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Comunione tacita familiare

Alberto Figone
10 Ottobre 2016

La comunione tacita familiare è un istituto tradizionalmente connotato da una logica assistenziale, che, pur avendo origini antiche, ha trovato una regolamentazione solo con il codice civile del 1942. La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha abrogato l'art. 2140 c.c., stabilendo pur sempre all'ultimo comma dell'art. 230- bis c.c. (dedicato all'impresa familiare) che dette comunioni tacite siano regolate dagli usi «che non contrastino con le precedenti disposizioni».
Introduzione

La comunione tacita familiare è un istituto tradizionalmente connotato da una logica assistenziale; esso, pur avendo origini antiche, ha trovato una regolamentazione solo con il codice civile del 1942, all'art. 2140 c.c., ove era stabilito che le comunioni tacite familiari nell'esercizio dell'agricoltura fossero regolamentate dagli usi. La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha abrogato l'art. 2140 c.c., stabilendo pur sempre all'ultimo comma dell'art. 230- bis c.c. (dedicato all'impresa familiare) che dette comunioni tacite siano regolate dagli usi «che non contrastino con le precedenti disposizioni». Tale previsione ha comportato l'attrazione della comunione tacita familiare nell'alveo della disciplina dell'impresa familiare, senza peraltro un'immedesimazione in essa. La comunione tacita familiare continua dunque ad essere operativa, ancorché occorra compiere un giudizio di compatibilità della disciplina consuetudinaria in essere con i principi introdotti dalla riforma.

Costituzione, oggetto e forma

La legge non definisce la nozione di comunione tacita familiare. Essa rappresenta comunque un embrionale strumento di produzione e lavoro, certamente coerente con la situazione economico-sociale del secolo scorso. La dottrina ne individua così gli elementi costitutivi:

a) appartenenza dei partecipanti ad una medesima famiglia, con possibilità peraltro di cooptare anche membri esterni (e in tale contesto la comunione tacita è vista non solo come unità produttiva, ma pure come strumento di coesione dei rapporti familiari all'interno di una famiglia “allargata”);

b) comunione di tetto e di mensa (intesa comunque in senso non rigoroso);

c) esistenza di un “capo” (scelto espressamente o tacitamente dalla collettività e, quindi, non assimilabile al pater familias di tradizione romanistica); d) comunione degli utili e delle perdite;

e) assenza dell'obbligo di rendiconto.

Originariamente l'attività svolta in forma di comunione tacita familiare era soltanto quella agricola, come del resto confermato dalla collocazione sistematica dell'art. 2140 c.c. nel capo dedicato all'impresa agricola, nel quarto libro del codice civile. Con l'evoluzione economico-sociale la giurisprudenza aveva a suo tempo esteso in via analogica la relativa disciplina anche all'esercizio di attività commerciale; si era al riguardo osservato che, benchè la norma facesse riferimento alla comunione tacita familiare solo nell'esercizio dell'agricoltura, ciò non ne avrebbe impedito l'operatività pure in altri settori produttivi; ad oggi invece l'ambito della comunione tacita èlimitato all'esercizio dell'agricoltura. La comunione tacita familiare (come peraltro l'odierna impresa familiare) non richiede forme particolari per la sua costituzione; essa sorge con la prestazione di lavoro continuativa e cessa al venire meno di essa, specie se connotata dall'allontanamento dal nucleo familiare (Cass. civ., 2 aprile 2013, n. 7981). Molto si è discusso se sia sufficiente una mera condotta (prestazione di attività lavorativa in una situazione di affectio familiaris), ovvero sia comunque necessario un atto di volontà pure implicito, ossia desumibile da facta concludentia. Il tema è più generale e, come evidente, riflette il fondamento negoziale, o meno, dell'istituto. Del pari assai discussa è stata la natura giuridica della comunione tacita familiare, contrapponendosi varie teorie, che l'inquadravano nello schema della società, della comunione ordinaria ovvero a quella a mani riunite di tipo germanico.

Disciplina

Il citato art. 230- bis c.c., se da un lato ha mantenuto in vita le precedenti comunioni tacite familiari (ma solo nell'ambito delle attività agricole) assoggettate ancora agli usi, dall'altro ha previsto espressamente che tale disciplina non debba contrastare con il nuovo statuto dell'impresa familiare. Esso è ispirato a principi di equiparazione del lavoro dell'uomo a quello della donna (propri del resto dell'intera riforma del diritto di famiglia), all'attribuzione ai partecipanti di un diritto al mantenimento, oltre che agli utili ed agli incrementi dell'impresa, nonché ad una gestione in qualche modo collettiva dell'impresa medesima. Il compito dell'interprete è dunque quello di procedere ad un giudizio di verifica della compatibilità delle norme consuetudinarie con le disposizioni normative, e ciò allo scopo di distinguere gli usi secundum legem da quelli contra legem. A fronte dei suddetti principi dovranno ritenersi inefficaci tutte quelle norme consuetudinarie che prevedano un'organizzazione gestionale, strutturata sulla monolitica autorità di un “capo”, che discriminino la posizione della donna rispetto all'uomo, ma pure che commisurino la quota di partecipazione agli utili ai bisogni dei partecipanti piuttosto che alla quantità e qualità del lavoro prestato, ovvero che configurino la presenza di un patrimonio al momento della costituzione dell'impresa familiare, oppure che escludano poteri gestori ai partecipanti (da ultimo v. Cass. civ., sez. I, 7 maggio 2015, n. 14053). Nulla esclude che il regime si applichi anche alle unioni civili, essendo espressamente richiamata la disciplina di cui all'art. 230- bis c.c. dall'art. 1, comma 13, l. n. 76/2016.

Già si è visto che elemento costitutivo della comunione tacita familiare è rappresentato dalla presenza di un peculio, destinato a fornire i mezzi economici necessari ai bisogni della comunità familiare ed al sostentamento dei partecipanti. La giurisprudenza ha più volte precisato che l'acquisto effettuato da un partecipante con proventi comuni non comporta attribuzione alcuna alla collettività, determinando, se mai un obbligo di trasferimento agli altri componenti, salvo diversi usi contrari (Cass. civ., sez. lav., 5 maggio 2014, n. 9579), fatte salve eventuali azioni risarcitorie (Cass. civ., sez. lav., 29 luglio 2013, n. 18201). In ogni modo, non può presumersi che il denaro provenga dagli utili dell'attività economica comune, dovendo la circostanza essere rigorosamente provata (Cass. civ., sez. II, 13 dicembre 2010, n. 25158).

...E impresa familiare

Molto si è discusso sui rapporti fra comunione tacita familiare ed impresa familiare. Secondo un primo orientamento dottrinale, tra i due istituti vi sarebbe un rapporto di species a genus, in quanto l'impresa familiare sarebbe una comunione tacita regolata per legge ed ispirata a principi di parità e di uguaglianza al suo interno, dove il “capo famiglia” rivestirebbe il ruolo di prius inter pares. In diversa prospettiva si è affermato che i due istituti sarebbero ben distinti ed autonomi, come sarebbe dimostrato dal fatto che la fonte della comunione tacita è consuetudinaria (se pur nei limiti del divieto di contrasto con l'art. 230-bis c.c.) mentre nell'impresa familiare la fonte è legale. Quest'ultima tesi è stata talora condivisa anche dai giudici di legittimità, mentre è costante la pressoché ovvia considerazione per cui la comunione tacita ha costituito l'antecedente prossimo dell'impresa familiare. Nel contempo peraltro si è cercato di trovare le differenze fra gli istituti stessi (individuandosi l'impresa familiare come strumento di realizzazione di valori fondamentali delle democrazie moderne, ribaditi anche dalla nostra Costituzione: tutela del lavoro, uguaglianza, partecipazione), la comunione tacita invece rappresentativa di un modello familiare ancora arcaico e verticistico, in cui prevarrebbe l'aspetto della titolarità dell'impresa, mentre nell'impresa familiare quello della gestione. Ma pure se ne sono evidenziate le affinità (collaborazione prestata senza vincolo di subordinazione ed in assenza di vincolo societario, diritto dei partecipanti agli utili ed agli acquisti effettuati con essi; assoggettamento delle controversie al giudice del lavoro). Del resto, potrebbero configurarsi anche forme di commistione. La comunione tacita è di regola un'impresa familiare, se pure sui generis; in tal caso sarebbe possibile enucleare, nell'ambito della famiglia, un piccolo gruppo, ossia i familiari indicati dall'art. 230- bis, comma 1, c.c., che gode dei diritti stabiliti da tale norma, ed un gruppo più ampio, in posizione diversa, purché compatibile con quella degli altri; della comunione tacita potrebbero così far parte anche soggetti privi di rapporti giuridici con l'imprenditore (si pensi al convivente more uxorio: Cass. civ., sez. lav., 19 dicembre 1994, n. 10927).

Casistica

Presupposti e formalità

La comunione tacita familiare prevista dall'art. 2140 c.c. (abrogato dall'art. 205 l.n. 151/1975 sulla riforma del diritto di famiglia) sorge naturalmente e spontaneamente, per facta concludentia, e, analogamente, si estingue senza necessità di alcun atto formale in quanto collegata al sorgere e al venir meno del vincolo associativo funzionale all'esercizio di un'impresa in collaborazione reciproca fra i vari membri della stessa famiglia in presenza di un patrimonio indiviso e una comunanza di lucri, di perdite, di mensa e di tetto. Ne consegue che la condotta del familiare che si sia allontanato dalla casa comune, abbia costituito un autonomo nucleo familiare ed avviato un'autonoma e distinta attività, estranea a quella gestita dal consorzio parentale di provenienza, con godimento dei relativi proventi, integra i presupposti del recesso dal rapporto associativo, senza che debba essere osservato alcun requisito di forma (Cass., sez. lav., 2 aprile 2013, n. 7981)

La volontà dei partecipanti alla comunione tacita familiare può essere manifestata anche attraverso un comportamento tacito concludente e non richiede uno specifico atto di conferimento di beni patrimoniali, essendo sufficiente lo svolgimento di attività lavorativa in comune, che è idonea di per sé anche all'espressione della volontà negoziale indirizzata al compartecipe (Cass., sez. lav., 13 maggio 1997, n. 4171)

Il coniuge che affermi il diritto di comproprietà su bene immobile intestato all'altro coniuge, in forza di un regime di comunione tacita familiare - idoneo ad estendersi di diritto agli acquisti fatti da ciascun partecipante, senza bisogno di mandato degli altri, né di successivo negozio di trasferimento - ha l'onere di fornire la relativa prova, tenendo conto che la suddetta comunione non può essere desunta da una mera situazione di collaborazione familiare, ma postula atti o comportamenti che evidenzino inequivocabilmente la volontà di mettere a disposizione del consorzio familiare determinati beni, nonché di porre in comune lucri, perdite ed incrementi patrimoniali (Trib. Roma 16 ottobre 2014, in Imm. e prop. 2015, 59)

Acquisto individuale di beni

Il regime dei beni della comunione tacita familiare, che è caratterizzata, oltre che dalla comunanza di lucri e di perdite, dalla formazione di un unico peculio, gestito senza particolari formalità ed obblighi di rendiconto, destinato indivisibilmente a fornire i mezzi economici necessari ai bisogni della comunità familiare ed al sostentamento dei suoi partecipanti, non comporta, ove un bene sia acquistato in proprio da singolo partecipante con i proventi comuni, l'acquisto automatico da parte della collettività, bensì un obbligo di trasferimento dal singolo acquirente agli altri membri della comunione, salvo che non risulti uno specifico uso che invece consideri fatti per la comunione anche gli acquisti "nomine proprio" dei singoli partecipanti (Cass. sez. lav. 5 maggio 2014, n. 9579)

Nell'ipotesi di comunione tacita familiare, di cui all'abrogato art. 2140 c.c.., l'acquisto di un bene da parte di un singolo componente non comporta il trasferimento automatico della proprietà in favore della collettività né giustifica una richiesta di divisione, potendo tale acquisto dare luogo solo ad una azione risarcitoria da parte degli altri membri della comunione (Cass., sez.lav., 29 luglio 2013, n. 18201; conf. Cass., sez. lav., 15 gennaio 2004, n. 631)

Ove il partecipante ad una comunione tacita familiare, di cui all'abrogato art. 2140 c.c., acquisti in nome proprio un immobile, non è consentito presumere che il denaro utilizzato per l'acquisto provenga dagli utili dell'attività economica comune, attesa la compatibilità del fondo comune costituito da detti utili con un patrimonio personale dei partecipanti; ne consegue che colui il quale alleghi che l'acquisto è stato compiuto con denaro proveniente dal fondo comune ha l'onere di darne la prova (Cass., sez. lav., 13 dicembre 2010, n. 25158)

Convivenza more uxorio In un rapporto lavorativo che si svolga nell'ambito della convivenza more uxorio è da escludere la ricorrenza di un rapporto di subordinazione onerosa, mentre è possibile inquadrare il rapporto stesso, in carenza di prove contrarie, nell'ipotesi della comunione tacita familiare come delineata dall'art. 230 bis c.c. (Cass.civ., sez. lav., 19 dicembre 1994, n. 10927)
Divieto di discriminazione In tema di comunione tacita familiare, le "Regole" venete, disciplinate dalla l. r. Veneto 19 agosto 1996, n. 26, in attuazione della legge quadro 31 gennaio 1994, n. 97, sono persone giuridiche di diritto privato, la cui autonomia statutaria è sotto ordinata ai principi della Costituzione, dell'ordinamento giuridico in genere, nonché del diritto consuetudinario, da cui hanno tratto origine, sicché le delibere da esse adottate sono soggette al sindacato del giudice ordinario ex art. 23 c.c. Ne consegue l'illegittimità della norma statutaria (nella specie, della Regola di Casamazzagno) che limita la partecipazione alla comunione ai soli individui di sesso maschile e la estende anche ai non residenti nel luogo, in quanto in palese violazione del principio di uguaglianza rispetto al genere femminile ed in contrasto con i principi consuetudinari, per i quali hanno diritto di partecipare alla Regola solo nuclei familiari radicati sul territorio (Cass., sez. lav., 7 luglio 2015, n. 14053)

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