Onere delle speseFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 91
03 Febbraio 2020
Inquadramento
L'onere delle spese di lite è disciplinato dagli artt. 91 e ss. c.p.c. (in seguito, tutte le disposizioni del c.p.c. verranno citate con la sola indicazione numerica). La regola fondamentale è dettata dall'art. 91, comma 1, prima parte, ove si pone il principio della soccombenza, secondo cui, pur se ciascuna delle parti è tenuta ad anticipare le spese di lite, quella vittoriosa ha diritto a ripetere dal soccombente quanto abbia anticipato. La portata della norma è limitata dai disposti della seconda parte dello stesso comma e dall'art. 92 in tema di compensazione delle spese. L'art. 93 disciplina il caso in cui il difensore non abbia riscosso l'onorario ed abbia anticipato le spese. L'art. 94 disciplina le ipotesi in cui le spese di lite possono essere poste a carico degli eredi beneficiati, dei tutori, dei curatori e, in generale, di coloro che rappresentano o assistono la parte in giudizi. L'art. 95 regola l'onere delle spese nell'ambito delle procedure di esecuzione forzata. L'art. 96 disciplina il caso della «lite temeraria». Infine, l'art. 97 disciplina i casi in cui vi sia una pluralità di soccombenti. Principio della soccombenza
L'art. 91 pone il principio della soccombenza (cui, secondo autorevole dottrina, deve riconoscersi rilevanza costituzionale: art. 24 Cost.), secondo cui il soggetto che all'esito della lite rimanga soccombente deve subire l'onere non soltanto delle proprie spese, ma deve rimborsare al soggetto vittorioso le spese che questi abbia incontrato: «la necessità di agire o resistere in giudizio non deve andare a danno della parte che ha ragione» (in tal senso, Cass. civ., sez. lav., ord. 10 giugno 2011, n. 12893; Cass. civ., sez. II, 10 aprile 2012, n. 5696). Il criterio della soccombenza, al fine di attribuire l'onere delle spese processuali, non si fraziona a seconda dell'esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente all'esito finale della lite (ex multis, Cass. civ., sez. VI, ord. 13 marzo 2013, n. 6369; Cass. civ., sez. I, ord., 4 agosto 2017, n. 19613). La portata della norma ha subito una significativa limitazione allorché è stata in essa introdotta (ad opera dell'art. 45 della legge n. 69/2009) la previsione che, in caso di accoglimento della domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa, le spese del processo maturate dopo la formulazione di tale proposta devono essere poste a carico della parte che l'abbia ingiustificatamente rifiutata, salva, laddove ne ricorrano le condizioni, l'applicabilità della disposizione di cui all'art. 92, comma. Segue. Nozione di parte soccombente
Parte soccombente è quella che abbia azionato una pretesa accertata come infondata o abbia resistito ad una pretesa fondata, dando perciò causa al processo o alla sua protrazione (Cass. civ., sez. VI, ord., 19 giugno 2019, n. 16431). Non vale ad escludere la soccombenza la circostanza che, una volta convenuta in giudizio, la parte sia rimasta contumace o abbia riconosciuto come fondata la pretesa che aveva prima lasciato insoddisfatta, così da renderne necessario l'accertamento giudiziale (Cass. civ., sez. VI, ord., 29 maggio 2018, n. 13498). La soccombenza può essere determinata non soltanto da ragioni di merito, ma anche da ragioni di ordine processuale, non richiedendo l'art. 91, per la statuizione sulle spese, una decisione che attenga al merito, bensì una pronuncia che chiuda il processo davanti al giudice adito (Cass. civ., sez. III, ord., 13 settembre 2018, n. 22257, che tale ha ritenuto di dover considerare anche la pronuncia con cui il giudice d'appello rimette le parti davanti al primo giudice per ragioni di giurisdizione ai sensi dell'art. 353 c.p.c.).
Segue. Intervento in causa volontario o coatto
i) È incontroverso il principio secondo cui colui che attivamente (interveniente volontario) o passivamente (chiamato in causa) si espone all'esito del processo, oltre a conseguire i vantaggi, debba anche sopportare le eventuali conseguenze sfavorevoli che, in ordine alle spese, sono stabilite a suo carico in base al principio della soccombenza e ciò anche se si tratti di spese non rigorosamente conseguenziali e strettamente dipendenti dalla sua attività (Cass. civ., sez. lav., 19 aprile 2006, n. 9049; Cass. civ., sez. I, 11 aprile 2013, n. 8886). ii) L'interveniente principale o litisconsortile può risultare vittorioso per quanto inerente alla sua posizione e così anche l'interveniente adesivo laddove vittoriosa risulti la parte adiuvata. Il rimborso delle spese processuali sostenute da colui che sia legittimamente intervenuto ad adiuvandum è posto, senza che occorra che la sua presenza sia stata determinante ai fini dell'esito favorevole della lite per l'adiuvato, a carico della parte la cui tesi difensiva, risultata infondata, abbia determinato l'interesse all'intervento (Cass. civ., sez. II, 14 maggio 2018, n. 11670). iii) In caso di soccombenza, laddove in capo all'interveniente venga riconosciuto un interesse comune ad altre parti, l'eventuale condanna alle spese dovrà avvenire in solido; altrimenti, in proporzione al suo specifico od autonomo interesse, secondo la regola sancita dall'art. 97, 1° comma (Cass. civ., sez. VI, ord., 16 maggio 2017, n. 12025). iv) Quanto alle spese sostenute dal soggetto chiamato in causa, ad istanza di parte o iussu iudicis, possono verificarsi differenti ipotesi: a) Il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto (oppure iussu iudicis) deve essere posto a carico dell'attore, salva l'ipotesi di compensazione, ove la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore stesso e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l'attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda. Le spese vanno, invero, poste a carico della parte che, rimasta soccombente, abbia provocato o giustificato la chiamata, trovando tale statuizione adeguata giustificazione nel principio di causalità, che governa la regolamentazione delle spese di lite (ex multis, Cass. civ., sez. I, 14 maggio 2012, n. 7431; Cass. civ., sez. VI, 8 febbraio 2016, n. 2492; Cass. civ., sez. II, 25 settembre 2019, n. 23948). b) Identica soluzione è stata data, ricorrendo le suddette condizioni (chiamata resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore), nei casi di rinuncia agli atti del giudizio da parte dell'attore, anche in tale ipotesi nulla rilevando la mancata proposizione di domande nei confronti del terzo (Cass. civ., sez. I, 12 ottobre 2006, n. 21933; Cass. civ., sez. II, 15 novembre 2013, n. 25781). c) Il rimborso deve rimanere, invece, a carico della parte chiamante qualora la sua iniziativa si sia rivelata palesemente arbitraria (Cass. civ., sez. I, 14 maggio 2012, n. 7431; Cass. civ., sez. VI, ord., 21 aprile 2017, n. 10070; Cass. civ., sez. I, ord., 21 febbraio 2018, n. 4195; Cass. civ., sez. II, 25 settembre 2019, n. 23948). d) Una particolare situazione si prospetta, nei giudizi risarcitori, nei casi in cui la parte convenuta («danneggiante») sia titolare di un rapporto di assicurazione. Si è affermato che, in tali ipotesi, la costituzione e difesa dell'assicurato viene svolta anche nell'interesse dell'assicuratore, ritualmente chiamato in causa, in quanto finalizzata all'obiettivo ed imparziale accertamento dell'esistenza dell'obbligo di indennizzo. Pertanto, anche nel caso in cui nessun danno venga riconosciuto al terzo che ha promosso l'azione, l'assicuratore è tenuto a sopportare le spese di lite dell'assicurato, nei limiti stabiliti dall'art. 1917, comma 3, c.c. (Cass. civ., sez. III, 28 febbraio 2008, n. 5300; Cass. civ., sez. III, 11 settembre 2014, n. 19176). Analogamente (almeno per certuni aspetti), è stato affermato che l'assicuratore della responsabilità civile, a seguito della chiamata in garanzia, assume nel giudizio la posizione di interveniente adesivo autonomo, sicché, ove abbia contestato la fondatezza della domanda attorea, resta soggetto al principio della soccombenza al fine della regolamentazione delle spese di lite, indipendentemente da ogni questione sulla natura e sul titolo dell'intervento, e può essere condannato in solido con la parte con la quale condivide il medesimo interesse (Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 2017, n. 925). i) Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa. Di conseguenza, sia la sentenza con cui il giudice dichiari la propria incompetenza (salvo il caso di dichiarazione di incompetenza con ordinanza sull'accordo delle parti, in tal caso dovendo provvedere il giudice cui è rimessa la causa – Cass. civ., sez. VI, 8 novembre 2013, n. 25180), sia quella con cui declini la propria giurisdizione, chiudendo il processo innanzi a sé, deve contenere la pronuncia sulle spese, non rimettibile al giudice dichiarato competente o provvisto di giurisdizione (v., per la competenza, Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2006, n. 22541; v. per la giurisdizione, Cass. civ., sez. I, 19 gennaio 1999, n. 469). A conferma della regola, la pronuncia sulle spese non deve essere contenuta nella sentenza non definitiva di condanna generica, atteso che con tale sentenza il giudice non conclude la controversia e non chiude il processo (Cass. civ., sez. III, 6 maggio 2003, n. 6884). ii) È da ritenere non dubitabile che la pronuncia relativa alle spese debba essere assunta anche nel caso in cui il provvedimento che conclude il giudizio abbia la forma di ordinanza o di decreto ma la natura di sentenza. iii) La decisione di condanna deve intendersi estesa implicitamente anche alla restituzione della somma pagata dalla parte vittoriosa a titolo di contributo unificato in quanto lo stesso, previsto dall'art. 13 del d.P.R. n. 115/2002, costituisce un'obbligazione ex lege di importo predeterminato, che grava sulla parte soccombente per effetto della stessa condanna alle spese, la cui statuizione può conseguentemente essere azionata, quale titolo esecutivo, per ottenere la ripetizione di quanto versato in adempimento di quell'obbligazione (Cass. civ., sez. I, 10 luglio 2019, n. 18529). Del pari, debbono ritenersi rientranti fra le spese di lite quelle di registrazione della sentenza, in quanto conseguenti alla pronuncia, senza che nel provvedimento di condanna sia necessaria un'espressa statuizione al riguardo (Cass. civ., sez. II, 15 ottobre 2018, n. 25680). La sentenza di condanna della parte soccombente al pagamento delle spese processuali in favore della parte vittoriosa, liquidandone l'ammontare, costituisce titolo esecutivo, pur in difetto di un'espressa domanda e di una specifica pronuncia, anche per conseguire il rimborso dell'I.V.A. che la medesima parte vittoriosa assuma di aver versato al proprio difensore, in sede di rivalsa e secondo le prescrizioni dell'art. 18 del d.P.R. n. 633/1972, trattandosi di un onere accessorio che, in via generale, ai sensi dell'art. 91, comma 1, consegue al pagamento degli onorari al difensore (Cass. civ., sez. III, 1 aprile 2011, n. 7551). Infine, costituisce una componente delle spese giudiziali anche il rimborso c.d. forfetario delle spese generali, la cui misura è predeterminata dalla legge, che spetta automaticamente al professionista difensore, anche in assenza di allegazione specifica e di apposita istanza implicita nella domanda di condanna al pagamento degli onorari giudiziali che incombe sulla parte soccombente (da ultimo, Cass. civ., sez. I, ord. 30 maggio 2018, n. 13693). iv) Il provvedimento di condanna alle spese della parte soccombente non deve essere sorretto da apposita motivazione, essendo sufficiente che dalla sentenza risulti quale parte sia stata dal giudice ritenuta soccombente (Cass. civ., sez. II, 23 febbraio 2012, n. 2730). v) Secondo l'orientamento dominante, in tema di liquidazione delle spese processuali, il giudice, in presenza di una nota specifica prodotta dalla parte vittoriosa, non può limitarsi ad una globale determinazione «dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato» (espressione da sostituire, nell'attualità, con «compensi e spese») in misura inferiore a quelli esposti, ma ha l'onere di dare adeguata motivazione dell'eliminazione e della riduzione di voci da lui operata, allo scopo di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l'accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle tariffe, in relazione all'inderogabilità dei relativi minimi (Cass. civ., sez. III, 14 ottobre 2015, n. 20604; Cass. civ., sez. lav., 5 aprile 2017, n. 8824). Secondo un altro indirizzo, la determinazione degli onorari di avvocato e degli «onorari e diritti di procuratore» («compensi e spese», dovendo valere la medesima considerazione svolta appena più sopra) costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice che, qualora sia contenuto tra il minimo ed il massimo della tariffa, non richiede una specifica motivazione e non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità (Cass. civ., sez. I, 9 ottobre 2015, n. 20289). Segue. Fasi di impugnazione
Il giudice di appello, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d'ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali. Il relativo onere va attribuito e ripartito tenendo presente l'esito complessivo della lite, in quanto la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale, mentre, in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle spese può essere modificata soltanto se il relativo capo della sentenza abbia costituito oggetto di specifico motivo d'impugnazione (Cass. civ., sez. III, ord. 12 aprile 2018, n. 9064). Deve, in argomento, rammentarsi che è opinione consolidata quella secondo cui, laddove la parte vittoriosa in fase di gravame sia rimasta contumace in primo grado, non può essere pronunciata in suo favore condanna alle spese processuali di tale fase, considerato che la pronuncia di condanna ha il suo fondamento nell'esigenza di evitare una diminuzione patrimoniale alla parte che ha dovuto svolgere un'attività processuale per ottenere il riconoscimento e l'attuazione di un suo diritto (Cass. civ., sez. VI, ord. 19 giugno 2018, n. 16174; Cass. civ., sez. III, 26 giugno 2018, n. 16786).
Segue. Cessazione della materia del contendere
Il giudice può, in qualsiasi stato e grado del processo, dare atto d'ufficio della cessazione della materia del contendere intervenuta nel corso del giudizio se ne riscontri i presupposti, laddove, cioè, risulti ritualmente acquisita o concordemente ammessa una situazione dalla quale emerga che è venuta meno ogni ragione di contrasto tra le parti, a ciò non ostando la perdurante esistenza di una situazione di conflittualità in ordine alle spese, in ordine a cui si deve, tuttavia, provvedere utilizzando il criterio della soccombenza virtuale, secondo il principio di causalità, considerando, a tal fine, l'intera vicenda processuale (ex multis, Cass. civ., sez. I, ord., 18 ottobre 2018, n. 26299). Segue. Estinzione del giudizio. Rinuncia agli atti
Ai sensi dell'art. 310, comma 4, le spese del processo estinto restano a carico delle parti che le hanno anticipate. Non è operativo, dunque, il principio della soccombenza. Qualora, peraltro, l'estinzione del giudizio sia determinata da rinuncia agli atti (accettata) ad opera di una delle parti, l'art. 306, comma 4, dispone che il rinunciante (che viene, in tal modo, equiparato al soccombente) deve rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo tra loro e che la liquidazione è fatta dal giudice istruttore con ordinanza non impugnabile. Art. 92 c.p.c.
La disposizione dell'art. 92 integra sotto diversi aspetti la disciplina in tema di soccombenza posta dall'art. 91. Il 1° comma prevede l'attribuzione al giudice del «potere» di escludere, nel pronunciare la condanna, la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vittoriosa, qualora le ritenga eccessive o superflue, nonché del «potere» di condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che per trasgressione al dovere di lealtà e probità (art. 88) abbia causato all'altra parte. Il 3° comma dispone che, laddove le parti si siano conciliate, le spese si intendono compensate, salva diversa convenzione tra le medesime riportata nel processo verbale di conciliazione. Il 2° comma regolamenta la compensazione, totale o parziale, delle spese di lite. Segue. Compensazione delle spese di lite
Nella sua formulazione originaria, il 2° comma dell'art. 92 consentiva la disapplicazione del principio della soccombenza, consentendo al giudice di disporre che le spese restassero a carico di ciascuna delle parti per «giusti motivi». Pur non essendo previsto dalla norma l'obbligo di esplicitazione di tali motivi, l'orientamento assolutamente prevalente in sede di legittimità è sempre stato quello che di essi dovesse darsi contezza, con la precisazione che non potessero essere costituiti dal riferimento alla natura o al modesto valore della controversia oppure risolversi nell'uso di motivazioni illogiche o meramente apparenti(v., ex multis,Cass. civ., sez. III, 11 febbraio 2002, n. 1898 e, da ultimo, Cass. civ., sez. VI, ord., 12 ottobre 2018, n. 25594; Cass. civ., sez. VI, ord., 3 luglio 2019, n. 17816; contra, Cass. civ., sez. I, 28 novembre 2003, n. 17692; Cass. civ., sez. III, 15 febbraio 2006, n. 3282). L'obbligo di esplicitazione dei motivi a supporto della decisione sulle spese venne, comunque, sancito con la legge n. 263 del 2005. A seguire, con la legge n. 69 del 2009, venne disposto che alla compensazione potesse farsi luogo, in difetto di soccombenza reciproca, solo per «gravi ed eccezionali ragioni» (disposizione qualificata «elastica» dalla giurisprudenza, atta ad includere, fra le altre, la situazione di obiettiva incertezza sul diritto controverso – così Cass. civ., sez. lav., ord., 7 agosto 2019, n. 21157), da esplicitare idoneamente (Cass. civ., sez. VI, ord., 9 aprile 2019, n. 9977, secondo cui le gravi ed eccezionali ragioni non possono essere illogiche od erronee, altrimenti configurandosi il vizio di violazione di legge, denunciabile in sede di legittimità). Nell'attualità (in forza delle modifiche introdotte dal d.l. n. 132/2014, convertito con modificazioni nella legge n. 162/2014), la norma dispone che nei casi di soccombenza reciproca oppure nei casi di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, è data facoltà al giudice di compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero. La portata della norma è stata ampliata in forza di intervento compiuto recentemente dalla Consulta, che, con sentenza 19 aprile 2018, n. 77, ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale «nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni». A seguito di tale pronuncia, è stato affermato che la compensazione delle spese di lite può essere disposta (oltre che nel caso della soccombenza reciproca) soltanto nell'eventualità di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti o nelle ipotesi di sopravvenienze relative a tali questioni e di assoluta incertezza che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità delle situazioni tipiche espressamente previste dall'art. 92, comma 2 (Cass. civ., sez. VI, ord., 18 febbraio 2019, n. 4696).
Segue. Soccombenza reciproca. Accoglimento parziale della domanda
La nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali, sottende - anche in relazione al principio di causalità - una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che siano state cumulate nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero l'accoglimento parziale dell'unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi, dei quali siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri, oppure una parzialità dell'accoglimento anche meramente quantitativo, riguardante una domanda articolata in unico capo (Cass. civ., sez. I, ord., 24 aprile 2018, n. 10113; Cass. civ., sez. III, ord., 22 agosto 2018, n. 20888). È stato precisato che, in caso di accoglimento parziale della domanda il giudice può compensare in tutto o in parte le spese sostenute dalla parte vittoriosa, ma questa non può essere condannata neppure parzialmente a rifondere le spese della controparte, nonostante l'esistenza di una soccombenza reciproca per la parte di domanda rigettata o per le altre domande respinte, poiché tale condanna è consentita dall'ordinamento solo per l'ipotesi eccezionale di accoglimento della domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa (Cass. civ., sez. III, ord., 24 ottobre 2018, n. 26918 e, nello stesso senso, Cass. civ., sez. V, 17 aprile 2019, n. 10685).
Spese a carico del difensore
Laddove il difensore abbia promosso azione o impugnazione senza effettivo conferimento della procura da parte del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire nel giudizio o nella fase di giudizio di che trattasi (come nel caso di inesistenza o falsità della procura ad litem o di rilascio da parte di soggetto diverso da quello dichiaratamente rappresentato o per processi o fasi di processo diversi da quelli per cui l'atto è speso), l'attività del difensore non riverbera alcun effetto sulla parte e resta attività processuale di cui il legale assume la responsabilità in esclusiva e, conseguentemente, è ammissibile la sua condanna a pagare le spese del giudizio (Cass. civ., sez. III, ord., 25 maggio 2018, n. 13055; Cass. civ., sez. VI, 28 maggio 2019, n. 14474). Difensore antistatario
La fattispecie è disciplinata dall'art. 93. La disposizione stabilisce, in particolare, che il difensore, il quale dichiari di avere anticipato le spese e di non avere riscosso gli onorari, possa chiedere che la liquidazione delle spese venga distratta in suo favore, di modo che egli sia direttamente legittimato ad agire esecutivamente nei confronti del soccombente e non, come di regola, del proprio cliente. La distrazione può essere disposta qualora venga chiesta all'interno del singolo grado del giudizio, dovendosi escludere che la distrazione di spese di un determinato grado sia domandata per la prima volta in un grado successivo (Cass. civ., sez. VI, ord., 18 giugno 2019, n. 16244). Qualora la parte sia assistita da più difensori, la distrazione delle spese richiede l'attestazione che nessuno di essi abbia riscosso gli onorari oggetto della richiesta; tale dichiarazione può essere resa anche da uno solo dei difensori, se munito di procura ad agire disgiuntamente, ma deve essere necessariamente riferita all'intero collegio difensivo (Cass. civ., sez. VI, ord., 29 agosto 2018, n. 21281). In tale ipotesi si configura un caso di sostituzione processuale, agendo il difensore che chiede la distrazione anche per gli altri difensori dello stesso cliente in nome e per conto proprio, quanto agli onorari e le spese che gli spettano, ed in nome proprio e per conto altrui, per gli onorari e le spese degli altri difensori (Cass. civ., sez. VI, ord., 18 giugno 2019, n. 16244). Esenzione da oneri
Ai sensi dell'art. 152, prima parte, disp. att. c.p.c., nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali o assistenziali, la parte soccombente, salvo comunque quanto previsto dall'art. 96, 1° comma per il caso in cui il soccombente abbia agito o resistito con mala fede o colpa grave, non può essere condannata al pagamento delle spese, competenze ed onorari quando versi in particolari condizioni reddituali, cioè risulti titolare, nell'anno precedente a quello della pronuncia, di un reddito imponibile ai fini IRPEF, risultante dall'ultima dichiarazione, pari o inferiore a due volte l'importo del reddito stabilito ai sensi degli artt. 76, commi da 1 a 3, e 77 del d.P.R. n. 115/2002. Per la fruizione dell'agevolazione deve essere dato corso ad alcuni adempimenti, descritti nella seconda parte della disposizione citata in premessa. Per alcune applicazioni concrete si vedano Cass. civ., sez. VI, ord., 25 giugno 2018, n. 16616, Cass. civ., sez. VI, ord., 8 marzo 2019, n. 6752 e Cass. civ., sez. lav., 9 aprile 2019, n. 9875. Art. 94. Condanna di rappresentanti o curatori
Gli eredi beneficiati, i tutori, i curatori [392, 424 c.c.] e in generale coloro che rappresentano o assistono la parte in giudizio possono essere condannati personalmente, peraltro soltanto laddove ricorrano gravi motivi che il giudice deve specificare nella sentenza, alle spese dell'intero processo o di singoli atti, anche in solido con la parte rappresentata o assistita. È stato costantemente affermato che i suddetti gravi motivi sono da identificare nella trasgressione del dovere di lealtà e probità di cui all'art. 88 oppure nella mancanza della normale prudenza che caratterizza la responsabilità processuale aggravata di cui all'art. 96, comma 2 (Cass. civ., sez. I, 8 ottobre 2010, n. 20878). Art. 95 c.p.c. Procedure di esecuzione forzata
L'art. 95 non fa che estendere l'applicabilità dell'art. 91 al processo di esecuzione forzata. La norma stabilisce che tanto il creditore procedente quanto i creditori intervenuti possono rifarsi delle spese sostenute per l'esecuzione al momento della distribuzione del ricavato, sempre che vi sia capienza. Per ciò che attiene all'esecuzione per consegna o rilascio ed a quella concernente gli obblighi di fare e non fare, dispongono autonomamente gli artt. 611 e 614 c.p.c., ove è previsto, rispettivamente, che la liquidazione delle spese è fatta dal giudice dell'esecuzione secondo le regole di cui agli artt. 91 e ss. e che, laddove si riconosca che le spese sono giustificate, il pagamento delle stesse deve essere ingiunto mediante decreto a norma dell'art. 642. i) L'art. 96, sotto la rubrica «responsabilità aggravata», reca la disciplina della «lite temeraria». Nel 1° comma si dispone che, qualora risulti che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, la medesima, ove l'altra parte ne proponga istanza, deve essere condannata, oltre alle spese, al risarcimento dei danni. Identica pronuncia, sempre ad istanza della parte danneggiata, è prevista dal 2° comma qualora sia accertata l'inesistenza del diritto per cui sia stato eseguito un provvedimento cautelare o trascritta una domanda giudiziaria o iscritta ipoteca giudiziale oppure iniziata o compiuta l'esecuzione forzata. Infine, il 3° comma prevede che, «in ogni caso», quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91, il giudice può, anche d'ufficio, condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata. ii) Mala fede deve ritenersi ricorrere in tutti i casi in cui si abbia consapevolezza dell'infondatezza della domanda. Colpa grave deve dirsi sussistente nell'ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l'infondatezza o l'inammissibilità della propria domanda. Colpa grave è stata riconosciuta in varie ipotesi, ad es. nel caso in cui venga proposto un ricorso per cassazione dai contenuti estremamente distanti dal diritto vivente e dai precetti del codice di rito, come costantemente e pacificamente interpretati dalle Sezioni Unite (Cass. civ., sez. VI, ord., 3 luglio 2019, n. 17814). L'istanza di condanna per responsabilità aggravata ex art. 96, comma 1, c.p.c. può essere proposta anche nel giudizio di legittimità, purché essa sia formulata, a pena di inammissibilità, nel controricorso (Cass. civ., sez. VI, ord., 30 ottobre 2018, n. 27715). È stato, tuttavia, precisato che la proposizione di un ricorso per cassazione, che, a differenza di quello per regolamento di giurisdizione, non sospende il processo né impedisce l'esecuzione della sentenza d'appello, anche se infondato e meramente dilatorio, non può essere produttiva del danno processuale previsto dall'art. 96, giacché la parte avversaria non è costretta ad attendere l'esito del giudizio di impugnazione e può nel frattempo soddisfare le proprie pretese mettendo in esecuzione la sentenza di merito, sempre che non si verta in una di quelle particolari ipotesi nelle quali la sentenza può essere eseguita dopo il suo passaggio in cosa giudicata (Cass. civ., Sez. Un., 5 luglio 2019, n. 18079). iii) La responsabilità aggravata ai sensi del 3° comma della norma in esame, non richiede, a differenza di quella di cui ai precedenti due commi, la domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente. E' stato precisato che sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell'azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (Cass. civ., Sez. Un., 20 aprile 2018, n. 9912). Si ritiene che la funzione prevalente della condanna ai sensi del 3° comma sia punitiva e sanzionatoria, calibrabile su una frazione o su un multiplo delle spese di lite, con il solo limite della ragionevolezza (Cass. civ., sez. III, ord., 4 luglio 2019, n. 17902). E' stato chiarito che la condanna a norma del 3° comma è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all'esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall'art. 88, realizzata attraverso un vero e proprio abuso della potestas agendi con un'utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne consegue che la condanna, al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede né la domanda di parte né la prova del danno, essendo tuttavia necessario l'accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede (consapevolezza dell'infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell'ordinaria diligenza volta all'acquisizione di detta consapevolezza), venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell'iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (Cass. civ., Sez. Un., 13 settembre 2018, n. 22405 e, nello stesso senso, Cass. civ., sez. III, ord., 30 marzo 2018, n. 7901 e Cass. civ., sez. III, ord., 27 febbraio 2019, n. 5725). La norma disciplina la liquidazione delle spese (e degli eventuali danni ex art. 96) del giudizio nel caso di processi con pluralità di soccombenti. Il rapporto processuale può essere unico oppure plurimo. Qualora ricorra un rapporto processuale unico (il che, ad es., accade nei casi di litisconsorzio necessario), le regole applicabili in punto di attribuzione dell'onere delle spese di lite e degli eventuali danni ex art. 96 non divergono, in linea di massima, da quelle consuete. Qualora ricorra un rapporto processuale plurimo, la pronuncia di condanna (alle spese e, eventualmente, ai danni ex art. 96) delle parti soccombenti può non essere, invece, unitaria. Non è controverso che, nei casi di litisconsorzio facoltativo, le più cause riunite, per loro natura scindibili, restano distinte, con una propria individualità in relazione ai rispettivi legittimi contraddittori, conseguendone che la sentenza che le definisce — sebbene formalmente unica — consta in realtà di tante pronunce quante sono le cause riunite (Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 2004, n. 1103 e, nello stesso senso, Cass. civ., sez. III, 18 aprile 2006, n. 8956). Quale ulteriore conseguenza sul piano delle spese di lite e degli eventuali danni ex art. 96, la liquidazione degli stessi deve essere operata in relazione ad ogni singolo giudizio, posto che solo in riferimento alle singole domande è possibile accertare la soccombenza, non potendo essere coinvolti in quest'ultima soggetti che non siano parti in causa (ex multis, Cass. civ., sez. I, 25 marzo 2011, n. 6951; Cass. civ., sez. I, 10 luglio 2014, n. 15860). Nello specifico, la condanna alle spese può essere effettuata in proporzione del rispettivo interesse dei soccombenti nella causa oppure può essere disposta in solido fra loro laddove si ravvisi un interesse comune e deve essere fatta salva la possibilità di compensazioni a seconda delle condotte difensive tenute da uno o più dei soccombenti (ex multis, da ultimo, Cass. civ., sez. II, 20 aprile 2018, n. 9876; Cass. civ., sez. III, 30 ottobre 2018, n. 27476). Il potere di pronunciare la condanna in solido ha carattere discrezionale e non è sindacabile in sede di legittimità (Cass. civ., sez. II, 31 marzo 2005, n. 6761). Qualora la sentenza nulla disponga in ordine alla ripartizione delle spese e degli eventuali danni, tale ripartizione deve essere effettuata per quote uguali.
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