Licenziamento per g.m.o.: violazione dell’obbligo di repêchage e accesso alla tutela reintegratoria

Teresa Zappia
16 Gennaio 2024

Anche la violazione dell'obbligo di repêchage apre alla tutela reintegratoria a favore del lavoratore licenziato per g.m.o.

Massima

Ai fini della tutela reintegratoria, l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore.

Il caso

Chiusura della sede di lavoro e legittimità del licenziamento per g.m.o.

La lavoratrice, la quale era stata assunta per svolgere le mansioni di cassiera, veniva licenziata per g.m.o. nel 2017.

Impugnato il recesso datoriale, il Tribunale di Napoli accoglieva il ricorso all'esito della c.d. fase sommaria, ordinando la reintegrazione. Con successiva sentenza veniva rigettata l'opposizione della società-datrice, con condanna, altresì, al risarcimento del danno, pari alle retribuzioni maturate dal licenziamento fino all'effettiva reintegrazione.

La sentenza veniva impugnata dalla società, la quale lamentava l'errata valutazione delle risultanze istruttorie circa l'illegittimità del recesso e, in subordine, l'errata applicazione della tutela c.d. reale, poiché, a suo avviso, sarebbe mancato sia il presupposto della manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo (vertendosi, invece, in un caso di violazione dei criteri di scelta), sia il requisito dimensionale.

I giudici di secondo grado non accoglievano l'appello e, a sostegno della decisione, affermavano che:

a) dalla lettera di avvio della procedura di licenziamento si evinceva che la scelta della società era connessa alla cessazione del punto vendita e alla necessità di sopprimere posizioni lavorative divenute superflue, quale quella della lavoratrice, in ragione di specifici elementi che, tuttavia, non erano stati confermati dall'istruttoria;

b) in particolare, la chiusura del punto vendita non era di per sé una causale idonea a giustificare la soppressione della posizione lavorativa,  in quanto quell'attività non era l'oggetto esclusivo dell'impresa (esistendo altri punti vendita), né le mansioni svolte erano esclusive;

c) l'istruttoria, infatti, aveva dimostrato che la lavoratrice era adibita anche ad altri reparti e aveva manifestato la disponibilità a svolgere altre attività;

d) le mansioni di cassiera, inoltre, erano fungibili con tutte quelle del livello contrattuale di riferimento.

Per tali ragioni la Corte territoriale ha ritenuto ingiustificata la scelta datoriale e, conseguentemente, illegittimo il licenziamento, considerato anche che altri colleghi con mansioni equivalenti erano stati utilmente ricollocati dalla società-datrice presso un'altra sede oppure “distaccati” presso altri supermercati del gruppo.

La suddetta ricollocazione confermava in punto di fatto la tesi della lavoratrice e doveva, pertanto, escludersi il nesso causale fra il motivo addotto e l'intimato recesso.

Tale profilo, hanno evidenziato i giudici di appello, precedeva la verifica della violazione dei criteri di scelta e dell'obbligo di repêchage, conducendo ad una più ampia tutela ai sensi di quanto previsto dall'art. 18, co. 7, L. n. 300/1970, in forza del quale è prevista l'applicazione della tutela di cui al comma 4 del medesimo articolo.

Nel caso di specie l'illegittimità del recesso emergeva con evidenza dalla prova dell'insussistenza del fatto oggettivo, sotto il profilo del nesso causale.

Con riguardo al requisito dimensionale, la Corte territoriale ha evidenziato che, anche a voler considerare solo alcune sedi e non anche l'intero gruppo societario, comunque i dipendenti in forza al momento del licenziamento consentivano l'applicazione della disciplina surrichiamata.

Avverso tale decisone la società-datrice presentava ricorso, affidato a quattro motivi, innanzi alla Corte di Cassazione.

In sintesi, la società ricorrente lamentava la violazione dell'art. 3 l. n. 604/1966 per avere la Corte territoriale escluso l'esistenza del nesso causale fra la ragione oggettiva addotta e il licenziamento della lavoratrice, pur avendo accertato che la chiusura del punto vendita era una circostanza pacifica e non contestata. Si doleva, inoltre, della ritenuta sussistenza del requisito dimensionale necessario per la tutela c.d. reale.  Ad avviso della ricorrente non poteva ritenersi applicabile la tutela reale, avendo errato i giudici di secondo grado a ritenere manifestamente insussistente il fatto a base del licenziamento.

La questione

Effettività delle ragioni organizzative poste a base del licenziamento e illegittimità del recesso datoriale

Può l'accertamento dell'effettiva chiusura della sede di lavoro presso la quale la lavoratrice era occupata giustificare il licenziamento ex art. 3 l. n. 604/1966?

La soluzione della Corte

L'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per g.m.o. include l'obbligo di repêchage

Il ricorso è stato rigettato.

Nello specifico, la Corte di Cassazione ha osservato che il licenziamento era stato fondato sul motivo oggettivo della soppressione della posizione lavorativa e che, contrariamente all'assunto della ricorrente, la Corte d'appello aveva accertato che la posizione lavorativa in questione non era stata soppressa, considerato l'intero complesso aziendale comprensivo di un altro vendita, presso il quale la lavoratrice era stata in precedenza più volte utilizzata, come emerso dall'istruttoria.

A ciò i giudici di legittimità hanno aggiunto che la Corte territoriale aveva anche valutato il profilo dell'utilizzabilità aliunde e, quindi, l'inadempimento dell'obbligo di repêchage, profilo di per sé sufficiente a sostenere la decisione. È stato rammentato, infatti, che ai fini della tutela reintegratoria l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore. Peraltro, a seguito della sentenza n. 125/2022 della Corte Costituzionale (applicabile anche ai rapporti non ancora esauriti), ai fini della reintegrazione doveva ritenersi sufficiente l'insussistenza del fatto (comprensivo dell'inadempimento dell'obbligo di repêchage), senza la necessità che detta insussistenza sia anche “manifesta”. 

Osservazioni

L'obbligo di repêchage è un elemento interno o esterno alla fattispecie del licenziamento per g.m.o.?

La sentenza in commento offre l'occasione per considerare la natura costitutiva dell'obbligo di repêchage relativamente alla fattispecie di licenziamento per g.m.o. La questione, come ben può evincersi dalla soluzione adottata dalla Corte di Cassazione, non è di poco conto, essa incidendo sul regime di tutela applicabile al singolo caso.

Nell'affrontare tale tema non può prescindersi dal testo della legge, ossia l'art. 3 della L. n. 604/1966, secondo il quale «Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato […] da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». L'osservazione più elementare che potrebbe essere avanzata è sicuramente quella dell'assenza del presupposto dell'obbligo di ricollocamento del lavoratore. il legislatore, pertanto, non imporrebbe (expressis verbis) al datore anche la verifica circa la possibilità - senza alterare la struttura aziendale - di adibire il lavoratore da licenziare a diverse mansioni. Sul datore incorrerebbe soltanto l'onere di dimostrare la concreta riferibilità del licenziamento individuale a effettive ragioni di ordine produttivo, organizzativo o funzionale. Ciò, infatti, soddisfarebbe quanto richiesto dalla legge per la legittimità del recesso.

Al dato testuale, tuttavia, la giurisprudenza ha accompagnato la valutazione degli interessi, giuridicamente rilevanti, sottesi alla materia dei licenziamenti, ossia, da un lato, quello del datore a gestire liberamente la propria attività imprenditoriale e, dall'altro, quello del dipende alla conservazione del posto di lavoro. Il bilanciamento di tali posizioni contrapposte ha portato a considerare come extrema ratio la cessazione del rapporto di lavoro, gravando il datore dell'obbligo di dimostrare non solo la sussistenza delle obbiettive ragioni alla base del licenziamento, ma anche di trovarsi nell'impossibilità di impiegare proficuamente il dipendente interessato, anche assegnando mansioni inferiori o proponendo il trasferimento di sede. La soluzione adottata dalla giurisprudenza troverebbe conforto, inoltre, nella modifica della disciplina dello jus variandi datoriale, che amplia la flessibilità della collocazione del dipendente anche in senso verticale (vd. 2103, co. 6, c.c.) L'obbligo di repêchage diviene una declinazione del generale principio di buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), per cui, ove esistano alternative organizzative al licenziamento, il datore è chiamato a percorrerle e considerare il recesso solo come extrema ratio.

In dottrina non sono mancate voci in contrasto con l'inclusione dell'obbligo di repêchage tra gli elementi costitutivi della fattispecie di licenziamento per gmo. Le censure sono state puntualizzate, in particolare, sull'assenza di un'espressa previsione di legge a sostegno, a ciò aggiungendosi il discutibile innesto del bilanciamento giurisprudenziale degli interessi coinvolti su quello operato dal legislatore. Secondo taluni voci dottrinali, però, tale obbligo troverebbe fondamento in un'interpretazione sistematica-adeguatrice, conforme alla Costituzione, dell'art. 3L. n. 604/1966. Segnatamente, è stato sostenuto che il doveroso tentativo di ricollocazione implica non tanto un diritto del dipendente al reimpiego, ma l'accertamento che la situazione organizzativa e/o produttiva dell'azienda non consente più una sua proficua utilizzazione. Secondo altri autori, inoltre, il repêchage sarebbe un elemento interno del nesso di causalità, in quanto esso permetterebbe di valutare ulteriormente, ma in una prospettiva negativa, l'esistenza effettiva del collegamento eziologico fra licenziamento e la ragioni giustificative addotte dal datore. Dalla giurisprudenza e da tale parte della dottrina scaturisce, dunque, una nozione "integrata" di giustificato motivo oggettivo.

Quanto al regime sanzionatorio dell'illegittimità del licenziamento applicabile, in via preliminare è opportuno precisare che il problema non sembra porsi con riferimento ai casi di licenziamento dei lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015, dal momento che l'art. 3 del D.lgs. n. 23/2015 prevede la tutela indennitaria qualora manchino gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Per i rapporti di lavoro ai quali trova applicazione l'art. 18 St. Lav., invece, il dibattito si è incentrato sull'applicabilità della tutela reintegratoria qualora il licenziamento venga dichiarato illegittimo per l'inadempimento dell'obbligo di repêchage. La questione ruota essenzialmente intorno alla definizione di “fatto posto a base del licenziamento” di cui al comma settimo dell'art. 18.

Secondo una parte della dottrina, non rientrando l'obbligo di repêchage tra gli elementi costitutivi della fattispecie del giustificato motivo oggettivo, l'inadempimento datoriale non comporterebbe la reintegrazione del lavoratore, ma solo la tutela indennitaria ex art. 18, comma 5, Stat. Lav. Secondo questo orientamento, “il fatto posto a base del licenziamento” sarebbe da ricondurre alle ragioni organizzative e/o produttivo-funzionali e al nesso causale tra le stesse e la soppressione del posto di lavoro, mentre il repêchage rappresenterebbe un obbligo accessorio di buona fede, attinente a un momento di valutazione successivo, diretto a spingere il datore a considerare soluzioni alternative al recesso, pur sussistendo i presupposti richiesti dall'art. 3 L. n. 604/1966. L'obbligo di reimpiego sarebbe, pertanto, un elemento esterno rispetto alle ragioni che giustificano il licenziamento, non determinando il sorgere del diritto a licenziare, ma incidendo, impedendolo, sul suo esercizio. È stato osservato, altresì, che l'espressione “insussistenza del fatto” evocherebbe l'assenza di ciò che dovrebbe sussistere, ossia le ragioni organizzative o produttive ed il nesso causale tra esse e la posizione del lavoratore, sicché difficilmente sarebbe conciliabile con un elemento, quale è l'impossibilità di una diversa ricollocazione lavorativa, che è negativo per definizione. Detta espressione dovrebbe, dunque, ritenersi evocare la motivazione e, quindi, il fatto quale dedotto nell'atto di recesso, da intendersi come “fatto materiale”.

Secondo un'altra tesi, in linea con la giurisprudenza in materia, a fronte della espressione lessicale utilizzata dal legislatore, sganciata da richiami diretti ed espliciti alle “ragioni” connesse con l'organizzazione e l'attività datoriale - previste, invece, nell'art. 3 L. n. 604/1966 - il riferimento normativo al “fatto” dovrebbe intendersi effettuato alla nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo così come elaborata in via giurisprudenziale. Conseguentemente, l'obbligo di repêchage sarebbe un elemento interno alla fattispecie.

La sentenza in commento, la quale segue tale secondo orientamento, ha richiamato, altresì, la decisione n. 125/2022 della Consulta con la quale è stato chiarito che con riferimento al licenziamento per g.m.o. l'insussistenza del fatto (con la conseguente tutela reintegratoria) include: le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di esso; il nesso causale tra le scelte organizzative del datore  e il recesso; l'impossibilità di collocare altrove il lavoratore, che consegue alla configurazione del licenziamento come extrema ratio. Viceversa, sarebbe passibile della tutela indennitaria di cui al comma quinto dell'art. 18 Stat. Lav., il mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile.

I giudici delle leggi delimitano i confini dei regimi di tutela applicabili, restringendo la tutela indennitaria ai soli casi in cui la scelta datoriale incida su più lavoratori la cui posizione in azienda sia fungibile. La riconosciuta possibilità di procedere ad un licenziamento a seguito di una modifica organizzativa di questo tipo si porrebbe, infatti, in contrasto con la qualificazione di inevitabilità del licenziamento, poiché richiedere la dimostrazione del non utile reimpiego dei lavoratori in altre posizioni eventualmente disponibili significherebbe impedire, di fatto, di conseguire suddette finalità con le modalità organizzative volute dal datore (i.e. mediante la riduzione del personale).  Nel caso in cui, invece, le ragioni organizzative e/o produttive poste a fondamento giustificativo della determinazione datoriale interessino solo uno dei dipendenti ovvero lavoratori non fungibili, tornerebbe a rilevare l'obbligatorio tentativo di ricollocazione.

Quanto sopra porta ad una considerazione: un elemento che integrerebbe la fattispecie di cui all'art. 3 L. n. 604/1966 non verrebbe sempre in rilievo al fine di stabilire la sussistenza o meno del fatto determinante il licenziamento per g.m.o., ciò venendo subordinato all'incidenza delle ragioni giustificative del recesso datoriale su dipendenti le cui mansioni siano fungibili. In tali ipotesi verrebbero in rilievo la questione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, la quale esula dai confini entro i quali è riconosciuta la tutela reintegratoria.  

Le perplessità che si accompagnano a una tale conclusione sono alquanto evidenti. Il regime di tutela verrebbe a mutare solo in funzione delle scelte datoriali nel singolo caso specifico e non in termini generali.

Ad avviso di chi scrive, l'obbligo di repêchage non potrebbe automaticamente essere incluso tra gli elementi integrativi della fattispecie in esame, non potendosi colmare il deficit normativo con i principi ispiratori del necessario tentativo di ricollocamento del lavoratore. La difficoltà nel sostenere la diversa posizione, condivisa invece dalla giurisprudenza prevalente, si individua non soltanto nello sforzo di collegare il repêchage al fatto sotto il profilo del nesso causale, ma anche dal testo del precitato art. 18 che al settimo comma considera le “altre ipotesi” in cui è accertata la non ricorrenza degli estremi del giustificato motivo. Tale periodo della disposizione non potrebbe che essere riferito agli altri presupposti, diversi da quelli strettamente connessi alle esigenze datoriali, di legittimità della fattispecie, tra cui è annoverabile proprio il mancato ricollocamento del lavoratore.  Tale interpretazione, d'altronde, appare maggiormente in linea con la direzione seguita negli ultimi anni dal legislatore in materia di regime sanzionatorio per i casi di licenziamento ingiustificato. L'interpretazione seguita dalla giurisprudenza, e da una parte della dottrina, sembrerebbe, invece, virare verso un diverso bilanciamento di interessi e ad un ampliamento della tutela reintegratoria mediante uno strumento, quale è quello dell'obbligo di repêchage, praeter legem seppur non contra legem.

Infine, qualora si volesse seguire la direzione ermeneutica espressa anche con la sentenza n. 125/2022 prefata, non potrebbe non osservarsi – come, tra l'altro, rilevato anche dai giudici di secondo grado  – che nello specifico caso trattato dalla Corte di Cassazione il licenziamento per g.m.o. risultava già privo del nesso causale tra le ragioni organizzative poste a suo fondamento e la singola posizione della lavoratrice. Inoltre, la presenza di colleghi occupati nella stessa sede soppressa e in posizione fungibile porterebbe la fattispecie concreta all'interno di quella categoria di ipotesi per le quali è stato ritenuto operativo il regime di tutela indennitario.

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