'ipotesi di tortura, ovvero, negli altri casi, di trattamento inumano e degradante. Ricade, in ogni caso, sul detenuto l'onere di allegare e provare la sussistenza “oltre ogni ragionevole dubbio” di tali maltrattamenti; in caso contrario la Corte – nel difficile bilanciamento tra esigenze di sicurezza pubblica e diritti umani del singolo – propenderà per una dichiarazione di irricevibilità del ricorso stesso.

Aspetti processuali

La competenza ad adottare il provvedimento sospensivo è propria del Ministro della Giustizia. Sulla base dell'assunto per cui il regime in esame è funzionale al ristabilimento dell'ordine e della sicurezza pubblica (con connotati, dunque, che interessano la collettività extramuraria), il secondo comma dell'art. 41-bisord. pen. statuisce la necessaria previa acquisizione del parere del p.m. che procede alle indagini o di quello presso il giudice procedente nonché di “ogni altra informazione” proveniente dalla DNA oppure dalla DIA così come dagli organismi centrali di polizia. Rispetto al procedimento prodromico all'adozione del provvedimento si segnala quindi la mancata previsione di un contraddittorio col diretto interessato, a cui non è dato nemmeno sapere il contenuto delle informazioni e del parere, non essendone previsto il deposito. Ciò trova giustificazione valorizzando il fatto che, trattandosi di provvedimento diretto alla repressione della criminalità, l'accesso agli atti e la comunicazione dell'avvio del procedimento sarebbero suscettibili di vanificare le strategie investigative.

Il provvedimento assume la forma del decreto motivato ed ha durata pari a quattro anni (in precedenza, con la legge n. 279 del 2002, la durata non poteva essere inferiore ad un anno e non superiore a due); è prorogabile nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due.

In dottrina è stato particolarmente criticato non solo il periodo di raddoppio del periodo di vigenza del provvedimento, ma soprattutto l'eliminazione della possibilità di modulare la durata del singolo decreto, letta come una frustrazione del principio di individualizzazione.

La proroga è disposta quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l'associazione criminale non è venuta meno, tenuto anche conto del profilo criminale e della posizione rivestita dal soggetto in seno all'associazione, della perdurante operatività del sodalizio criminale, della sopravvivenza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, dagli esiti del trattamento penitenziario e del tenore di vita dei familiari del sottoposto. Con locuzione laconica, l'ultimo periodo del co. 2-bis prescrive che il mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con il sodalizio o dimostrare il venir meno dell'operatività dello stesso.

Il detenuto o il suo difensore possono proporre, ai sensi del co. 2-quinquies, entro venti giorni reclamo dinnanzi al Tribunale di Sorveglianza di Roma (la competenza è inderogabile e non dipende dal locus custodiae). Il termine decorre dalla comunicazione del provvedimento che, nel caso del difensore, viene notificato dall'Amministrazione penitenziaria.

Il TdS, entro dieci giorni – termine, invero, considerato meramente ordinatorio – dal ricevimento del reclamo, decide in camera di consiglio partecipata (ovviamente l'interessato interverrà con le modalità della videoconferenza). La decisione è ricorribile per cassazione entro dieci giorni dalla sua comunicazione. Il ricorso non sospende l'esecuzione del provvedimento.

Casistica

Necessaria giustificazione del divieto di fruire di canali televisivi

A seguito dell'ordine del DAP di inibire ai detenuti sottoposti al 41-bis la visione dei canali televisivi Rai sport e Rai storia, il Magistrato di Sorveglianza di Roma, accogliendo un reclamo presentato da un detenuto, ha precisato che il potere dell'Amministrazione penitenziaria di dettare prescrizioni limitative dei diritti dei detenuti deve essere esercitato nei limiti stabiliti dalla legge. Nel caso di specie il divieto di assistere alle trasmissioni di Rai sport e Rai storia è stato ritenuto ingiustificato, mancando la prova che la visione delle stesse potesse costituire l'occasione per un contatto tra i detenuti e l'esterno (Mag. Sorv. Roma, 9 maggio 2011, n. 3031).

La successiva decisione del DAP di inibire comunque la visione dei predetti canali ai detenuti al 41-bis ha portato il MdS a sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.

La Corte Costituzionale ha così dichiarato che non spetta al Ministro della giustizia disporre che non venga data esecuzione ad un provvedimento emesso da un magistrato di sorveglianza all'esito di un procedimento giurisdizionale, nel quale si dichiari che un determinato comportamento dell'Amministrazione penitenziaria è lesivo di un diritto del detenuto (Corte Cost., 7 giugno 2013, n. 135).

Trattenimento della missiva proveniente dal difensore

È legittimo il trattenimento di una missiva spedita al detenuto al 41-bis, apparentemente proveniente dal suo difensore, in quanto contenente copie di provvedimenti giurisdizionali, le quali, in quanto prive di autenticazione, avrebbero potuto essere alterate e celare all'interno indebite informazioni (Cass. pen., sez. I, 14 giugno 2019, n. 36041).

Limitazione delle due ore di “aria”

In tutti i casi in cui non sussistano esigenze di sicurezza ulteriori la limitazione della permanenza all'aperto acquista solamente un valore afflittivo, incompatibilmente anche con quanto sancito dall'art. 27, comma 3, Cost. [Cass. pen., Sez. I, 24 aprile 2019 (ud. 28 febbraio 2019), n. 17581 e 17580].

Le ore di socialità non sono comprese nel lasso temporale concesso ai fini della permanenza all'aria aperta. L'accorpamento dell'ora d'aria e dell'ora di socialità, riducendo il tempo all'aperto al minimo consentito anche in assenza di motivi eccezionali, risulta lesivo del diritto alla salute del detenuto (Trib. sorv. Torino, ord. 11 dicembre 2003; Mag. sorv. Spoleto, ord. 27 marzo 2018; Mag. sorv. Sassari, ord. 25 gennaio 2019).

Possibilità di cuocere i cibi

Il divieto di cuocere cibi risulta privo di giustificazione e inutile alla luce degli obiettivi cui tendono le misure restrittive del carcere duro. È necessario “riconoscere che anche chi si trova ristretto secondo le modalità dell'art. 41-bis ord. penit. deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale” (Corte cost., 26 settembre 2018, n. 186).

Detenzione domiciliare umanitaria

La Cassazione – richiamando la sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito la possibilità di curarsi al di fuori del carcere per i detenuti affetti da grave infermità psichica sopravvenuta, anche se la pena supera i 4 anni – ha stabilito che anche con riferimento ai sottoposti al carcere duro l'autorità giurisdizionale ha il potere di valutare la concedibilità o meno del provvedimento di detenzione domiciliare ‘in deroga'. A tal fine è necessario un bilanciamento fra le esigenze di difesa sociale e la necessità di salvaguardare, nelle forme più adeguate, il diritto alla salute del soggetto sottoposto ad esecuzione (Cass. pen., sez. I, 7 maggio 2019, n. 29488).

Scambio oggetti tra detenuti in 41-bis appartenenti al medesimo gruppo di socialità

Il divieto descritto dall'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), ord. pen. risulta comprensibile tra detenuti assegnati a diversi gruppi di socialità. Risulta invece irragionevole – in quanto impeditivo di una seppur minima modalità di socializzazione – se esteso indiscriminatamente anche ai componenti del medesimo gruppo, fermo restando che l'amministrazione penitenziaria ben può sempre disciplinare le modalità degli scambi degli oggetti e di predeterminare limitazioni, giustificate da precise esigenze, che saranno vagliate dal magistrato di sorveglianza (Corte cost., 5 maggio 2020, n. 97).

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