Con la sentenza n. 143/2024 la Consulta ha, da un lato, dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 164/1982 nella parte in cui non consente l’attribuzione di un sesso diverso da quello maschile e femminile e, dall’altro, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, d.lgs. n. 150/2011 nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.
Con questa pronuncia la Corte costituzionale affronta, per la prima volta, il tema del non binarismo di genere e svecchia in parte il procedimento di rettificazione di attribuzione di sesso.
Inquadramento
La legge n. 164/1982 è stata emanata per affrontare la problematica della transessualità e con essa il nostro legislatore ha introdotto, oltre quarant'anni fa, il procedimento per ottenere la rettificazione di attribuzione di sesso.
In origine questa procedura prevendeva un rigido giudizio bifasico in virtù del quale una persona che intendeva affermare il proprio genere, diverso da quello assegnato alla nascita, doveva adire l'Autorità giudiziaria due volte: una per ottenere l'autorizzazione all'intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali; l'altra, dopo essersi sottoposta all'intervento, per chiedere la rettificazione anagrafica, cambiando così nome e genere.
Con il passare del tempo, la procedura anzidetta ha dimostrato segni di obsolescenza, anche dopo la modifica ad opera del d.lgs. n. 150/2011.
Una legge nata con l'intento di tutelare l'identità delle persone, si è rivelata, a distanza di anni, più che altro una gabbia che ne ostacolava la libera autodeterminazione.
Con la pronuncia in esame la Consulta ha preso posizione su due questioni che verranno trattate di seguito separatamente: l'introduzione di un terzo genere (diverso da femminile e maschile) e l'autorizzazione all'intervento chirurgico nel percorso di affermazione di genere.
Il caso
L. N., persona con sesso femminile assegnato alla nascita, non riconoscendosi in tale genere, né in quello maschile, bensì in un genere non binario con prevalenza della componente maschile, chiedeva al Tribunale di Bolzano la rettificazione del sesso da "femminile" ad "altro" e il cambiamento del prenome da L. a I., nonché il diritto di sottoporsi a ogni intervento medico-chirurgico in senso gino-androide.
Il Tribunale di Bolzano sollevava le questioni di incostituzionalità dell'art. 1 l. n. 164/1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) nella parte in cui non consente l'attribuzione di un sesso diverso da quello maschile e femminile e dell'art. 31, comma 4, d.lgs. n. 150/2011 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69) nella parte in cui prescrive l'autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l'accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.
Identità di genere non binaria
Il nostro ordinamento giuridico è basato sul binarismo di genere, ossia su una rigida distinzione tra maschile e femminile, sin da quando un individuo viene al mondo.
L'art. 30, d.P.R. n. 396/2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127) prevede che la dichiarazione di avvenuta nascita resa all'ufficiale dello stato civile contenga l'indicazione del sesso (del bambino o della bambina) e il successivo art. 35 dispone che il nome del nato corrisponda al sesso indicato nella dichiarazione di nascita.
La legge n. 164/1982 sulla rettificazione dell'attribuzione di sesso rientra in questo schema perché consente a chi lo richiede di ottenere un sesso diverso da quello enunciato dall'atto di nascita e, posta la necessaria corrispondenza tra sesso e nome, dispone anche che al mutamento di sesso consegua un nuovo nome.
Esistono, tuttavia, persone con un tipo di identità di genere la cui riconoscibilità negli atti dello stato civile si presenta problematica perché non si identificano nel genere corrispondente ai caratteri sessuali né in quello opposto e desiderano essere riconosciute come appartenenti a un “terzo genere” (“genere x” o “genere neutro”).
Per la prima volta la Consulta, con la pronuncia oggetto di attenzione, esamina la questione del non binarismo di genere e lo fa, innanzitutto, riconoscendo l'esistenza delle persone non binary: “la percezione dell'individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l'esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l'ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.)” aggiungendo che questa condizione, poiché attualmente non normata“ può sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost.”.
Richiamando la pratica delle “carriere alias” la Corte costituzionale dimostra di aver correttamente inteso la problematica in esame, tuttavia, pur condividendo le perplessità evidenziate dal giudice remittente, non ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 1 della legge 164/1982 nella parte in cui non consente l'attribuzione di un sesso diverso da quello maschile e femminile, ritenendo le questioni sollevate in proposito inammissibili.
Secondo la Consulta è il legislatore a doversi fare interprete della sensibilità sociale, valutando con quale modalità riconoscere le persone non binarie, anche perché un'eventuale introduzione di un terzo genere comporterebbe un intervento legislativo di sistema nei vari settori: si pensi, per esempio, al diritto di famiglia e ai requisiti per accedere al matrimonio o alle unioni civili, o al diritto del lavoro e alle leggi sui congedi, etc.
Nel provvedimento in esame si legge che nemmeno a livello sovranazionale vi sarebbe una posizione univoca al riguardo, la Corte di Strasburgo ha peraltro escluso che vi sia un'obbligazione positiva di registrazione non binaria, in virtù dell'art. 8 della CEDU, non potendosi ancora ritenere sussistente un consensus europeo al riguardo (sentenza 31.01.23, Y contro Francia).
Insomma, riconoscimento del non binarismo di genere sarebbe ancora in fase embrionale e dunque non sarebbe possibile pretendere che gli stati aderenti alla convenzione EDU si impegnino a contemplare nel proprio ordinamento un genere X o un genere neutro.
La dichiarazione di inammissibilità della Corte costituzionale rispetto alla questione suddetta giunge pertanto senza particolare sorpresa da parte degli addetti ai lavori, ma resta comunque una pronuncia importante per aver prestato attenzione al tema e aver posto le basi per una riflessione in proposito.
Occorrerà chiedersi innanzitutto se il rigido binarismo sessuale del nostro ordinamento giuridico rispecchi valori ancora avvertiti da parte della collettività e, in caso di risposta negativa, ci si dovrà domandare se sia meglio inserire un terzo genere dedicato a chi non voglia essere incasellato né in quello maschile né in quello femminile o se, invece, possa essere più interessante intervenire a monte, eliminando qualsiasi distinzione di genere.
In presenza di questo vuoto normativo, una piccola soluzione alla richiesta di tutela dell'identità delle persone non binary potrebbe, al momento, essere rappresentata dalla modifica del nome, ex art. 89 d.P.R. 396/00, con uno unisex (o “ambigenere”).
La norma citata dispone che chiunque voglia cambiare il nome “deve farne domanda al prefetto della provincia del luogo di residenza o di quello nella cui circoscrizione è situato l'ufficio dello stato civile dove si trova l'atto di nascita al quale la richiesta si riferisce. Nella domanda l'istante deve esporre le ragioni a fondamento della richiesta”.
Attraverso un'istanza motivata è stato, per esempio, possibile ottenere in alcune prefetture italiane la modifica del prenome con uno neutro: Andrea, Celeste, Alex sono solo alcuni dei nomi unisex che sono stati attribuiti sia a femmine che a maschi.
Con questo stratagemma la persona richiedente manterrà, com'è ovvio, il genere assegnatole alla nascita, ma almeno potrà avere un nome che rispetti maggiormente la sua dignità, in attesa che il legislatore intervenga, cogliendo le riflessioni della Corte costituzionale.
La decisione della Corte costituzionale
In virtù del principio personalistico alla base della nostra Costituzione, gli atti di disposizione del proprio corpo sono rimessi, in linea di principio, all'autodeterminazione del soggetto con l'eccezione prevista dall'art. 5 c.c.: “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume”.
In deroga al divieto suddetto, il legislatore ha disciplinato in alcuni casi eccezionali l'ammissibilità di interventi che determinano una diminuzione permanente della propria integrità fisica.
La legge n. 164/1982 rientra tra questi casi perché consente, con autorizzazione del Tribunale, l'adeguamento dei caratteri sessuali con trattamento medico chirurgico.
Per lungo tempo l'autorizzazione del Tribunale è stata la conditio sine qua non per procedere all'intervento chirurgico e conseguentemente alla rettifica anagrafica di sesso e nome.
Il medico che avesse operato il paziente in assenza di tale permesso avrebbe posto in essere il reato di lesioni (dolose o colpose a seconda dei casi) e la lesione dell'integrità fisica, quand'anche assentita dall'interessato, configura un atto illecito che può obbligare il suo autore al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c.
Come anticipato, la procedura di rettificazione di attribuzione del sesso prevendeva in origine un giudizio bifasico in virtù del quale prima si doveva ottenere l'autorizzazione da parte del Tribunale all'intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali; e, solo dopo aver effettuato l'intervento, si poteva chiedere la rettificazione anagrafica, cambiando così nome e genere.
Tuttavia, iniziavano a porsi alcuni problemi in grado di ostacolare il normale iter del procedimento sopra descritto.
Innanzitutto, accadeva che alcune persone si fossero sottoposte all'estero agli interventi di demolizione e riassegnazione del sesso, cosicché il giudizio bifasico previsto dalla l. 164/1982 perdeva di significato dal momento che in questi casi la procedura di rettificazione di attribuzione del sesso era finalizzata alla mera richiesta della rettifica anagrafica, posto che l'autorizzazione ad effettuare il trattamento medico non era più necessaria.
Un altro problema era che alcune persone, o per paura o per problematiche di salute, non avrebbero potuto sottoporsi agli interventi di adeguamento dei caratteri sessuali, cosicché ci si chiedeva se fosse giusto precludere a costoro la possibilità di ottenere una sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, soltanto perché non avevano potuto completare il mutamento di genere anche dal punto di vista fisico.
Sebbene anche a seguito del passaggio dalla l. 164/1982 al d.lgs. 150/2011 sia rimasta la previsione dell'autorizzazione all'intervento chirurgico - l'art. 31 comma 1 del d.lgs. citato dispone infatti che: “Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato. Il procedimento è regolato dai commi 1, 2 e 3” – qualche anno dopo è intervenuta una lettura più evoluta della formula "quando risulta necessario".
L'intervento chirurgico potrebbe infatti non essere necessario e così, appunto, si è espressa la Corte di cassazione con la pronuncia n. 15138/2015, dando un'interpretazione costituzionalmente orientata e conforme alla Convenzione Europea dei diritti umani, secondo cui tale intervento non è quindi ineludibilmente imposto dalla legge. Sempre gli ermellini hanno, inoltre, dato rilievo alla circostanza che l'art. 1 comma 1 della l. n. 164/82, non specifica se le "intervenute modificazioni" debbano riguardare i caratteri sessuali primari o secondari.
Nella prima fase di applicazione della legge del 1982, era prevalso l'orientamento secondo il quale, per “intervenute modifiche dei caratteri sessuali”, si dovessero intendere trasformazioni dei caratteri sessuali primari (ossia degli organi genitali e riproduttivi connessi all'aspetto strettamente anatomico della persona umana), successivamente, invece, si è opinato che il riferimento fosse ai caratteri sessuali secondari (altre caratteristiche fisiche e psichiche, quali la conformazione del corpo nei suoi diversi tratti, il timbro della voce, etc.).
L'interpretazione della Corte di Cassazione è poi stata vidimata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 221/2015 che - nel dichiarare non fondata la questione di legittimità di cui alla l. n. 164/ 1982, art. 1, primo comma - ha fornito un'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata della norma in esame nel senso di escludere il carattere necessario dell'intervento chirurgico.
Dal 2015 si rimette, quindi, al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l'assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di affermazione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l'identità di genere. Si arriva pertanto alla conclusione che l'acquisizione di una nuova identità di genere può essere frutto di un processo individuale che non postula l'obbligo di sottoporsi a un'operazione chirurgica, sempre che la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale sia oggetto di un rigoroso accertamento da parte del giudice.
Con la sentenza n. 180/2017 la Consulta ha poi avuto modo di chiarire che sebbene l'intervento non sia obbligatorio “va escluso che il solo elemento volontaristico possa rivestire prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell'accertamento della transizione”, quindi comunque serve un quid pluris per accogliere una domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.
La pronuncia n. 143/2024 della Corte costituzionale si pone in questo solco e affrontando il tema dell'autorizzazione all'intervento chirurgico dichiara incostituzionale l'art. 31 comma 4, del d.lgs. n. 150/2011 nella parte in cui prescrive l'autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l'accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.
La Consulta descrive come “irrazionale” il regime autorizzatorio perché non si coordina con la sentenza della Corte di cassazione n. 15138/2015 e con la propria pronuncia n. 221/2015 a seguito delle quali era stata sancita la non obbligatorietà dell'intervento chirurgico ai fini dell'accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.
Di tale che per la Consulta l'autorizzazione citata “non corrisponde più alla ratio legis” e non si può che condividere tale affermazione.
Resta tuttavia da capire cosa intenda la Corte costituzionale allorquando ritiene superflua l'autorizzazione davanti ad un percorso di transizione “già sufficientemente avanzato” perché è solo in tal caso che l'autorizzazione all'intervento chirurgico perderebbe di significato.
L'autorizzazione giudiziale per i trattamenti medico-chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali, scrive la Consulta, “non può dirsi in sé manifestamente irragionevole (…) considerata l'entità e l'irreversibilità delle conseguenze prodotte sul corpo del paziente da simili interventi chirurgici”.
Nel caso che ha dato origine all'ordinanza di rimessione del Tribunale di Bolzano, la persona non binaria aveva documentato di aver effettuato trattamenti medici e piscoterapeutici dando prova di essere in terapia ormonale da diversi mesi.
In conclusione
La decisione della Corte costituzionale è certamente di pregio nella misura in cui riconosce le persone di identità di genere non binaria e nella parte in cui dichiara incostituzionale l'autorizzazione all'intervento chirurgico in presenza di un percorso di transizione sufficientemente avanzato, ma qualcosa in più poteva essere fatto in questa occasione.
Rimettere al legislatore il compito di farsi interprete della sensibilità sociale sulla questione del non binarismo di genere significa, di fatto, lasciare che la sofferenza dell'individuo che percepisce di non appartenere né al sesso maschile né a quello femminile rimanga tale.
È ormai noto come il nostro Parlamento sia particolarmente inerte davanti alla necessità di legiferare in materia di diritti civili (si pensi al problema del riconoscimento dei figli delle coppie omoaffettive) e quindi forse la Consulta avrebbe potuto – posto il disagio significativo delle persone non binary – essere più incisiva e lanciare un vero e proprio monito al legislatore.
Per quanto poi concerne la dichiarata incostituzionalità dell'autorizzazione al trattamento medico-chirurgico occorreva, forse, spendere qualche parola in più perché quanto scritto dalla Corte non è sufficiente a rispondere ad una serie di quesiti che sorgono affrontando i casi da un punto di vista pratico: quando per esempio può dirsi che il percorso di transizione sia ad uno stadio “sufficientemente avanzato”?Può, per esempio, dirsi tale una terapia ormonale iniziata da un mese?
Significa, ancora una volta, rimettersi alla valutazione discrezionale del giudice adito, lasciando margine ad interpretazioni non univoche.
Risulta più convincente - nonché più lungimirante - la soluzione adottata dal Tribunale di Lucca con la sentenza del 28 maggio 2018 che all'esito del giudizio di affermazione di genere ha ritenuto di non dover nemmeno autorizzare l'attrice all'intervento chirurgico “posto che, a seguito della presente sentenza, l'interessata potrà procedere all'intervento autonomamente, proprio sulla base della disposta rettifica anagrafica”.
Perché la pronuncia della Consulta fosse davvero utile per le persone transgender sarebbe stato importante che la Corte assumesse una decisione nei termini di quella lucchese, scevra di quantificazioni circa l'avanzamento del percorso di transizione; oppure questa doveva essere l'occasione per lanciare un altro monito al legislatore, affinché riscrivesse l'intera disciplina del percorso di affermazione di genere, positivizzando magari anche le “carriere alias”, stante il riconosciuto vantaggio che comportano per il benessere psicofisico dell'individuo.
Riferimenti
M. Winkler Persone non binarie: la decisione della Corte Costituzionale, in Il Quotidiano Giuridico;
E. Feletti I diritti delle persone non binarie davanti alle Corti comparate, in Il Quotidiano Giuridico;
A. Pioggia, La carriera alias: identità accademica e genere in Giornale di diritto amministrativo, n. 2, 1 marzo 2024, p. 156;
D. Amoroso e M. F. Orzan Recentissime Corti europee - Cambio del marcatore di genere per persona intersex e art. 8 CEDU in Giurisprudenza Italiana, n. 3, 1 marzo 2023, p. 515;
T. Mauceri Identità di genere e differenziazione sessuale. problemi interpretativi e prospettive normative in Le Nuove Leggi Civili Commentate, n. 6, 1 novembre 2018, p. 1475;
A. Scarcella Viola la CEDU negare il cambio del nome ad un transessuale prima dell’intervento chirurgico, in Il Quotidiano Giuridico.
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