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L’ordine di protezione contro gli abusi familiari emesso “nel” giudizio di revoca per indegnità dell’adottato

28 Marzo 2025

L’ordinanza annotata, inserendosi tra le pronunce che affrontano il delicato tema dei comportamenti violenti, aggressivi, minacciosi e vessatori tenuti dal figlio (adottivo) nei confronti dei genitori, conferma la possibilità di emanare gli ordini di protezione anche in pendenza di altro procedimento di merito (come per esempio, quello avente ad oggetto la revoca dell’adottato per indegnità), e ciò tanto allo scopo di interrompere situazioni di convivenza divenute ormai intollerabilmente conflittuali, quanto al fine di impedire o prevenire condotte antigiuridiche in ambito familiare.

Massima

Nel caso in cui sussista il concreto rischio che un componente del nucleo familiare (tra cui il figlio maggiorenne adottato), il quale abbia già manifestato un atteggiamento minaccioso e violento, ponga in essere ulteriori condotte di aggressione ancora più gravi nei confronti dei conviventi (come i genitori o i fratelli), appare indispensabile la conferma del provvedimento con cui il giudice, inaudita altera parte, abbia precedentemente disposto l’allontanamento dalla casa familiare per la durata di un anno. In particolare, costituisce principio ormai pacifico che gli ordini di protezione possono essere emessi non solo allo scopo di interrompere situazioni di convivenza divenute ormai intollerabilmente conflittuali, ma anche di impedire e prevenire condotte antigiuridiche in ambito familiare ove le stesse possano aver luogo, in quanto propiziate dalla vicinanza (in termini di rapporti e di luoghi di frequentazione), tra i soggetti conviventi.

Il caso

I fatti di causa, seppure con alcune peculiarità, si presentano semplici, lineari, di agevole qualificazione, di intensa e abituale verificazione, avendo ad oggetto comportamenti lato sensu vessatori all’interno della famiglia.

In particolare, un figlio maggiorenne adottivo (vale a dire un altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente) pone in essere ripetute espressioni minacciose e vessatorie, utilizza un linguaggio molesto, offensivo ed umiliante, reitera condotte di aggressione fisica nei confronti dei due adottanti; questi ultimi, pertanto, falliti i tentativi di inserimento del figlio nelle diverse comunità (da cui si allontanava ripetutamente) si vedevano costretti – a fronte di plurime forme di aggressione domestica – ad agire in giudizio domandando la revoca per indegnità dell’adottato e chiedendo contestualmente l’emissione di un decreto inaudita altera parte (e con effetto immediato) di «allontanamento del convenuto dall’abitazione dei genitori adottivi, sussistendo il grave pericolo per l’incolumità degli stessi ed il pregiudizio nel ritardo».

Ebbene, la pronuncia in commento ha ad oggetto proprio l’ordinanza con cui il giudice delegato ha confermato il provvedimento emesso inaudita altera parte che disponeva l’allontanamento del figlio dalla casa familiare per la durata di un anno.

La questione

La vicenda in esame affronta, innanzitutto (ed inevitabilmente), il tema assai noto della legittimazione e dei presupposti per l’applicazione degli ordini di protezione contro gli abusi familiari; in particolare, ci si chiede: quali sono le persone tutelate dagli artt. 473-bis.69 ss. c.p.c.? Quale è la ratio di tale disciplina? Ed ancora: i provvedimenti in discorso possono essere emessi solo allo scopo di interrompere situazioni di convivenza divenute ormai intollerabilmente conflittuali o anche al fine di impedire e prevenire condotte antigiuridiche in ambito familiare? L’ordinanza, però, sembrerebbe consentire al lettore di soffermarsi anche su altra questione, rimasta implicita, quasi sullo sfondo e che, ciononostante, si presenta altrettanto importante e rilevante nell’economia delle fattispecie del tipo di quelle considerate: il provvedimento emesso inaudita altera parte e la successiva ordinanza di conferma, revoca o modifica possono essere emesse solo nell’ambito di un autonomo giudizio ovvero anche in pendenza di altro procedimento di merito (come per esempio, quello avente ad oggetto la revoca dell’adottato per indegnità)?

Le soluzioni giuridiche

Come noto, l'istituto degli ordini di protezione familiare – originariamente disciplinato dalla legge 4 aprile 2001, n. 154 (recante «Misure contro la violenza nelle relazioni familiari») che aveva introdotto, tra l'altro, gli artt. 342-bis e 342-ter c.c. nonché l'art. 736-bis c.p.c. – trova attualmente (a seguito della riforma del processo civile, c.d. Riforma Cartabia: d.lgs 10 ottobre 2022, n. 149 e successivo «correttivo», d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164) la propria collocazione sistematica nel codice di proceduta civile (Libro II, Titolo IV bis, Capo III, Sezione VII, artt. 473-bis.69 c.p.c., 473-bis.70 e 473-bis.71, 473-bis.72).

In particolare, gli ordini di protezione, apprestano una tutela di tipo inibitorio a fronte di condotte gravemente pregiudizievoli – poste in essere non solo da (e nei confronti di) un «coniuge o convivente» (artt. 473-bis.69 c.p.c.) ma anche «da altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge, dalla parte dell'unione civile o dal convivente, ovvero nei confronti di altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge, dalla parte dell'unione civile o dal convivente» (art. 473-bis.72 c.p.c.) – di interessi personali di rango costituzionale, quali «l'integrità fisica», l'integrità «morale» e la «libertà».

Tale tutela (ammissibile, differentemente che in passato, anche per l'ipotesi in cui la convivenza sia già cessata: art. 473-bis.69 c.p.c.) si esplica principalmente nell'ordine di cessazione della condotta, di allontanamento dalla casa familiare ed eventualmente di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima; ove occorra, può inoltre disporsi l'intervento dei servizi sociali ed il pagamento periodico di un assegno di mantenimento (art. 473-bis.70 c.p.c.), tanto che, al riguardo, parte della dottrina ritiene che si tratti di provvedimenti di condanna o di carattere atipico ampiamente modulabili nel singolo caso concreto (G. Carapezza Figlia, C. Petta, Ordini di protezione contro gli abusi familiari, in NLCC, 4-5/2023; F. Danovi, Ordini di protezione e competenza del giudice del conflitto familiare, in Fam. Dir., 2017).

Così individuato l'ambito soggettivo di applicazione delle prefate norme, allora, è del tutto evidente – come ricordato nel provvedimento in epigrafe – «la volontà del legislatore di allargare la protezione dell'abuso ad ogni componente del nucleo familiare, inteso qui nell'accezione allargata di gruppo fondato su rapporti di fatto e caratterizzato dall'elemento della convivenza, a prescindere dalla sussistenza di legami di parentela o di affinità» (Trib. Salerno, sez. I, 12 febbraio 2025).

La ratio della disciplina, infatti, è quella «di impedire comportamenti non rispettosi del diritto dei conviventi alla serenità familiare» (Trib. Salerno, sez. I, 12 febbraio 2025); quest'ultima locuzione («serenità familiare») si presenta, del resto, particolarmente felice in quanto àncora l'operatività degli ordini di protezione a ogni rapporto qualificabile, nel singolo caso concreto, come «vita familiare», caratterizzata (se non necessariamente dal «fatto coabitativo» che ben potrebbe essere cessato: cfr. Trib. min., Milano, 3 dicembre 2010) da un'esistenza in comune, elemento all'evidenza indispensabile per qualificare la forma di violenza come «domestica» (così G. Carapezza Figlia, C. Petta, Ordini di protezione contro gli abusi familiari, cit.).

Il requisito della convivenza, quindi, non è necessario per l'emissione dei provvedimenti in discorso (Trib. Modena, 29 luglio 2004), in quanto la finalità perseguita dalle norme è quella di «tutelare i familiari da condotte pregiudizievoli che potrebbero essere perpetrate anche al di fuori della casa familiare, tanto che il contenuto del provvedimento può andare al di là del semplice allontanamento dalla casa coniugale, giungendo al divieto di frequentare altri luoghi in cui sia possibile incontrare le vittime» (Trib. Perugia, sez. I, 7 agosto 2020).

Parimenti, come anticipato, gli ordini di protezione non richiedono, necessariamente, una violenza fisica, potendo sostanziarsi in una serie di molestie, ingiurie e minacce o in comportamenti arroganti e prevaricatori caratterizzati da prepotenza e aggressività, ovvero finanche in atteggiamenti (manifestati in pubblico) sprezzanti ed irriverenti, sempreché le varie forme vessatorie si rivelino capaci – oltre che di ledere in modo attuale e concreto l'integrità morale e la libertà dell'individuo – anche solo di ingenerare il timore di subire condotte lesive (App. Cagliari, sez. I, 12 maggio 2020, n. 274; Trib., Bologna, 25 agosto 2022; F. Agnino, Ordini di protezione e presupposti di applicabilità, in Corr. Merito, n. 3/2005; C. Petitti, Le misure contro la violenza nelle relazioni familiari: modalità applicative e problemi procedurali, in Fam. Dir., 4/2002).

Ebbene, nella vicenda in esame emerge (per stessa ammissione, seppur parziale, del figlio) un ambiente familiare caratterizzato da ripetute espressioni minacciose e vessatorie, dall'utilizzo di un linguaggio molesto, offensivo ed umiliante, nonché da reiterate condotte di aggressione fisica del figlio maggiorenne adottivo nei confronti dei due genitori; cosicché, proprio in ragione del contegno effettivamente tenuto, non potrebbe che sussistere il concreto rischio che vengano poste in essere ulteriori aggressioni ancora più gravi nei confronti dei genitori conviventi nell'ipotesi della protrazione della coabitazione nella casa familiare, onde – al fine di impedire e prevenire ulteriori condotte antigiuridiche in ambito familiare – la necessità di confermare il decreto con cui il giudice, inaudita altera parte, aveva precedentemente disposto l'allontanamento dalla casa familiare per la durata di un anno (Trib. Salerno, sez. I, 12 febbraio 2025).

Secondo il costante orientamento giurisprudenziale in materia (puntualmente richiamato), invero, «gli ordini di protezione possono essere emessi non solo allo scopo di interrompere situazioni di convivenza divenute ormai intollerabilmente conflittuali, ma anche di impedire e prevenire condotte antigiuridiche in ambito familiare ove le stesse possano aver luogo, in quanto propiziate dalla vicinanza – in termini di rapporti e di luoghi di frequentazione – tra i soggetti conviventi» (Trib. Bari, 11 dicembre 2001; Trib. Firenze, 15 luglio 2002; Trib. Milano, 13 agosto 2005; Trib. Modena, 29 luglio 2004; Trib. Milano, 19 febbraio 2004; Trib. Bologna, 22 marzo 2005; Trib. Roma, 25 giugno 2002; Trib. Salerno, sez. I, 13 aprile 2012).

Ciò posto, da ultimo, occorre brevemente domandarsi se siffatti provvedimenti possano essere emessi solo nell'ambito di un autonomo giudizio ovvero anche in pendenza di altro procedimento di merito (come per esempio, quello avente ad oggetto la revoca dell'adottato per indegnità).

Il rapporto tra diversi giudizi è stato affrontato, principalmente, con riguardo ai giudizi di separazione o di scioglimento (o cessazione degli effetti civili) del matrimonio. Ed invero, la normativa previgente stabiliva che gli ordini di protezione non potessero essere assunti quando, all'interno di un giudizio di separazione o di divorzio, si fosse già celebrata l'udienza presidenziale (art. 8, comma 1, l. n. 154/2001) e che tali statuizioni (evidentemente nella misura in cui fossero legittimamente emesse prima dell'instaurazione del giudizio di separazione o divorzio) perdevano efficacia non appena fosse pronunciata l'ordinanza contenente i provvedimenti temporanei ed urgenti (art. 8, comma 2, l. n. 154/2001).

L'udienza presidenziale segnava pertanto la linea di demarcazione oltre la quale gli ordini di protezione non potevano più essere emessi o perdevano automaticamente efficacia, in quanto ogni provvedimento in materia sarebbe stato affidato proprio all'ordinanza presidenziale.

Ne derivava, di conseguenza, che nel lasso temporale intercorrente tra il deposito del ricorso per separazione (o divorzio) e l'udienza di comparizione dei coniugi la competenza ad adottare gli ordini di protezione veniva tendenzialmente attribuita al giudice monocratico e non già al presidente del tribunale, che avrebbe successivamente emesso i provvedimenti temporanei e urgenti nel giudizio della separazione o del divorzio (Trib. Mantova, 24 dicembre 2018; Trib. Genova, 7 gennaio 2003; Trib. Bari, 20 dicembre 2001).

Viceversa, secondo la dottrina (C. Marino, Sulla competenza del giudice del conflitto familiare a decidere degli ordini di protezione contro gli abusi familiari, in Fam. Dir., 2019) e altra parte della giurisprudenza (Trib. Perugia, sez. I, 7 agosto 2020), anche di legittimità (Cass., sez. I, 22 giugno 2017, n. 15482), nei casi in cui la pronuncia dell'ordine di protezione fosse richiesta contestualmente alla presentazione della domanda di separazione o divorzio (ovvero nei giudizi di affidamento del figlio), le misure di protezione potevano essere adottate – in virtù del principio di concentrazione delle tutele – dal giudice che stava trattando una qualsiasi vertenza familiare.

Del tutto condivisibile risulta, pertanto, l'ordinanza in commento che, pur non affrontando specificamente la questione, tuttavia la risolve in modo implicito, applicando correttamente e coerentemente un principio ormai noto: il ricorso può essere «proposto sia in pendenza del procedimento di merito, innanzi al giudice che lo conduce, oppure ante causam» (così la Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149), come dimostra anche l'abrogazione della previsione dell'incompatibilità dell'emanazione di un ordine di protezione con la pendenza di un procedimento di separazione o divorzio (di cui all'art. 8, L. n. 154/2001). La «bontà» della conclusione raggiunta nella decisione in rassegna, stante l'evoluzione giurisprudenziale e normativa che ha accompagnato l'istituto, non ha dunque richiesto di «dimostrar l'evidenza» (P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato (1956), Ed. Ponte alle Grazie, rist. 2015).

Osservazioni

Come si è avuto modo di vedere, allora, la peculiarità della vicenda consiste proprio nel fatto che l'ordine di protezione è stato emesso nell'ambito di un giudizio volto ad ottenere la revoca dell'adozione per indegnità dell'adottato; adottato che, oltre ad aver tenuto condotte aggressive, violente e minacciose, affermava altresì che «alla fine a me sta pure bene se revocano l'adozione. Io già me ne volevo andare di casa» (Trib. Salerno, sez. I, 12 febbraio 2025).

Nel procedimento di merito, però – a differenza dell'odierno sub-procedimento – si dovrà concretamente verificare se il comportamento del figlio si sia effettivamente tradotto in un attentato alla vita dell'adottante (oltre che dei suoi discendenti o ascendenti) ovvero in reati punibili con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, come richiesto dall'art. 306 c.c. (o, più precisamente, dall'art. 51, l. 4 maggio 1983, n. 184).

Da quest'ultimo punto di vista, in particolare, il giudice civile sarà chiamato a valutare la ricorrenza delle condizioni per la revoca dell'adozione «e, incidentalmente, il rilievo penale e la sussumibilità della condotta dell'adottato nelle ipotesi previste dall'art. 306 c.c., alla luce delle fattispecie di reato che definiscono gli elementi costitutivi dei delitti prospettati nel caso concreto» (Cass., sez. I, 6 febbraio 2025, n. 2946); e, dunque, se vi siano «i presupposti giuridici, di fatto e morali per procedere alla revoca dell'adozione per indegnità dell'adottato» per essersi il figlio «reso colpevole nei confronti dei genitori adottivi di atti gravissimi» (Trib. Siena, sez. I, 13 settembre 2017, n. 855), configuranti reati astrattamente punibili con una pena detentiva non inferiore nel minimo ai tre anni, come per esempio, i «maltrattamenti contro familiari o conviventi» di cui all'art. 572 c.p.

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