Anche il convivente di fatto è compartecipe dell’impresa familiare: lo dice la Corte costituzionale

30 Luglio 2024

L' art. 230-bis c.c., che esclude il convivente di fatto dalla qualifica di partecipante all'impresa familiare riservata al coniuge dell'imprenditore, è conforme alla Costituzione? Ed è conforme a costituzione l'art. 230-ter c.c., emanato con la legge 76/2016, che equipara il convivente di fatto al coniuge come partecipante all'impresa familiare, pur riconoscendogli una posizione giuridicamente inferiore? Si tratta di due disposizioni che, attraverso approcci distinti, sollecitano un'analisi sul rispetto dei diritti e delle garanzie costituzionali, in relazione alle dinamiche delle convivenze e al concetto di impresa familiare.

Massima

È costituzionalmente illegittimo l'art. 230-bis, comma 3, c.c. nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto»;

In via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), è costituzionalmente illegittimo l'art. 230-ter c.c.

Il caso

Una signora conviene in giudizio davanti al giudice del lavoro i figli ed eredi del defunto ex convivente, assumendo che, fino alla morte di quest'ultimo, avvenuta nel 2012, ella aveva prestato per anni la propria attività nell'impresa agricola di cui lui era titolare; chiede pertanto dichiararsi l'esistenza di un'impresa familiare e la liquidazione della quota alla stessa spettante. In entrambi i gradi di merito la domanda è respinta, nel presupposto che il convivente non possa essere considerato “familiare” ai sensi dell'art. 230-bis c.c.. L'interessata interpone ricorso per cassazione e la sezione lavoro richiede l'intervento nomofilattico delle Sezioni Unite che, con ordinanza 18 gennaio 2024, n. 1900, sollevano questione di legittimità costituzionale dell'art. 230-bis c.c. nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, per dedotta violazione degli artt. 2,3,4,35 e 36 Cost., dell'art. 9 CDFUE e dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU.  Le censure di illegittimità costituzionale si riverbererebbero poi, in termini di illegittimità derivata, anche sull'art. 230-ter c.c., per non aver riconosciuto al convivente di fatto la stessa tutela del coniuge/familiare, bensì una tutela differenziata di portata inferiore.

La Corte costituzionale ritiene fondate entrambe le questioni sollevate e pronuncia di conseguenza.

La questione

È costituzionalmente legittima la disciplina dell'art. 230-bis c.c., là dove, attribuendo la qualifica di partecipante all'impresa familiare al coniuge dell'imprenditore (oltre che ai parenti e agli affini di lui) esclude il convivente di fatto?

È costituzionalmente legittima la disciplina dell'art. 230-ter c.c., introdotta con la l. 76/2016, che ha attribuito la qualifica di partecipante all'impresa familiare anche al convivente di fatto dell'imprenditore, riconoscendogli peraltro una posizione diversa e deteriore rispetto a quella del coniuge?

Le soluzioni giuridiche

Come è noto, l'istituto dell'impresa familiare, regolato dall'art. 230-bis c.c., fu introdotto con la riforma del diritto di famiglia del 1975, a conclusione di una lunga evoluzione dottrinale e giurisprudenziale della comunione tacita familiare, di origine agricola, disciplinata dal previgente art. 2140 c.c. L'impresa familiare è stata pensata quale uno strumento finalizzato ad approntare una tutela minima a quei rapporti di lavoro che si svolgevano negli aggregati familiari, in passato ricondotti, in via presuntiva, ad una causa affectionis vel benevolentiae o comunque ad un contratto innominato di lavoro gratuito, come tali inidonei a generare pretese od obblighi, giuridicamente azionabili, rispetto al familiare imprenditore, beneficiario delle prestazioni lavorative. Tali prestazioni, per potersi configurare come giuridicamente rilevanti, devono essere rese in modo continuativo, ossia con stabilità, senza che si richieda peraltro il requisito dell'esclusività, non solo nell'impresa, ma pure nella famiglia, quando ricorra una stretta connessione con l'attività di impresa, al di là di una fisiologica ripartizione delle incombenze proprie del ménage domestico.

Proprio per le ragioni sopra esposte, sussiste impresa familiare solo ove non sia configurabile un diverso rapporto: ciò significa che la disciplina dell'art. 230-bis c.c. ha carattere residuale e si applica solo qualora le parti non abbiamo deciso di dar vita ad una fattispecie giuridicamente conformata (rapporto di lavoro nelle sue varie forme, associazione in partecipazione, società, anche solo di fatto).

L'art. 230-bis c.c. individua con precisione i familiari, che collaborando stabilmente con l'imprenditore, beneficiano della relativa disciplina: si tratta del coniuge, dei parenti entro il terzo grado e degli affini entro il secondo. L'elenco è per lo più stato inteso in senso tassativo. Esso peraltro deve essere integrato con quanto disposto dalla l. 20 maggio 2016, n. 76 sulle unioni civili e le convivenze di fatto. L'art. 1, comma 13 di detta legge estende, tra l'altro, alle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, la disciplina di cui all'art. 230-bis c.c. Pare inoltre opportuno rammentare che, con la novella dell'art. 74 c.c., di cui alla l. 219/2012, il vincolo di parentela con gli ascendenti si costituisce anche in difetto di matrimonio tra i genitori.

Non è richiesta la convivenza del familiare lavoratore con l'imprenditore; proprio per questo motivo si è discusso se anche il coniuge separato possa far parte dell'impresa familiare, ovvero a continuare a farne parte, se già rendeva la sua prestazione prima della separazione. La giurisprudenza ha assunto una posizione piuttosto cauta, imponendo una valutazione caso per caso, comprensiva anche il titolo della separazione, in funzione della permanenza o meno di una verosimile coesione fra i coniugi.

Una questione molto dibattuta, risolta solo con la sentenza della Corte costituzionale qui in esame, riguarda la possibilità di configurare il convivente more uxorio quale componente dell'impresa familiare. La prevalente giurisprudenza di legittimità la negava; quella di merito talora l'ammetteva. Per cercare di risolvere la questione, la già citata l. 76/2016 ha introdotto, con l'art. 1 comma 46, l'art. 230-ter c.c., destinato a disciplinare l'ipotesi in cui a prestare attività lavorativa sia il convivente dell'imprenditore. La previsione si inquadra nel più ampio contesto normativo della disciplina della convivenza di fatto, giuridicamente rilevante quando instaurata tra due persone maggiorenni, unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile, a prescindere dal loro sesso, che potrebbe diverso, ovvero uguale.

L'art. 230-ter c.c. è stato da subito oggetto di critiche, riservando al convivente una tutela di grado inferiore rispetto a quella del coniuge. Quest'ultimo, infatti, al pari dei parenti e degli affini ex art. 230-bis c.c., vanta diritti patrimoniali verso l'imprenditore (al mantenimento, alla partecipazione agli utili e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda anche in ordine all'avviamento), di partecipazione alle decisioni (circa l'impiego degli utili e degli incrementi, ovvero alla gestione straordinaria e alla cessazione dell'impresa) e di prelazione in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda. Al convivente di fatto, invece (in relazione alla sola attività prestata nell'impresa) non sono garantiti il diritto al mantenimento, alla partecipazione alle decisioni ed alla prelazione.

A fronte di un quadro così articolato, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno sollevato un'analitica questione di legittimità costituzionale dell'art. 230-bis c.c. e, di riflesso, dell'art. 230-ter c.c. che la Consulta ha accolto.

Osservazioni

La sentenza in esame è assai significativa e merita un'attenta riflessione in relazione ad entrambi i profili su cui si articola, ossia: i) ratio dell'art. 230-bis c.c.;

ii) rilevanza sociale e giuridica della convivenza more uxorio, alla luce del quadro normativo di riferimento, caratterizzato da due fondamentali riforme, le quali hanno rispecchiato la progressiva evoluzione dei legami familiari nella società civile: la riforma del diritto di famiglia del 1975 e la disciplina delle unioni civili e delle convivenze di fatto del 2016”.

Con la disciplina di cui all'art. 230-bis c.c., il legislatore del 1975 ha inteso evitare che la sussistenza di una comunità familiare potesse legittimare situazioni di sfruttamento, nella consapevolezza che il lavoro gratuito in molteplici contesti familiari non fosse il frutto di una scelta di libera condivisione, quanto piuttosto, come si esprime la Consulta,  “il portato di un predominio dell'imprenditore nei confronti della moglie e degli altri componenti del nucleo familiare, quale retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, ormai superata”.

È indubbio che, nella mens legis, l'art. 230-bis c.c. avesse il suo referente diretto nell'art. 29 Cost: la norma individua infatti tra i prestatori di lavoro il coniuge, nonché altri soggetti, la cui legittimazione derivava proprio dalla ricorrenza di un vincolo matrimoniale in capo all'imprenditore; si fa infatti riferimento ai parenti, quando il previgente testo degli artt. 74 e 258 c.c. escludeva ogni rilevanza giuridica alla parentela naturale, ma anche agli affini entro il secondo grado, ed è noto che, in base all'art. 78 c.c., l'affinità è il vincolo fra un coniuge ed i parenti dell'altro coniuge. In altri termini, il matrimonio (dell'imprenditore) costituiva il presupposto per l'operatività della disciplina dell'impresa familiare.

Osserva peraltro la Consulta (ed il passaggio è molto significativo) che il fondamento costituzionale dell'impresa familiare va ricondotto “ancora prima” ai principi di solidarietà ed uguaglianza di cui agli artt. 2 e 3 Cost., come pure a quelli sulla tutela del lavoro ed il divieto di discriminazione tra uomo e donna, di cui agli artt. 35,36 e 37 Cost. Il principio viene ribadito in maniera più incisiva là dove, dopo un'attenta analisi dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale del modello familiare, basato su una stabile convivenza di fatto, la Corte afferma che, pur a fronte dell'esplicito riconoscimento della famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio, di cui all'art. 29 Cost., le differenze normative tra famiglia matrimoniale e famiglia non matrimoniale, “quando si tratta di diritti fondamentali, (…)  sono recessive e la tutela non può che essere la stessa” . In altri termini, là dove si tratti di riconoscere e garantire non già l'istituzione “famiglia” di per sé, ma i diritti dei componenti di essa, nessuna discriminazione è ammissibile, in ragione della tipologia della famiglia stessa (fondata sul matrimonio, ovvero un'unione civile, o ancora una stabile convivenza, tra persone di sesso differente, oppure uguale).

In questo contesto, si palesa illegittimo il primato attribuito dall'art. 230-bis c.c. alla famiglia matrimoniale, intesa come presupposto per attribuire al solo coniuge, e non al convivente, quei diritti derivanti dalla prestazione di attività lavorativa in favore dell'imprenditore, con cui sussiste un rapporto affettivo stabile. Del resto, come si è anticipato, la l. 76/2016 ha espressamente parificato la posizione della persona civilmente unita a quella del coniuge; la sussistenza di un vincolo formale (di matrimonio piuttosto che di unione civile tra persone dello stesso sesso) non può andare a detrimento di colui che sia legato all'imprenditore con cui collabora da un rapporto di stabile convivenza di fatto (indipendente da una formale registrazione anagrafica).

Assai pregevole si palesa la sentenza in commento là dove ripercorre il lungo cammino, normativo e giurisprudenziale, che ha determinato la trasformazione della convivenza di fatto da originaria situazione “di peccato”, ovvero di indifferenza per l'ordinamento, a modello familiare concorrente e alternativo a quelli strutturati sull'assunzione formale del vincolo. Il tutto nella prospettiva non già di valorizzare l'istituzione familiare in se stessa, ma di riconoscere parità dei diritti fondamentali della persona in capo ai suoi componenti. Nel contempo, la Consulta ha cura di evidenziare come la convivenza di fatto non solo garantisca alle parti gli stessi diritti primari, propri del coniugio e dell'unione civile, ma determini anche l'assunzione di doveri di assistenza e solidarietà reciproca, in base ai ben noti principi di autodeterminazione (si pensi alle recenti decisioni sui rapporti tra titolarità di assegno di separazione o divorzio ed instaurazione di una stabile convivenza da parte del titolare, ovvero all'incidenza di scelte endofamiliari, già compiute durante una pregressa convivenza, al momento della valorizzazione del profilo compensativo e perequativo dell'assegno divorzile).

Pienamente condivisibile si palesa in conclusione la sentenza in commento, che ha emendato una vistosa aporia dell'art. 230-bis c.c., riconoscendo al solo coniuge lo status di compartecipe all'impresa familiare, che non poteva essere superata da una semplice diversa interpretazione costituzionalmente orientata. Plurime sono le norme della Carta fondamentale che si ritengono violate e di cui già si è dato atto, oltre che dell'art. 117 Cost. e per esso della Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea (art. 9) e della CEDU (art. 8 e 12): il diritto di costituire una famiglia non si pone infatti in stretta correlazione biunivoca con quello al matrimonio. Di tanto si ha indiretta riprova nella stessa recente riforma processuale, che ha introdotto un rito uniforme per le persone, i minorenni e le famiglie: l'utilizzo del plurale conferma il pacifico riconoscimento, anche nel mondo di diritto, di una pluralità di modelli familiari, attributivi degli stessi diritti a chi ne fa parte.

Del tutto coerente è poi la “secca” declaratoria di illegittimità costituzionale “derivata” dell'art. 230-ter c.c., con cui il legislatore del 2016, ben consapevole della discriminazione operata in danno del convivente, ha cercato di porvi un riparo, riconoscendogli lo status di compartecipante all'impresa familiare, se pur con diritti recessivi rispetto a quelli del coniuge e, comunque, senza efficacia retroattiva.

La pronuncia della Corte costituzionale è certamente foriera di ricedute pratiche molto rilevanti, legittimando richieste di tutela in capo a coloro che prima non potevano avanzarle.

Va qui rammentato come la costituzione di un'impresa familiare non richieda necessariamente alcuna forma ad substantiam, in quanto i diritti riconosciuti al compartecipe derivano direttamente dalla stessa prestazione continuativa di lavoro. Solo ai fini fiscali, l'indicazione nominativa dei familiari e del loro rapporto con l'imprenditore deve risultare da atto pubblico o scrittura privata autenticata, anteriore al periodo d'imposta, e sottoscritta dall'imprenditore e dai familiari. Nei confronti dell'impresa familiare trova infatti applicazione il principio di tassazione per trasparenza (analogo a quello delle società di persone), in virtù del quale il reddito prodotto è imputato a ciascun familiare, a prescindere dall'effettiva percezione del reddito e in proporzione alle quote di partecipazione agli utili. La disciplina è contenuta nell'art. 5, commi 4 e 5 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ove si precisa che i redditi delle imprese familiari, limitatamente al 49% dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, siano imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, il tutto nel rispetto della diversità della tipologia di reddito (da impresa, piuttosto che da lavoro).

Va qui evidenziato che il cit. art. 5 comma 5 ripete la formulazione dell'art. 230-bis c.c., nell'individuazione dei “familiari” ai fini delle imposte sui redditi. La previsione dovrà essere necessariamente coordinata con quanto deciso dalla Corte costituzionale, onde evitare contraddizioni tra il profilo civilistico e quello tributario Quel che rileva è che in oggi potranno essere redatti atti costitutivi di impresa familiare in cui sia compartecipe il convivente di fatto.

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