Convivenza more uxorio e impresa familiare: la parola alla Corte Costituzionale
14 Marzo 2024
Massima Va dichiarata rilevante e non manifestamente infondata – in riferimento agli artt. 2,3,4,35 e 36 Cost., all'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea ed all'art. 117, comma 1, Cost., in riferimento agli artt. 8 e 12 CEDU – la questione di legittimità costituzionale dell'art. 230-bis c.c. là dove, disponendo, al primo comma che «il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato» ed indicando, al terzo comma che «ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo», non include nel novero familiari il convivente more uxorio. Le censure di incostituzionalità si riverberano, in termini di illegittimità derivata, anche sull'art. 230-ter c.c. che non ha riconosciuto al convivente di fatto la stessa tutela del coniuge familiare ma una tutela differenziata e inferiore. Il caso Tizia ha agito giudizialmente nei confronti dei figli-eredi del proprio compagno Caio per far accertare l'esistenza dell'impresa familiare e richiedere la condanna dei coeredi alla liquidazione della quota spettantele ex art. 230-bis c.c. quale partecipe dell'impresa nel periodo compreso tra il 2004 e il 2012. Parte attrice, a fondamento delle domande formulate, ha dedotto di aver instaurato fin dal 2000 una convivenza stabile con il suo compagno Tizio, poi deceduto, e di aver prestato la propria attività lavorativa in modo continuo nella sua azienda agricola. Il Tribunale ha respinto la domanda di Tizia ritenendo che la disciplina normativa di cui all'art. 230-bis c.c. non potesse trovare applicazione alla convivenza presupponendo l'esistenza di un rapporto di coniugo, parentela o affinità nel caso di specie inesistente. I Giudici di merito hanno altresì evidenziato l'inapplicabilità della norma di cui all'art. 230-ter c.c. - che attribuisce diritti anche al convivente di fatto partecipe a un'impresa familiare - essendo il rapporto di convivenza cessato nel 2012 e quindi prima che entrasse in vigore la suddetta legge. La Corte d'Appello ha rigettato l'impugnazione di Tizia confermando così la decisione del Tribunale. Tizia ha, quindi, presentato ricorso per Cassazione denunciando tra i motivi proposti:
Con ordinanza interlocutoria n. 2121/2023 del 24.2.2023 la Suprema Corte ha richiesto l'intervento delle Sezioni Unite per la soluzione della questione concernente l'estensibilità della disciplina dell'impresa familiare ai conviventi «more uxorio» ovvero se l'art. 230-bis, comma terzo, c.c. possa essere evolutivamente interpretato in chiave di esegesi orientata sia agli artt. 2,3, 4 e 35 Cost. sia all'art. 8 CEDU come inteso dalla Corte di Strasburgo, nel senso di prevedere l'applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità. La Suprema Corte di cassazione a Sezioni Unite, con l'ordinanza in commento, ha sospeso il giudizio e rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità relativa alla norma di cui all'art. 230-bis c.c. nella parte in cui non include nel novero dei familiari anche il convivente di fatto. La questione La questione controversa riguarda l'individuazione dell'ambito soggettivo di cui all'art. 230-bis c.c., che limita la tutela alla famiglia legittima. L'ordinanza in commento evidenzia in particolar modo una serie di censure di incostituzionalità nei confronti dell'art. 230-bis c.c. attinenti alla mancanza di inclusività nei confronti del convivente di fatto. Censure che si riverberano, di riflesso, anche sull'art. 230-ter c.c. introdotto dalla l. 76/2016 prevedendo lo stesso una tutela differenziata e inferiore (rispetto al coniuge o al familiare) verso il convivente di fatto che per lungo tempo abbia lavorato nell'impresa familiare dell'altro convivente L'esclusione del convivente more uxorio da parte dell'art. 230-bis c.c., a giudizio della Corte, pare quindi porsi in contrasto non solo con gli artt. 2,3,4,35 e 36 Cost. ma soprattutto con la giurisprudenza della Corte EDU e con il diritto UE. Vi sarebbe, in altre parole, una differenziazione di tutela ingiustificata tra le persone partecipanti all'impresa che vivono una relazione formalizzata in un vincolo giuridico – sia esso matrimonio o altro tipo di unione registrata – e i conviventi more uxorio. Le soluzioni giuridiche Con l'ordinanza in commento i Giudici della Corte di cassazione a S.U. si sono preliminarmente soffermati a tratteggiare le caratteristiche dell'impresa familiare, gli orientamenti della giurisprudenza sull'estensione dell'art. 230-bis c.c. al convivente di fatto e la differente tutela riconosciuta dall'art. 230.-ter c.c. Successivamente vengono richiamate le pronunce della Corte Costituzionale, della Corte Europea dei Diritto dell'Uomo nonché le norme della CEDU riguardo l'interpretazione evolutiva della nozione di “ vita familiare” per sottoporre la questione di legittimità costituzionale dell'art. 230-bis c.c.
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno preliminarmente tratteggiato le caratteristiche dell'impresa familiare individuandone la ratio della norma L'istituto dell'impresa familiare, introdotto dalla legge di riforma del diritto di famiglia (l. n. 151/1975), trova la propria fonte in una situazione di fatto rappresentata dallo svolgimento di un'attività avente natura economica alla quale collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo, laddove non sia configurabile un diverso rapporto. In particolare, il primo comma dell'art. 230-bis del codice civile statuisce che “salvo che sia configurabile un diverso rapporto il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato”. Trattasi di un istituto giuridico che regola i rapporti che nascono in seno ad una impresa ogni qualvolta uno o più familiari dell'imprenditore prestano la loro opera in modo continuativo nella famiglia o nella stessa impresa. L'impresa familiare può, pertanto, definirsi come l'attività economica alla quale collaborano, in modo continuativo, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo, qualora non sia configurabile un diverso rapporto. Nell'ordinanza in commento viene chiarito che l'articolo 230-bis c.c. rappresenta una norma di chiusura della disciplina dei rapporti patrimoniali in ambito familiare. Infatti come si evince dall'incipit di detta disposizione (“salvo sia configurabile un diverso rapporto”), l'impresa familiare è certamente un istituto autonomo, di carattere speciale, avente natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile (Cfr. Cass. 11533/2020). Pertanto, se il famigliare sia legato all'imprenditore da vincolo di lavoro subordinato, e occorre, al riguardo, un'espressa pattuizione, si applicheranno le relative disposizioni normative. Ove sussista, tra i famigliari, un contratto di società (art. 2247 c.c.) o di associazione in partecipazione (artt. 2549 ss. c.c.), opereranno le norme a disciplina di codesti rapporti. La Corte di cassazione chiarisce altresì la ratio dell'art. 230-bis c.c.mettendo in evidenza come tale disposizione è stato introdotta con l'obiettivo di impedire che nella comunità familiare si sviluppino situazioni di sfruttamento e di superare l'originaria presunzione di gratuità che caratterizzava il lavoro familiare ritenuto fondato sull'affetto vissuto dai famigliari (affectionis vel benevolentiae causa) e quindi spesso privo di corrispettivo. Tale disposizione assicura infatti al familiare lavoratore una posizione partecipativa che consta di diritti patrimoniali e amministrativo-gestori. a) il diritto al mantenimento che, come chiarito dalla Corte di cassazione, ha ad oggetto la “somministrazione di beni necessari a soddisfare le normali esigenze di vita dell'avente diritto” al fine di assicurare all'avente diritto un “esistenza libera e dignitosa”. b) il diritto alla partecipazione agli utili; c) il diritto sui beni acquistati con gli utili: non comporta una contitolarità di questi beni, ma rappresenta un credito che i familiari vantano nei confronti dell'imprenditore e che potranno far valere nel momento di cessazione dell'impresa o della prestazione lavorativa. d) il diritto sugli incrementi dell'azienda: anche questo in base alla quantità e alla qualità del lavoro prestato da ciascun familiare. e) il diritto di prelazione sull'azienda in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda: consiste nel diritto a essere preferiti – a parità di condizioni – ad altri possibili acquirenti, nel caso di trasferimento d'azienda, e ad altri eredi, nel caso di divisione ereditaria. Le decisioni, concernenti l'impiego degli utili e incrementi, vanno adottate, a maggioranza, dai famigliari-compartecipi; analogamente dicasi per le decisioni inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi, alla cessazione dell'impresa. Attraverso l'impresa familiare è assicurata, quindi, una tutela affettiva a quei rapporti che si svolgono nell'ambito di aggregati familiari e che non possono contare su specifiche discipline di protezione. La Corte chiarisce infatti nell'ordinanza interlocutoria che “il legislatore ha voluto assicurare diritti e tutele ai familiari che collaborano nell'impresa di famiglia in mancanza di altre forma giuridica di protezione” (Cfr. Cass. S.U. n. 23676/2014). I presupposti per l'applicazione dell'art. 230-bis c.c. comprendono quindi: i) l'esistenza di un'impresa individuale; ii) la continuità nella prestazione lavorativa nell'interesse dell'impresa (si vuol far riferimento alla regolarità nell'esecuzione della prestazione); iii) la prestazione di lavoro nella famiglia con un collegamento funzionale all'attività di impresa. L'art. 230 bis c.c. fa riferimento all'attività di lavoro svolta «nella famiglia o nell'impresa familiare». Tale lavoro non si identifica tout court con quello domestico in senso stretto, dovendosi invece far riferimento ad un tipo di lavoro che si rifletta sull'andamento dell'impresa. Si tratta, in altri termini di un lavoro strumentale non alla generica utilità della famiglia, bensì alle esigenze dell'attività aziendale, su cui deve avere concreti riflessi, in termini, ad esempio, di risparmio di spesa.
I Giudici di legittimità nell'ordinanza interlocutoria del 18.1.2024 n. 1900 hanno ripercorso l'evoluzione della giurisprudenza - prima dell'entrata in vigore della legge 20 maggio 2016, n. 76, con cui sono stati riconosciuti alcuni diritti patrimoniali al convivente more uxorio che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa del partner - circa la possibilità di estendere le tutele apprestate dall'art. 230-bis c.c. anche alla famiglia di fatto e, nello specifico, al convivente more uxorio che svolga la propria attività all'interno dell'impresa familiare. Prima dell'emanazione della Legge Cirinnà ci si è interrogati a lungo sulla possibilità di considerare il convivente more uxorio quale componente dell'impresa familiare e quindi soggetto legittimato a beneficiare dei diritti previsti dall'art. 230 bis c.c. La giurisprudenza prevalente di legittimità la negava ritenendo che dalla tutela offerta dall'art. 230-bis fossero esclusi i componenti della famiglia di fatto dell'imprenditore che collaborano nella sua impresa (Cass. civ. Sez. II, 29 novembre 2004, n. 22405 e Cass. civ. Sez. lavoro, 2 maggio 1994, n. 4204). Per la Suprema Corte detta disposizione costituisce norma eccezionale - che nell'elencare tassativamente quali siano i soggetti che possono rivestire la qualifica di collaboratori familiari non contempla il convivente - ed è pertanto insuscettibile di interpretazione analogica. Fu anche dichiarata la manifesta infondatezza, in riferimento agli art. 2,3 e 36 Cost., della questione di legittimità costituzionale dell'art. 230-bis c.c., nella parte in cui non estende alla famiglia di fatto la disciplina dell'impresa familiare (Cass. 2 maggio 1994, n. 4204; orientamento confermato da Cass. 29 novembre 2004, n. 22405, richiamando il carattere di eccezionalità della norma). Secondo tale filone giurisprudenziale il concetto di “familiare” non può che riguardare “[…] la famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti”, così che “[…] un'equiparazione fra coniuge e convivente si pone in contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico dei coniugi conseguenze perenni ed ineludibili (quale il dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, che persiste anche dopo il divorzio), mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale ad nutum” (Cfr. Cass. civ., 29 novembre 2004, n. 22405). La tutela offerta al convivente di fatto si riduce, pertanto, all'azione d'ingiustificato arricchimento ex articolo 2041 cod. civ. (Cass. civ., sez. I, sent., 25 gennaio 2016, n. 1266, in Guida al dir., n. 12, 2016, p. 64). Vi sono però stati anche alcune pronunce favorevoli (cfr. per tutti, Cass. civ., Sez. lavoro, 15 marzo 2006, n. 5632: "Le prestazioni lavorative tra conviventi "more uxorio" rientrano tra le prestazioni di cortesia gratuite e sfornite di valore contrattuale, fatta salva la prova di un contratto di lavoro subordinato o di un rapporto d'impresa familiare. L'art. 230-bis c.c. è applicabile, infatti, anche in presenza di una famiglia di fatto, che costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale.") che, nell'individuare la ratio legis nella volontà di tutelare il lavoro prestato all'interno di gruppi uniti da legami affettivi "familiari", hanno sostenuto l'applicabilità analogica della norma alle cosiddette coppie di fatto. Anche in dottrina si sono fronteggiati due filoni: uno che propende per un'interpretazione letterale e che quindi esclude l'applicazione al convivente more uxorio dell'art. 230 bis cod. civ. e l'altro che estende tale disciplina alla famiglia di fatto.
Il contrasto formatosi in dottrina e in giurisprudenza circa l'applicabilità della disciplina dell'impresa familiare di cui all'art. 230-bis c.c. alla convivenza more uxorio è stato risolto con l'introduzione dell'art. 230 ter c.c. da parte della Legge n. 76/2016 (c.d. Legge Cirinnà). Tale disposizione, applicabile anche all'unione civile in virtù dell'art. 1 comma 20, l. 76/2016, prevede che: "Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato". La suddetta norma, introdotta con l'obiettivo di colmare un vuoto di tutela esistente nell'ordinamento italiano e proteggere anche il lavoro prestato dal convivente nell'impresa familiare, estende anche al convivente more uxorio dell'imprenditore l'insieme dei diritti di natura economica (ad eccezione del mantenimento) garantiti al collaboratore dell'impresa familiare. Il convivente di fatto che collabora nell'impresa può quindi far valere i propri diritti per il lavoro prestato, in mancanza di altro rapporto che lo giustifichi. Si evidenzia che per il convivente more uxorio l'art. 230-ter c.c. prevede che la collaborazione sia prestata in modo stabile. È quindi necessario un quid pluris rispetto al requisito della continuità richiesto invece dall'art. 230-bis c.c. A tal fine, per stabilità deve intendersi l'inserimento duraturo all'interno dell'organizzazione aziendale. Occorre, infine, che il convivente di fatto, diversamente da quanto accade per il collaboratore familiare, apporti il proprio lavoro solo nell'impresa familiare e non anche all'interno della famiglia, ancorché finalizzato all'attività di impresa. Sono invece sprovvisti della copertura accordata dall'art. 230-ter c.c. i familiari del convivente more uxorio, non rivestendo lo status di affini del convivente imprenditore. Nell'ordinanza in commento la Corte di Cassazione, richiamando il principio di irretroattività sancito dall'art. 11 delle preleggi secondo il quale “la legge non dispone che per l'avvenire, essa non ha effetto retroattivo” esclude la portata retroattiva dell'art. 230-ter c.c. rilevando come l'introduzione di detta norma non rappresenti una scelta discrezionale del legislatore ma un vero e proprio obbligo di tutela imposta dalla lettura sistematica delle norme costituzionali (artt. 2,3,4,35,36), europee (art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea) e convenzionali (Art. 8 CEDU).
La Legge Cirinnà non accorda tout court al convivente di fatto la stessa tutela prevista per i collaboratori familiari dall'art. 230-bis c.c. Ne consegue che la posizione del coniuge non possa essere parificata a quella del convivente more uxorio. Infatti, dalla lettura della norma, si evince che il convivente: • non ha il diritto al mantenimento da parte del titolare dell'impresa; • non ha il diritto di partecipare alle decisioni relative all'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa; • non ha il diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda. Al convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera nell'impresa familiare è infatti riconosciuta unicamente una partecipazione ai relativi utili, ai beni acquistati con gli stessi, oltre che agli incrementi aziendali, anche in relazione all'avviamento, da commisurarsi al lavoro prestato. La necessità che la partecipazione agli utili sia commisurata al lavoro prestato impone poi l'utilizzo di criteri più restrittivi rispetto a quelli applicati dall'art. 230-bis c.c. per determinare la quota parte di utili spettante a ciascun collaboratore familiare, in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato. Nessun riferimento viene fatto nella nuova norma al profilo decisionale, pertanto, il convivente non potrà prendere parte all'assunzione delle decisioni gestionali previste dall'art. 230-bis c.c. Ugualmente, non è previsto il diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda. Nella pronuncia in commento la Suprema Corte evidenzia come il legislatore abbia attribuito al convivente more uxorio una tutela diversa e inferiore rispetto al familiare. Il contrasto dell'art. 230 bis c.c. con le norme costituzionali, con la giurisprudenza della Corte Edu e con il diritto dell'UE. La Corte di Cassazione a S.U. chiarisce, altresì, che l'esclusione da parte dell'art. 230-bis c.c. di ogni tutela, anche minima, nei confronti del convivente di fatto nonché il trattamento economico “differenziato” di quest'ultimo previsto dall'art. 230-ter c.c. deporrebbe per una lettura estensiva dell'art. 230-bis c.c. nel senso di un riconoscimento al convivente more uxorio, che partecipa all'impresa familiare, degli stessi diritti previsti per il coniuge. I Giudici di Legittimità evidenziano in particolare come “una differenziazione rispetto alle persone che vivono una relazione formalizzata in un vincolo giuridico - sia esso matrimonio o altro tipo di unione registrata – si porrebbe in contrasto con gli artt. 2,3,4,,35,36 Cost, con la giurisprudenza della Corte EDU e con il diritto UE.” Nell'ordinanza in commento i Giudici di legittimità giungono a tale conclusione dopo aver richiamato: i) alcune pronunce della Corte Costituzionale che hanno chiarito come l'istituto dell'impresa familiare è stato introdotto con la finalità di tutelare il lavoro negli aggregati familiari e che per formazione sociale rientrante nell'art. 2 Cost. deve intendersi ogni forma di comunità idonea a favorire lo sviluppo della persona nella vita di relazione con valorizzazione di un modello pluralistico (Corte Cots. N. 476/1987 e Corte Cost. n. 138/210). ii) le pronunce della Corte EDU che ha evidenziato come, in sede di interpretazione dell'art. 8, par. 1, CEDU, la vita dei conviventi di fatto rientri nella concezione di "vita familiare" (tra le tante: Corte EDU, 13/06/1979, Marckx c. Belgio; Corte EDU, 26/05/1994, Keegan c. Irlanda; Corte EDU, 05/01/2010, Jaremowicz c. Polonia; Corte EDU, 27/04/2010, Moretti e Benedetti c. Italia; Corte EDU, 24/06/2010, Schalk and Kopf c. Austria; Corte EDU, 21/07/2015, Oliari ed altri c. Italia: Corte EDU 14/12/2017, Orlandi ed altri c. Italia; Corte EDU, 3 aprile 2012, Van der Heijdel c. Netherlands). I giudici di Strasburgo hanno infatti interpretato evolutivamente la nozione di «vita familiare» di cui all'art. 8 Cedu, includendovi, oltre al rapporto di coniugio, la relazione di fatto tra partner di sesso diverso, la relazione tra due persone unite in matrimonio religioso e, in tempi più recenti, la relazione tra partner dello stesso sesso, sia di fatto sia sotto forma di unione civile (Corte Edu, 14 dicembre 2017, Orlandi e altri c. Italia, ricc. nn. 26431/12 e altri). La nozione di famiglia comprende, dunque, anche i legami familiari di fatto se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio. iii) la recentissima sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (n. 35385/2023) che ha stabilito, a fini della determinazione dell'assegno divorzile, la rilevanza del periodo di convivenza prematrimoniale “avente i connotati di stabilità e continuità” soprattutto se, durante tali anni, sono state compiute scelte di vita e professionali determinanti. In tal modo è stata di fatto riconosciuta la stessa valenza al tempo trascorso nell'unione coniugale di quello passato come coppia di fatto. iv) Per la Suprema Corte l'esclusione di ogni tutela anche minima in favore del convivente da parte dell'art. 230-bis c.c. rileva sotto il profilo della: -violazione del principio di eguaglianza (art.3 Cost.) posto che si verrebbe a creare una disparità di trattamento fondata sulla (sola) condizione personale a fonte di una sostanziale equivalenza dell'attività svolta nell'impresa; -violazione dell'art. 4 Cost. che riconosce il lavoro come strumento di affermazione della personalità del singolo; -violazione degli artt. 35 e 36 Cost. che tutelano il lavoro riconoscendo il diritto alla retribuzione; -violazione dell'art. 9 della Carta dei Diritti fondamentali dell'UE secondo cui “il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio”. Viene così garantita e tutelata anche la scelta di convivere anche al di fuori della presenza di vincoli formali nei rapporti familiari. Riconoscere, quindi, la partecipazione di chi ha prestato in maniera continuativa il proprio lavoro nell'impresa familiare diventerebbe, secondo la Corte, una necessità per evitare conflitti la giurisprudenza della Corte EDU, nonché con il diritto UE nonché con i principi costituzionali. Osservazioni Tale pronuncia è certamente espressiva del “travagliato” rapporto tra l'impresa familiare e il convivente more uxorio. Muovendo dalla preliminare considerazione riguardante l'inapplicabilità ratione temporis dell'art. 230-ter c.c. (introdotto dall'art. 1, comma 46, l. n. 76/2016) - peraltro insuscettibile di applicazione o di interpretazione retroattiva - il dubbio di legittimità costituzionale dalla Corte di Cassazione pare del tutto ragionevole e fondato risultando obiettivamente ingiustificabile un trattamento differenziato del lavoro prestato nell'impresa dal convivente rispetto a quello del familiare alla luce dei principi costituzionale, delle norme della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e dei principi enunciati dalla Corte EDU che ha esteso la nozione di “vita familiare” di cui all'art. 8 anche alla famiglia non legittima. La famiglia deve essere considerata – in linea anche con l'evoluzione sociale – come sede di autorealizzazione e di crescita segnata dal reciproco rispetto ed immune da ogni distinzione di ruoli, nell'ambito della quale i singoli componenti conservano le loro essenziali connotazioni e ricevono riconoscimento e tutela, prima ancora che come coniugi o conviventi, come persone, in adesione al disposto dell'art. 2 Cost., che nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità, delinea un sistema pluralistico ispirato al rispetto di tutte le aggregazioni sociali nelle quali la personalità di ogni individuo si esprime e si sviluppa (Cfr. anche Cass. civ., sez. I, sent. 18 maggio 2005, n. 9801.) Se consideriamo che l'oggetto della tutela prevista dall'art. 230-bis c.c. è di fatto la prestazione continuativa del familiare - concepita come partecipazione ad un progetto lavorativo comune al gruppo - e che tale norma trova la propria ratio nell'esigenza di tutela della persona che lavora, non sembra in alcun modo giustificabile una differenza di tutela e trattamento tra le posizioni di famiglia legittima e famiglia di fatto tenuto conto che i valori costituzionali di riferimento sono quelli della dignità, della libertà e dell'uguaglianza. Se l'art. 230-bis c.c. è preordinato alla protezione del bene “lavoro” in ogni sua forma e a garantire una tutela minima e inderogabile a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono negli aggregati familiari non pare ragionevole contemplare una tutela diversificata a seconda del soggetto che svolga l'attività (ad esempio coniuge o convivente). Quindi la situazione del convivente more uxorio che a lungo ha operato nell'impresa familiare dell'altro convivente non pare integrare alcuno dei motivi eccezionali che possono legittimare una differenziazione normativa rispetto alle persone che vivono una relazione formalizzata in un vincolo giuridico. Certamente l'odierno pluralismo dei modelli familiari ha trovato un eco e, al tempo stesso, uno strumento di promozione nella giurisprudenza della Corte Edu, che, tuttavia, non ha ancora portato a compimento il percorso di parificazione di status e diritti dei conviventi o partner di unioni civili rispetto al coniuge. Sarà la Corte costituzionale a decidere se la disciplina dell'impresa familiare di cui all'art. 230-bis c.c. possa essere applicata anche al convivente more uxorio e se la minor tutela accordata dal 2016 al convivente rispetto al coniuge sia costituzionale oppure no. Spetterà, quindi, alla Corte Costituzionale capire se attribuire tutele diverse a situazione giuridiche analoghe (il lavoro nell'impresa) sia corretta e se questo trattamento “sperequato” sia legittimo. |