L’eristress, ovvero dello stress da conflittualità lavorativa: l’emersione di un nuovo fenomeno nel recente orientamento della giurisprudenza di legittimità

17 Aprile 2024

La pioggia di ordinanze di annullamento emesse dalla Cassazione agli inizi di quest'anno ha posto in primo piano la questione della responsabilità da conflittualità lavorativa ex art. 2087 c.c. Una domanda, tuttavia, sorge spontanea: qual è il perimetro di questa nuova categoria? Per evitare generiche e nebulose definizioni foriere di incertezza, è necessario adottare un approccio scientifico: l'individuazione del fenomeno dell'eristress da parte della psicologia del lavoro, può contribuire, in questo senso, alla certezza del diritto.

I paragrafi 1, 3-6 sono stati redatti dall'Avv. Domenico Tambasco; il paragrafo 2 è stato invece redatto dal dott. Harald Ege. Le conclusioni svolte nel paragrafo 7 sono state elaborate congiuntamente dagli Autori.

1. Due casi in cerca d'autore

Prima inquadratura: siamo all'interno del reparto cardiologia di un ospedale italiano, mentre tra il primario dell'unità operativa e uno dei suoi collaboratori è scoppiata l'ennesima - e accesa - discussione, causata dalle solite divergenze sul modo di eseguire un'operazione di routine. È così tutti i giorni ed è coinvolta la maggior parte dei dirigenti medici del reparto: del resto, il primario non ha mai nascosto la propria insofferenza per il fatto che almeno la metà dei collaboratori svolga attività intra moenia. Il clima lavorativo è di tensione continua, le relazioni quotidiane sono tutt'altro che franche e serene.

Cambio di scena: la visione si sposta ora nelle stanze di un piccolo comune, all'interno dell'ufficio amministrativo contabile dove un giovane funzionario vive una situazione di quotidiana tensione con il Sindaco e il Segretario Comunale, fatta di reciproci screzi, insolenze, accese discussioni, plateali litigi.

Cosa hanno in comune tra loro questi due episodi?

Certamente, in nessuno di questi casi si può parlare di mobbing o, più in generale, di condotte persecutorie.

Non abbiamo né una vittima né un aggressore, bensì due (o anche più) contendenti che operano su un piano tendenzialmente paritario: gli screzi e le discussioni sono infatti reciproche, non unilaterali.  

Non c'è nessun progetto persecutorio alla base di queste situazioni, ma solo una macroscopica disfunzione organizzativa.

Che tipo di soluzione dare, dunque, alle richieste risarcitorie presentate da uno dei contendenti nei confronti del datore di lavoro per i danni derivati dall'essere stato coinvolto in questa quotidiana situazione di conflittualità lavorativa?

Prima di rispondere facciamo un passo indietro, e analizziamo i casi dal punto di vista della psicologia del lavoro. Lasciamo la parola, dunque, ad Harald Ege.

2. L'eristress, ovvero dello stress da conflittualità lavorativa

Un'esperienza pluridecennale dedicata all'analisi dei conflitti sul posto di lavoro mi ha indotto diversi anni fa allo sviluppo di un metodo (c.d. Metodo Ege) in modo da fondare quelle analisi su un alto grado di scientificità e coerenza, oltre che a definire precisamente le varie tipologie dei conflitti; da quel momento ho sempre redatto le mie perizie sulla base di quel metodo.

Questo approccio metodico non mi ha tuttavia impedito di notare come sussistessero sempre ripercussioni sullo stato psico-fisico delle persone coinvolte nei conflitti sul posto di lavoro, qualsiasi tipo di dinamica si trattasse.

È assolutamente ragionevole, pertanto, ammettere che non solo la vittima di Mobbing, Straining, molestia sessuale o di altra circostanza tipizzabile, può ritenersi persona danneggiata psico-somaticamente da un conflitto in ambito lavorativo.

La partecipazione, il coinvolgimento e la testimonianza in una dinamica conflittuale lasciano innegabilmente tracce nel tessuto psicofisico delle persone coinvolte, con un diverso grado di gravità. Il coinvolgimento, passivo o attivo, in un conflitto sul posto di lavoro è idoneo a causare un danno psicofisico alla persona, al pari di una qualsiasi altra situazione stressante.

Lo stress, in questa “generica” situazione, proviene da un'energia negativa sprigionata dalla natura contrastante della relazione che ne è protagonista: l'acceso volume delle voci, le cattive parole (spesso volgari), le offese e tutto quanto caratterizza queste dinamiche viene assorbito dallo spettatore, come dal partecipante.

Recentemente, pertanto, ho voluto definire questa forma di stress con il termine “Eristress” composto del termine “eris” (dal greco antico ἔρις che significa “sfida, conflitto, lite, contesa”) e “stress”, ovvero “conflitto” e “stress”: un conflitto stressogeno

L'eristress è dunque una forma di stress che deriva dall'energia negativa e distruttiva che interessa tutti i partecipanti che vivono in quell'ambiente lavorativo. Di seguito la definizione estesa di eristress:

Con la parola eristress si intende una situazione lavorativa di alta conflittualità caratterizzata da un'accesa litigiosità che, come potenza e come durata, supera un semplice e unico diverbio. La situazione lavorativa è dominata da una condizione conflittuale che si distingue per la sua rivalità rispetto ad una condizione collaborativa. Lo stress esercitato dalla conflittualità può scatenare conseguenze negative a livello psicosomatico sia sui partecipanti attivi al conflitto sia sugli spettatori passivi che assistono a tale situazione.

Sul fronte pratico, non mi esimo nemmeno questa volta dall'adottare un approccio rigoroso e scientifico, e dunque, in fase di redazione di ogni elaborato peritale, utilizzo sempre il mio metodo (Metodo Ege), applicando i 7 parametri per ammettere o escludere l'eristress. L'applicazione del metodo permette infatti – aspetto molto importante – di distinguerlo dal semplice conflitto o dal banale litigio. Analizziamo di seguito l'eristress, parametro per parametro, per giungere poi alla sua applicazione pratica.

Parametri per il

riconoscimento della conflittualità lavorativa

(Metodo Ege) [1]:

1. Ambiente lavorativo

2. Frequenza

3. Durata

4. Tipo di azioni

5. Dislivello tra gli antagonisti

6. Andamento secondo fasi successive

7. Intento persecutorio

1. Ambiente lavorativo

Si parla naturalmente di uno stress da conflittualità che si verifica nell'ambiente di lavoro tale da distinguerlo da tutte le altre forme di stress che possono derivare da altri ambienti.

Le persone in effetti possono essere danneggiate da forme di conflittualità che interessano l'ambiente familiare (basti pensare ai bambini traumatizzati per effetto dei litigi tra i genitori), o che caratterizzano i rapporti di vicinato, o che si verificano in circostanze stradali. Certamente anche qui si può parlare di eristress, ma non può essere chiamato in causa l'art. 2087 c.c. Di conseguenza, il conflitto per generare eristress deve avvenire sul posto di lavoro. Questo primo fondamentale parametro per ammettere l'eristress deve essere soddisfatto.

2. Frequenza

Per poter attestare l'eristress, quanti litigi devono verificarsi ogni giorno, ogni settimana od ogni mese? Il parametro, qui, per essere soddisfatto non deve richiedere una quantificazione esatta, numerica: la situazione è conflittuale. Si parla di un ambiente di confronto, di rivalità, e non di un ambiente collaborativo, come dovrebbe essere l'ambiente di lavoro. I conflitti possono certamente esprimersi in diversi modi, e ciò che spontaneamente salta alla nostra immaginazione è di solito il conflitto caratterizzato da diverbi, urla, parolacce, offese e minacce. Ci sono tuttavia anche conflitti “silenziosi”, caratterizzati da sfiducia, lunghi silenzi, “musi lunghi”, piccoli sabotaggi; ignorarsi, evitare gli sguardi, non salutarsi sono espressione di conflitto, di una sorta di “guerra fredda”. Il parametro, quindi, può considerarsi soddisfatto se viene riscontrato un ambiente nocivo o sfavorevole caratterizzato da una rivalità o da un contrasto, sia che si manifesti in modo attivo (sotto forma di litigio) sia che si esprima in modo passivo (sotto forma di “guerra fredda”). Si tratta, in poche parole, di un parametro il cui baricentro è basato su fattori di natura ambientale o situazionale, e non sulla condotta dei singoli protagonisti.   

3. Durata

Partecipanti e spettatori di una situazione conflittuale soffrono molto a causa dello stress da conflittualità: si sentono spaesati, non sanno a chi rivolgersi, sono indecisi con chi allearsi, sono fuori dalla loro zona di comfort, vorrebbero collaborare ma vengono travolti dal conflitto.

A risentirne, non è soltanto la loro salute (sviluppo di vari disturbi psicosomatici), ma anche il lavoro stesso: inefficienza, assenze per malattia, assenteismo, mancanza di produttività ed errori sono un chiaro sintomo. Ritengo di poter paragonare una situazione del genere alla fattispecie del Quick Mobbing: ciò significa che occorrono almeno 3 mesi di situazione conflittuale in modalità attiva o passiva, ma persistente, anche laddove si tratti di rivalità o contrasto latente. In questo modo essa si differenzia da un semplice diverbio che potrebbe scaturire da una questione di ordine tecnico e che potrebbe trascinarsi anche per qualche giorno; tuttavia, se persiste per 3 mesi, allora è da considerarsi comeeristress.

4. Tipo di azioni

Le azioni vanno estrapolate dalle categorie del “LIPT Ege”, che sono nell'ordine: attacchi ai contatti umani, isolamento sistematico, cambiamento delle mansioni, attacchi contro la reputazione e violenza o minacce di violenza. Attenzione però: lo stress da conflittualità può derivare anche da un conflitto indiretto, ovverosia da una circostanza in cui la persona danneggiata è solo spettatrice e non antagonista; è quindi possibile ipotizzare la presenza di azioni della categoria “violenza o minacce di violenza” quand'anche la persona danneggiata non sia coinvolta direttamente, ma assuma il ruolo di mera osservatrice. Analogamente, se le azioni provengono dalla categoria “attacchi ai contatti umani”, è possibile ravvisare sia azioni dirette contro la persona danneggiata, sia azioni con efficacia indiretta verso coloro i quali semplicemente assistono a tali azioni (ad esempio risulta certamente limitata la possibilità di esprimersi anche di queste persone, se si è in presenza di altre persone che litigano oppure se c'è il silenzio tombale); o ancora, si configura un'azione proveniente dalla categoria “isolamento sistematico”, sia che essa abbia un'efficacia causale diretta verso una determinata persona, sia che essa abbia un'efficacia causale indiretta che si esplica verso quelle persone che assistono per esempio a minacce o continue critiche o vivono una situazione di silenzio tombale. Dobbiamo dunque ammettere la portata lesiva delle azioni indirette, in quanto anch'esse idonee a produrre un trauma. Il parametro può considerarsi soddisfatto se ci troviamo di fronte ad un'unica categoria di azioni (il conflitto tende ad esprimersi in un'unica maniera, ad esempio, o sempre attraverso toni accesi o sempre attraverso il silenzio).

5. Dislivello tra gli antagonisti

Trattandosi di un danno da stress conflittuale, non vi è necessità di un dislivello tra gli antagonisti. Se si litiga, non ha importanza se la controparte ha o non ha la possibilità di rispondere e di replicare; nemmeno ha importanza se si tratta di un semplice spettatore. Potrebbe intervenire ed essere coinvolto o potrebbe rimanere passivo ed “assistere solo alla conflittualità”: è una sua decisione, se vuole passare da spettatore ad antagonista. Egli risulta comunque esposto allo stress da conflittualità, e quindi non è determinante se vi sia un dislivello o meno. Quindi il parametro non è richiesto.

6. Andamento secondo fasi successive

L'oggetto della presente trattazione è l'eristress, ovvero lo stress da conflittualità lavorativa.

Di seguito viene riportato il modello generale che avevo creato in passato [2] per la conflittualità:

Fase

I. Fase

Fase iniziale del conflitto

II. Fase

sviluppo del conflitto

II. Fase

ripercussioni sulla salute

IV. Fase

Conclusione

Ogni fase costituisce una parte della conflittualità, ne è espressione; di conseguenza non è necessario che il conflitto sia stato caratterizzato da un certo sviluppo per generare l'eristress. L'eristress colpisce la persona interessata dal conflitto stesso, non dal suo sviluppo. Certo, se il conflitto raggiunge la terza fase, sicuramente il danno risulta maggiore, ma non è un criterio che condiziona l'accertamento dell'eristress. Come logica conseguenza, quindi, il parametro è soddisfatto anche solo in presenza della prima fase.

7. Intento persecutorio

Come è stato precedentemente argomentato, si può soffrire di eristress come semplice testimone o spettatore, senza essere coinvolti direttamente nel conflitto; o potremmo essere antagonisti e vivere una situazione di rivalità con un altro dipendente. In entrambe le situazioni non vi è alcun intento persecutorio. Per questo si può parlare di ambiente nocivo o sfavorevole, ma non di intento persecutorio.

Di seguito, quindi, in sintesi, l'analisi dell'eristress secondo il Metodo Ege:

Parametri per il

riconoscimento della conflittualità lavorativa (Metodo Ege):

 

Requisiti:

1. Ambiente lavorativo

Il conflitto deve svolgersi sul posto di lavoro.

2. Frequenza

Necessità di ambiente nocivo o situazione sfavorevole.

3. Durata

Il conflitto deve essere in corso da almeno tre mesi.

4. Tipo di azioni

Le azioni del conflitto devono appartenere ad almeno una delle cinque categorie del "LIPT Ege".

5. Dislivello tra gli antagonisti

Non necessita la presenza di un dislivello tra gli antagonisti.

6. Andamento secondo

fasi successive

Non necessita uno sviluppo del conflitto, quindi basta già la I. fase del modello generale.

7. Intento persecutorio

L'eristress può comprendere sia un antagonista che uno spettatore, per cui non c'è un intento persecutorio ma semplicemente un ambiente nocivo.

La classificazione dell'eristress secondo l'ECCO

Com'è noto, nel 2021 ho introdotto l'ECCO (Ege Conflict Code Organization) [3], grazie al quale è possibile classificare tutti i conflitti in base ai principi del Metodo Ege.

 Parametri per il

riconoscimento della conflittualità lavorativa (metodo Ege):

Codice da applicare:

1. Ambiente lavorativo

Sì = 1

No = 2

2. Frequenza

Conseguenze costanti = 1

Frequenza azioni attive almeno qualche volta al mese = 2

Singola azione = 3

Ambiente/ clima/ situazione = 4

3. Durata

Conflitto oltre 6 mesi = 1

Conflitto tra 3 a 6 mesi = 2

Conflitto limitato a singolo evento = 3

4. Tipo di azioni

Azione da almeno una categoria del "LIPT Ege" = 1

Azioni da almeno due categorie del "LIPT Ege" = 2

Azioni da almeno tre categorie del "LIPT Ege" = 3

Azione da almeno una categoria della categoria violenze = 4

5. Dislivello tra gli antagonisti

La vittima è in una posizione costante di inferiorità = 1

Non c'è dislivello tra gli antagonisti = 2

6. Andamento secondo fasi successive

Raggiunto almeno la II. fase del modello generale = 1

Singolo evento o I. fase del modello generale = 2

7. Intento persecutorio

Esiste uno scopo politico e un obiettivo discriminatorio = 1

Esiste una volontà di ledere = 2

Ambiente di lavoro, clima nocivo o sfavorevole = 3

Tornando ora all'eristress, possiamo con facilità denominare anche l'ECCO sulla base dell'analisi applicata attraverso il Metodo Ege. Qui di seguito riporto quindi il relativo Codice ECCO, considerato che:

Si tratta di una situazione lavorativa, quindi il codice è 1.

  • Con riferimento alla frequenza, siamo di fronte a un clima o a un ambiente di lavoro nocivo e stressogeno, in cui è la situazione generale e non la singola condotta a rilevare, come -ad esempio- nel caso di un semplice e isolato litigio, che è irrilevante ai fini della configurazione dell'eristress. Ne deriva che in questo caso applicheremo il codice 4.
  • L'eristress necessita di una durata di almeno 3 mesi: il codice applicabile sarà il 2.
  • Nella conflittualità da eristress è interessata almeno una categoria delle azioni ostili del LIPT-Ege, che coincide con il codice 1.
  • L'eristress si svolge tramite un litigio tra due persone allo stesso livello, o addirittura il conflitto coinvolge persone estranee al conflitto in qualità di spettatori: non è pertanto ravvisabile un dislivello tra le parti; si applica quindi il codice 2.
  • L'eristress non necessita di uno sviluppo, perché il litigio o il silenzio (forme alternative del conflitto) potrebbero trascinarsi per l'intera durata del conflitto senza variazioni. Per configurare l'eristress è pertanto sufficiente il raggiungimento della prima fase del modello generale: il codice corrisponde quindi al numero 2.
  • Potendo essere colpiti dall'eristress anche gli spettatori, ovvero persone non direttamente coinvolte nel conflitto, è da escludere la sussistenza di un intento persecutorio: si applica quindi il codice 3, coincidente con l'esistenza di un ambiente di lavoro nocivo.

Parametri dal metodo Ege

Ambiente

Frequenza

Durata

Tipo di azioni

Dislivello

Fasi

Intento persecutorio

Numero

1 o 0

1, 2, 3 o 4

1, 2 o 3

1, 2 o 3

1 o 2

1 o 2

1, 2 o 3

Codice:

1

4

2

1

2

2

3

Il codice ECCO dell'eristress è 1421223 (per confronto: il codice ECCO corrisponde nello Straining 1111111, nello Straining sportivo 1121111, nel Mobbing 1212111, nel Quick Mobbing 1222111, nella molestia sessuale 1331122, nel superlavoro -Stress- 1411223, nella violenza - es. aggressione - 1331222, nel Glas Ceiling 1411123, nel Work Stalking 2224112, nel demansionamento 1131112, nel licenziamento 1331123, nel licenziamento per punizione 1331121, per procedura disciplinare 1331122) [4].

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[1] Tratto da: EGE, La valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, Milano, 2019.

[2] Cfr. EGE, TAMBASCO, Il lavoro molesto, Milano, 2021, p. 12.

[3] Cfr. EGE, TAMBASCO, ult. op. cit., p. 7 e ss.

[4] Cfr. EGE, TAMBASCO, ult. op. cit., p. 15.

3. La risposta della giurisprudenza: non autori, ma situazioni

Definito il perimetro dell'innovativa figura dell'eristress coniata da Herald Ege, torniamo ora ai due episodi incontrati all'inizio del nostro percorso e alla relativa domanda sulla loro possibile soluzione.

Anticipiamo già ora la risposta data dalla Corte di cassazione, perché la decisione è interessante almeno quanto la motivazione: in questi casi, sembra paradossale, non c'è nessun autore protagonista bensì una situazione ambientale nociva e stressogena la cui tolleranza da parte del datore di lavoro costituisce di per sé -come vedremo- fonte di responsabilità contrattuale.

Non autori materiali, ma obiettive situazioni ambientali nel loro intrico di reciproche interazioni potrà scorgere il giudice se indosserà queste nuove “lenti giuridiche”. E potrà osservare, se farà attento uso di questo inedito strumento di analisi, anche il nucleo dell'organismo che si staglia davanti ai suoi occhi: l'organizzazione dell'impresa, le cui disfunzioni costituiscono un'anomalia giuridicamente rilevante rispetto al modello codicisticamente delineato dall'art. 2086, secondo comma (rubricato “Gestione dell'impresa”), secondo il cui disposto «L'imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa…» [5].

Disposizione, questa, significativamente posta in immediata contiguità rispetto alla norma di chiusura del sistema di protezione della salute e sicurezza dei lavoratori, quasi a manifestare “plasticamente” l'esistenza di una “cinghia di trasmissione” tra la dimensione organizzativa (art. 2086 c.c.) e quella protettiva dell'integrità e della personalità morale del prestatore di lavoro (art. 2087 c.c.)               

Si tratta, come detto, di situazioni reali concretamente affrontate dalla giurisprudenza di legittimità.

Seguiamone l'ordine.

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[5]  L'autore ringrazia per l'idea mutuata dall'opera della dott.ssa Livia Di Stefano, phd in Relazione di Lavoro, avendo potuto consultare il suo contributo, in corso di pubblicazione, dal titolo "Assetto organizzativo" e tutela della salute e sicurezza sul lavoro alla luce del nuovo art. 2086 comma 2 Codice Civile: il caso del lavoro autonomo e altre implicazioni sistematiche.

4. L'ordinanza della Corte di cassazione del 21 febbraio 2024, n. 4664 

Il primo caso, come visto ambientato all'interno di un ospedale italiano, è stato trattato dall'ordinanza della Corte di cassazione del 21 febbraio 2024, n. 4664.

In particolare, la Suprema Corte dopo aver accertato l'obiettiva esistenza di un contesto di lavoro caratterizzato da "diffuse ostilità" tra medici del reparto e primario, ostilità che avevano interessato più della metà dei medici e che erano sfociate in “punte di contrapposizione estrema” (tra cui reciproche denunce penali), sostiene che «una situazione di costrittività ambientale è configurabile anche a prescindere dalla concreta individuazione di un mobbing e da una eventuale particolare sensibilità ovvero suscettibilità del dipendente».

Partendo dalla invalsa lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2087 c.c. alla stregua dell'art. 32 Cost. e dei principi di correttezza e buona fede (art. 1175 c.c. e 1375 c.c.), disposizione che costituisce “norma di chiusura del sistema antinfortunistico” (cfr. Cass., 19 febbraio 2016, n. 3291) alla quale deve ispirarsi l'intero svolgimento del rapporto di lavoro, attraverso l'obbligo datoriale di adozione di ogni misura "atipica" diretta alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, l'ordinanza citata afferma perentoriamente che «la tutela dell'integrità psico-fisica del lavoratore non ammette sconti, in ragione di fattori quali l' ineluttabilità, la fatalità, la fattibilità economica e produttiva, nella predisposizione di condizioni ambientali sicure».

Ecco emergere, quale logico corollario di questo nodale principio, «l'obbligo del datore di lavoro di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere, già di per sé, la personalità morale del lavoratore, come l'adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici, oltre ovviamente a comportamenti più gravi come mobbing, straining, bum out, molestie, stalking e così via, alcuni anche di possibile rilevanza penale» (conf. Corte cost., n. 359/2003; Cass., 5 novembre 2012, n. 18927).

La soluzione del caso è dunque a portata di mano; infatti, «al fine di rintracciare una responsabilità ex art. 2087 c.c. in capo al datore di lavoro, quale quella nello specifico dedotta, ancorché con una principale ascrivibilità della stessa ad una ipotesi di mobbing, non è necessaria, la presenza di un "unificante comportamento vessatorio", ma è sufficiente l'adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come l'adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici». Principio, questo, che richiama a sua volta l'invalso orientamento di legittimità secondo cui «è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all'art. 2087 cod. civ.» (cfr. Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692).

In sostanza, secondo gli Ermellini, il giudice di merito nella propria indagine non deve andare alla ricerca di un fantomatico “intento persecutorio” unificante le singole condotte denunciate ma, al contrario, deve chiedersi se i comportamenti e le situazioni allegate dalle parti siano sintomatiche di «un ambiente logorante e determinativo di ansia» produttivo di un pregiudizio per la salute, ovverosia tale da configurare in concreto «un ambiente di lavoro non certo ideale per svolgere serenamente i delicati compiti assegnati». 

In un siffatto contesto, non può dunque avere rilievo nemmeno l'eventuale “soggettiva perturbabilità del ricorrente”, ricadendo invece sul datore di lavoro “l'obbligo di tutelare la salute sempre e comunque, a prescindere da particolari emotività del dipendente”. Infatti, anche la “psicologica propensione alla somatizzazione (sofferta) delle vicende”, non può che indurre il datore a maggiori cautele “non solo nella predisposizione della organizzazione del reparto ma anche, e soprattutto, nell' instaurazione di relazioni quotidiane quanto più possibile franche e serene”.

In questo modo, pertanto, si spiega l'annullamento della sentenza della Corte d'appello di Ancona che aveva rigettato la richiesta risarcitoria del dirigente medico nei confronti dell'Azienda Ospedaliera e il rinvio, da parte della Suprema Corte, ad altro collegio di merito per il riesame in conformità a tali principi.

5. L'ordinanza della Corte di cassazione del 26 febbraio 2024, n. 5061

Il secondo caso descritto in apertura, concernente un funzionario amministrativo di un piccolo comune veneto, è oggetto della decisione assunta dalla Corte di cassazione con l'ordinanza del 26 febbraio 2024, n. 5061.

Anche in questa vicenda, il giudice di appello aveva rigettato la richiesta risarcitoria del dipendente sul presupposto che non fosse possibile configurare il mobbing, per l'assenza di “un preordinato intento persecutorio da parte del Sindaco o dei suoi collaboratori”.

La Suprema Corte ribalta l'esito del giudizio, ribadendo in sostanza i principi enunciati nell'ordinanza sopra esaminata. Ha infatti errato, il giudice di merito, «laddove ha ritenuto sufficiente escludere la configurabilità del mobbing lavorativo per rigettare totalmente la richiesta di risarcimento del danno proposta dal lavoratore, nonostante l'ambito della responsabilità del datore di lavoro per il pregiudizio alla personalità morale e alla salute del lavoratore (art. 2087 c.c.) sia ben più ampio di quello occupato dalla specifica, e più grave, fattispecie del mobbing».  

Al contrario, proprio sulla base dell'ormai consolidato orientamento di legittimità (cfr., ex multis, Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692), il giudice di merito avrebbe dovuto dare specifico rilievo alla «situazione di tensione interpersonale venutasi a creare sul luogo di lavoro tra il ricorrente e l'amministrazione, vissuta dal lavoratore in termini particolarmente gravosi (v. certificazione medica prodotta in causa dal ricorrente)». Infatti, nell'ampio perimetro dell'art. 2087 c.c. nella sua formulazione “costituzionalmente orientata”, rientra anche l'obbligo datoriale di prevenire e, ove possibile, rimuovere «una situazione di tensione interpersonale venutasi a creare sul luogo di lavoro».

6. La conflittualità lavorativa “esonda” in Cassazione: le otto recenti ordinanze di annullamento 

Le due pronunce in commento si aggiungono alla sei ordinanze già emesse sullo stesso tema dalla Suprema Corte tra gennaio e febbraio del 2024 (cfr. Cass., 19 gennaio 2024, n. 2084; Cass., 31 gennaio 2024, n. 2870; Cass., 12 febbraio 2024, n. 3791; Cass., 12 febbraio 2024, n. 3822; Cass., 12 febbraio 2024, n. 3856; Cass., 16 febbraio 2024, n. 4279; per una prima lettura, cfr. TAMBASCO, Addio mobbing, arriva lo stress da conflittualità lavorativa: il nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità, Labor, 20 febbraio 2024).

Si tratta di una nutrita serie di pronunce, tutte a breve distanza l'una dall'altra, che hanno ormai cristallizzato la nuova giurisprudenza della Cassazione sul tema della conflittualità all'interno dei luoghi di lavoro.

Superando l'ormai stantio linguaggio di derivazione panmobbistica, i giudici di legittimità adottano oggi una prospettiva radicalmente diversa: infatti, proprio partendo dalla nozione costituzionalmente orientata dell'art. 2087 c.c. (che, come abbiamo visto, mira a proteggere ogni pregiudizio alla salute e alla personalità morale dei lavoratori e delle lavoratrici, cfr. Cass., 16 febbraio 2023, n. 4279, cit.; Cass., 12 febbraio 2024, n. 3791, cit.; Cass., 12 febbraio 2024, n. 3856), si afferma il dovere per il giudice di merito di «valutare e accertare l'eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute del ricorrente» (cfr. Cass., 12 febbraio 2024, n. 3822, cit., § 4.4; Cass., 16 febbraio 2024, n. 4279, § 4.2; Cass., 12 febbraio 2024, n. 3791, § 3.2.2).

Siamo di fronte ad un vero e proprio “salto quantico”, rappresentato dal passaggio dello scrutinio giudiziale nell'orbita dell'analisi obiettiva dei fattori organizzativi e ambientali, mediato dall'utilizzo dell'art. 2087 c.c., che consente di marcare la responsabilità datoriale anche per il mantenimento di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici (cfr. Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084, cit. § 6 e 7; di “contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia”  parla anche Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084, cit., par. 10).

Il che consente al giudice di dare rilievo - fermo restando l'ineludibile obbligo di allegazione delle parti - anche all'inadempimento datorialead obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, già rilevante ai sensi dell'art. 2087 c.c.”, fino a ricomprendervi “tutti i comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi” (cfr. Cass., 31 gennaio 2024, n. 2870, cit., § 13; conf. Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692).

La svolta imposta dalla Corte di Cassazione contiene certamente -come abbiamo visto ora- importanti indicazioni rivolte ai giudici di merito, ma non solo.

Altrettanto rilevanti sono le prescrizioni indirizzate ai datori di lavoro, che vedono ampliare l'ambito dei doveri - e della correlativa responsabilità - orientata alla tutela della salute e della personalità morale delle lavoratrici e dei lavoratori.

La conflittualità lavorativa rileva ora ai fini della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. Ciò proprio in considerazione dei fattori organizzativi e ambientali che, ove si rivelino disfunzionali, segnano la responsabilità del datore di lavoro: è l'espressione giurisprudenziale di quella che, nell'ambito della sociologia del diritto, viene definito “paradigma sistemico” [6], ovverosia un nuovo modello di lettura della realtà improntato allo studio delle reciproche interazioni nell'ambito di sistemi organizzati.

Ne deriva in concreto che il datore di lavoro, il quale ignori colposamente l'esistenza di rapporti conflittuali nei luoghi di lavoro fino al punto di rendere l'ambiente lavorativo nocivo, stressogeno e fonte di concreti pregiudizi psico-fisici a danno dei dipendenti, è ugualmente soggetto a responsabilità per inadempimento contrattuale rispetto al caso in cui, ad esempio, realizzi scientemente delle vessazioni.

I doveri a carico del datore, enucleabili dalla norma di chiusura dell'art. 2087 c.c., non si limitano inoltre al solo obbligo di rimuovere la conflittualità delle relazioni personali all'interno dell'ambiente lavorativo, ma si estendono prioritariamente anche al dovere di prevenzione (cfr. Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279; Cass. 26 febbraio 2024, n. 5061; cfr. Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791), in conformità con quel filone giurisprudenziale che afferma l'importanza di garantire la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative (cfr. Cass. 10 novembre 2017, n. 26684). 

Affermare il rilievo della conflittualità lavorativa nel diritto vivente non significa, tuttavia, negare le differenze esistenti rispetto alle persecuzioni sul lavoro quali il mobbing, lo straining e lo stalking, per citare solo le più importanti. Al contrario, notevoli sono le differenze sul piano:

  • Probatorio, in quanto mentre per le condotte persecutorie è richiesta la prova di natura quasi penalistica dell'elemento oggettivo e di quello soggettivo (recte, dell'intento persecutorio), per la conflittualità lavorativa sarà sufficiente per il prestatore provare “la sussistenza del danno e del nesso causale tra l'ambiente di lavoro [nocivo, n.d.r.] e il danno, mentre grava sul datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie” (cfr. Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279, cit., par. 5; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit., par. 4; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3822, cit., par. 5).    
  • Risarcitorio, dovendo il giudice comunque tenere in debita considerazione il fatto che “la reiterazione, l'intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento (cfr. Cass. 21 febbraio 2024, n. 4664, cit., par. 9 Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084, cit., par. 9; Cass. 19 ottobre 2023, n. 29101, cit.). Il potere equitativo giudiziale, pertanto, potrà muoversi tra i due poli degli i) illeciti derivanti da semplice negligenza e imperizia (quale ad esempio la colpevole inerzia nel caso di tolleranza della generica conflittualità lavorativa) e delle ii) condotte persecutorie connotate da sistematicità ed intenzionalità (mobbing, straining, stalking occupazionale etc.), che segneranno rispettivamente il limite minimo e massimo del compendio risarcitorio.

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[6] FERRARI, Prima lezione di sociologia del diritto, Roma-Bari, 2010, p. 32 e ss.

7. Conclusioni

Sono passati circa vent'anni da quando, nel lavoro “Oltre il mobbing” (recentemente ristampato), [7] veniva evidenziato come la distribuzione dei conflitti occupazionali in Italia non si esaurisse soltanto nel mobbing ma, al contrario, avesse una distribuzione ben più ampia, articolandosi principalmente nei diversi fenomeni dello straining, dello stress e dello stalking occupazionale.

Nonostante ciò, per oltre due decenni il dibattito dottrinale e giurisprudenziale è rimasto ostaggio di quello che a più riprese abbiamo definito dogma “panmobbistico”, chiuso in una sorta di “museo delle cere” abitato soltanto da mobbers spinti da famelici intenti persecutori.

Si è trattato, come ha dimostrato una recente ricerca promossa dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro [8], di un grave errore di prospettiva che ha impattato negativamente sulla tutela giurisdizionale delle lavoratrici e dei lavoratori, i quali hanno visto per la maggior parte respinte le proprie richieste di protezione, compresse tutte in una sorta di “camicia di forza”: se tutto è mobbing, nulla è mobbing.

Salutiamo quindi con favore la recente svolta segnata dal diritto vivente, sostanziatasi nell'adozione di una prospettiva finalmente adatta al proprio oggetto: quella organizzativa, animata da sistemi in continua e reciproca interazione. In questo senso, un grande contributo ad una più fedele rappresentazione della realtà lavorativa è stato fornito dall'emersione, nel dibattito dottrinale [9], della categoria “polifunzionale” dello stress lavorativo, che ha consentito di porre l'accento sugli unitari effetti delle molteplici tipologie di disfunzioni organizzative sul lavoro.

Il che significa, come abbiamo appena visto, riconoscere eguale dignità di tutela anche a tutte le molteplici forme di conflittualità sul lavoro, in quanto espressive di un ambiente lavorativo tossico, nocivo e stressogeno.

La nuova categoria dell'eristress presentata con questo contributo ne è una concreta espressione, avendo lo scopo di definire in modo scientifico il perimetro di un nuovo fenomeno (lo stress da conflittualità lavorativa), che rischia altrimenti di trasformarsi in una “nebulosa” foriera solo di incertezze. 

In conclusione, riteniamo l'ordinamento giuridico italiano incamminato, finalmente, lungo la strada che porta nella direzione della piena tutela della salute dei lavoratori e delle lavoratrici, intesa come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un'assenza di malattia o d'infermità” (cfr. art. 2, primo comma, lett. o, d.lgs. 81/2008).

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[7] EGE, Oltre il mobbing. Straining, Stalking, Whistleblowing, Smaining, e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, Milano, 2023, p. 17 e ss.

[8] TAMBASCO, Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un'analisi della giurisprudenza del lavoro italiana, Roma, 2022.  

[9] ROSIELLO, TAMBASCO, Il danno da stress lavorativo: una categoria “polifunzionale” all'orizzonte?, in IUS Lavoro - Il Giuslavorista (ius.giuffrefl.it), 8 novembre 2022; BIGHELLI, Lo stress lavorativo: ovvero “L'insostenibile leggerezza dell'essere” di una categoria in via di formazione, in IUS Lavoro - Il Giuslavorista (ius.giuffrefl.it), 8 marzo 2023.  

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