Sulla violazione dei criteri legali di ermeneutica nell’interpretazione degli accordi raggiunti dei coniugi
04 Marzo 2025
Massima L'accordo transattivo relativo alle attribuzioni patrimoniali, concluso tra le parti in occasione di un giudizio di separazione o di divorzio, ed estraneo all'oggetto del giudizio di divorzio (status, assegno di mantenimento per il coniuge o per i figli, casa coniugale), seppure avente causa nella crisi coniugale, ha natura negoziale e produce effetti senza necessità di essere sottoposto neppure al giudice per l'omologazione; peraltro, la soluzione dei contrasti interpretativi tra una pattuizione a latere ed il contenuto di una separazione omologata o sentenza di divorzio, spetta al giudice di merito ordinario, il quale dovrà fare ricorso ai criteri dettati dagli artt. 1362 s.s. c.c. in tema di interpretazione dei contratti. La questione Quali sono le regole di ermeneutica a cui occorre far riferimento per dirimere un contrasto interpretativo tra una pattuizione a latere e il contenuto di una separazione omologata o di una sentenza di divorzio? Il caso In sede di separazione consensuale omologata due coniugi avevano raggiunto un accordo di natura economico-patrimoniale con il quale prevedevano di vendere un immobile gravato da due mutui. Successivamente, in sede divorzile, l’accordo in questione era stato richiamato ed era confluito nella sentenza di divorzio con ulteriori puntualizzazioni da parte delle parti. La vendita dell’immobile avveniva, quindi, l’anno seguente senza accollo di mutui da parte dell’acquirente. Successivamente a tale operazione, il marito agiva in via monitoria nei confronti della moglie reclamando l’importo a lui spettante a seguito della vendita dell’immobile, in ragione degli accordi prima trascritti. A seguito dell’opposizione proposta dalla moglie, il Tribunale, ritendendo che il credito fatto valere in via monitoria fosse stato parzialmente estinto, decideva di revocare il decreto ingiuntivo. Tale decisione, però, veniva interamente riforma in secondo grado. Da qui, quindi, il ricorso per cassazione promosso dal marito in quanto, a suo dire, la Corte d’appello aveva violato i criteri legali di ermeneutica nell’interpretazione dell’accordo raggiunto in sede divorzile dal momento che non solo non aveva considerato la comune, reale ed effettiva volontà delle parti, ma neppure il senso letterale delle parole. Pertanto, a detta dell’uomo, la motivazione del giudice di seconde cure si poneva in aperto contrasto la volontà delle parti dato che nessuna condizione sospensiva era stata prevista nell’accordo raggiunto in sede di divorzio. Le soluzioni giuridiche La questione affrontata dalla pronuncia in esame impone un breve digressione in merito alla tematica degli accordi negoziali conclusi dai coniugi in sede di separazione e divorzio avuto particolar riguardo al loro contenuto, valenza ed interpretazione. Com'è noto, gli accordi che le parti possono raggiungere in sede di separazione e di divorzio, possono avere un contenuto necessario (relativo all'affidamento dei figli, al regime di visita, ai modi di contributo al mantenimento dei figli, all'assegnazione della casa coniugale, alla misura e al modo di mantenimento, ovvero alla determinazione di un assegno divorzile) ed uno eventuale (attinente alla regolamentazione di ogni altra questione patrimoniale o personale tra i coniugi stessi). Tradizionalmente gli accordi “negoziali” erano ritenuti del tutto estranei alla materia familiare e alla logica contrattuale, affermandosi che si perseguiva un interesse della famiglia trascendente quello delle parti, e l'elemento patrimoniale, ancorché presente, era strettamente collegato e subordinato a quello personale. Oggi, escludendosi, in genere, che l'interesse della famiglia sia superiore e trascendente rispetto alla somma di quelli, coordinati e collegati, dei singoli componenti, si ammette sempre più frequentemente un'ampia autonomia negoziale, e la logica contrattuale, seppur con qualche cautela, là dove essa non contrasti con l'esigenza di protezione dei minori o comunque dei soggetti più deboli, si afferma con maggior convinzione. La Cassazione, da tempo, poi, ritiene che la clausola di trasferimento di immobile tra i coniugi, contenuta nei verbali di separazione o recepita dalla sentenza di divorzio congiunto, sia valida tra le parti e nei confronti dei terzi, quando soddisfa l'esigenza della forma scritta, così come il trasferimento o la promessa di trasferimento di immobili, mobili o somme di denaro, quale adempimento dell'obbligazione di mantenimento (o assistenziale) da parte di un coniuge nei confronti dell'altro. Nel tempo, poi, la stessa giurisprudenza di legittimità è variamente intervenuta, con particolare riferimento agli accordi extragiudiziali, in occasione della separazione, attraverso una complessa evoluzione, verso una più ampia autonomia negoziale dei coniugi. Dapprima si affermava che tutti i patti intercorsi tra i coniugi, in vista della separazione, anteriori, coevi o successivi, indipendentemente dal loro contenuto, dovevano essere sottoposti al controllo del giudice che, con il suo decreto di omologa, conferiva ad essi valore ed efficacia giuridica. Successivamente, si cominciò ad effettuare una distinzione sul contenuto necessario ed eventuale delle separazioni consensuali, sui rapporti tra i genitori e figli, riservati al controllo del giudice, e tra coniugi, che, almeno tendenzialmente, rimanevano nell'ambito della loro discrezionale ed autonoma determinazione, in base alla valutazione delle rispettive convenienze, fino a sostenere, da ultimo, l'autonomia negoziale dei genitori, anche nel rapporto con i figli, se volta ad un miglioramento degli assetti concordati davanti al giudice (Cass. civ., 08 novembre 2006, n. 23801). Recentemente, poi, la Suprema Corte ha, a più riprese, affermato che l'accordo delle parti raggiunto in sede di separazione o di divorzio (e magari quale oggetto di precisazioni comuni in un procedimento originariamente contenzioso) ha natura sicuramente negoziale, e talora dà vita ad un vero e proprio contratto (Cass. civ., 20 agosto 2014, n. 18066) e che la soluzione dei contrasti interpretativi tra una pattuizione a latere ed il contenuto di una separazione omologata o di una sentenza di divorzio, spetta al giudice di merito, il quale dovrà fare ricorso ai criteri di cui all'art. 1362 c.c. previsti in tema di interpretazione dei contratti. Con la conseguenza che la censura in sede di legittimità dell'interpretazione di una clausola contrattuale offerta dal giudice di merito impone al ricorrente l'onere di fornire, con formale autosufficienza, gli elementi alla complessiva unitarietà del testo e del comportamento non adeguatamente considerati dal giudice di merito, nella loro materiale consistenza e nella loro processuale rilevanza. Ciò premesso, il caso di specie, come più volte ricordato, riguardava un accordo stipulato tra ex coniugi, al momento della separazione e del successivo divorzio, al fine di disciplinare le questioni patrimoniali insorte nella coppia. A detta della Cassazione, il ricorrente ha illustrato in maniera specifica e circostanziata gli elementi di fatto posti a fondamento delle critiche ed ha individuato le regole di ermeneutica contrattuale, letterale e secondo il comportamento delle parti, a suo parere, distintamente violate dalla Corte di appello. Quest'ultima, al contrario, ha esaminato in maniera parziale il testo letterale dell'accordo relativo alla vendita, dal momento che ha estrapolato alcuni passaggi dalla più ampia ed articolata regolamentazione prevista, volta a sistemare i rapporti economico – patrimoniali delle parti all'esito delle vicende di separazione e divorzio, con attenzione alle possibili ricadute familiari e personali, collegate all'avvenuta stipula dei mutui garantiti dalle possibili conseguenze di eventuali inadempimenti. In particolare, secondo la S.C., il giudice di secondo grado avrebbe dovuto esaminare le diverse ipotesi alternative ivi disciplinate e, in particolare, quella che manteneva fermo il diritto dell'ex marito alla somma concordata in sede di separazione anche nel caso di mancata vendita dell'immobile, nonché considerare il comportamento della ex moglie, che aveva agito in via riconvenzionale ed aveva formulato domande che presupponevano l'esistenza e l'efficacia dell'accordo e che, viceversa, apparivano incompatibili con l'esistenza di una presunta clausola sospensiva. Queste, dunque, le ragioni che hanno portato la Suprema Corte ad accogliere il ricorso e a cassare con rinvio la sentenza impugnata. Osservazioni La pronuncia in esame si presenta senza dubbio interessante anche nella parte in cui la Cassazione ricorda che l’interpretazione del contratto, in sede di legittimità, è sindacabile solo nei limiti dell’applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale e della logica della sua motivazione. In particolare, nell’interpretazione del contratto, funzione fondamentale assume l’elemento letterale, mentre il senso letterale della singola parola, anche nella sua chiarezza, è insufficiente a delineare la comune intenzione delle parti, la quale emerge solo attraverso la connessione degli elementi letterali, la relativa integrazione e la valutazione del complessivo comportamento delle parti. In tale ottica, quindi, la censura in sede di legittimità dell’interpretazione di una clausola contrattuale offerta dal giudice di merito impone al ricorrente l’onere di fornire, con formale autosufficienza, gli elementi alla complessiva unitarietà del testo e del comportamento non adeguatamente considerati dal giudice di prime cure, nella loro materiale consistenza e nella loro processuale rilevanza. |