Trust e azione di riduzione
02 Febbraio 2016
Massima
Gli atti di trasferimento di beni a favore del trustee di un trust istituito con atto tra vivi sono astrattamente assoggettabili all'azione di riduzione. Il caso
Un imprenditore costituisce a Londra un trust regolato dalla legge inglese, affidando ai due trustees del medesimo l'intero capitale di una società lussemburghese, controllante altre società, costituenti, insieme alla prima, un gruppo. Beneficiari del trust sono i figli c.d. di primo letto del disponente mentre la figlia minorenne del medesimo, nata da altra relazione coniugale, non figura tra i beneficiari. Morto il disponente, la figlia minorenne agisce in giudizio per sentire: a) dichiarare nulli per illiceità della causa e comunque per frode alla legge i negozi attraverso cui il defunto affidò ai trustees del trust le partecipazioni societarie di cui era titolare, sia direttamente che tramite interposta persona o società fiduciarie, in quanto preordinati a ledere i suoi diritti successori o comunque a renderne difficile se non impossibile l'esercizio; b) dichiarare nullo il trust per causa illecita e frode alla legge o, comunque, non riconoscibile in Italia per ciò che attiene alla volontà negoziale; c) dichiarare nulli per mancanza di causa tutti i negozi finalizzati a porre le partecipazioni societarie sotto il controllo dei trustees in quanto preordinati a ledere i suoi diritti successori; d) dichiarare quindi che tutti i cespiti intestati ai trustee erano rimasti nella titolarità del disponente e quindi formavano parte del suo asse ereditario. La questione
La vicenda affrontata dalla sentenza è molto complessa, tanto che ha dato luogo a una pluralità di controversie collegate, sia in Italia che all'estero, tutte riguardanti il medesimo trust, tra cui la questione di giurisdizione, risolta da Cass. n. 14041/2014, con cui è stata affermata la competenza del giudice italiano, considerandosi inopponibile ai terzi estranei rispetto all'atto di trust la clausola di proroga della competenza in favore del giudice straniero (inglese nel caso di specie). La questione centrale concerne la validità e la conseguente riconoscibilità in Italia di un trust istituito all'estero, ritenuto dall'attrice contrario alla norma dell'ordinamento italiano che vieta il mandato a donare (art. 778 c.c.) nonché alle norme inderogabili che riguardano i testamenti e la devoluzione dei beni successori, in particolare la legittima (norme fatte salve dall'art. 15 Conv. Aja, 1 luglio 1985, ratificata dalla l. 16 ottobre 1989, n. 364). Le soluzioni giuridiche
Il tribunale in primo luogo ritiene di affrontare (d'ufficio, trattandosi di questione non sollevata dalle parti) la questione della riconoscibilità dei trust c.d. interni, che risolve affermando che nel caso di specie non si tratta di trust interno bensì di trust estero. Ciò per le seguenti ragioni: a) l'atto era stato stipulato all'estero; b) le partecipazioni poste sotto il controllo del trustee erano di società straniere; c) i trustees erano soggetti stranieri e non meramente domiciliati all'estero. Il tribunale prosegue affermando che, al fine di valutare se – per ipotesi – il trust violi principi e norme inderogabili dell'ordinamento italiano occorre vagliarne la “causa concreta”. Esclude anzitutto il tribunale che il trust abbia violato, come ritenuto dall'attrice, le norme in materia di mandato a donare e in specie l'art. 778, comma 1, c.c., secondo cui è nullo il mandato con cui si attribuisce ad altri la facoltà di designare la persona del donatario o di determinare l'oggetto della donazione. Ritiene il tribunale che pur ammettendo il comma 2 della medesima norma la donazione a favore di persona che un terzo sceglierà tra più persone designate dal donante o appartenenti a determinate categorie, o a favore di una persona giuridica tra quelle indicate dal donante stesso e prevedendo l'art. 1772, n. 4, c.c., l'estinzione del mandato per morte del mandante, l'atto di trust aveva invece una durata massima di 80 anni con facoltà di estinzione anticipata solo a discrezione del trustee. Inoltre, continua il tribunale, il trust è atto diverso dal mandato a donare e quindi non può non essere riconosciuto affermandosi che la sua disciplina risulta difforme da quella di altro e diverso istituto dell'ordinamento interno, Venendo invece alla “causa concreta” del trust il tribunale osserva anzitutto che l'attrice non ha proposto alcuna azione di riduzione, bensì ha chiesto che il trust e i conseguenti atti con cui i beni del disponente sono stati posti sotto il controllo dei trustees venissero dichiarati nulli, in quanto meramente finalizzati a rendere impossibile alla figlia minorenne del disponente di esercitare le azioni a tutela della propria posizione di legittimaria. E ciò quand'anche la figlia minorenne potesse essere ritenuta compresa tra i beneficiari del trust (questione ulteriore, su cui il tribunale non si pronuncia), in quanto si tratta di trust discrezionale, per cui ella non sarebbe in condizione di esercitare, finché dura il trust, l'azione di riduzione per lesione di legittima, non potendo tale lesione essere concretamente “misurabile”. Il tribunale respinge la domanda di nullità del trust e degli atti di trasferimento dei beni ai trustees, affermando che il disponente, con l'istituzione del trust, non intendeva regolare la propria successione, bensì garantire continuità a una gestione unitaria e coordinata del proprio gruppo di imprese. Le ragioni di ciò vengono rinvenute nel fatto che il trust ha ad oggetto solo partecipazioni sociali e non anche altri cespiti del disponente; e nel fatto che anche il coniuge del disponente ha conferito in trust le proprie partecipazioni (secondo l'attrice riferibili al medesimo disponente), operazione che non avrebbe avuto senso se il disponente avesse voluto escludere la figlia minorenne dalla propria successione. Le partecipazioni intestate alla moglie del disponente non sarebbero infatti comunque pervenute alla figlia minorenne del disponente essendo quest'ultima stata generata dal disponente con altra donna. Conclude quindi il tribunale ritenendo la “causa concreta” del trust di tipo "imprenditoriale e commerciale" e non "patrimoniale e successoria". Ritiene infine il Giudice di primo grado che la tesi di parte attrice, secondo cui il trust le avrebbe reso impossibile l'esercizio dell'azione di riduzione, non merita accoglimento in quanto, se è pur vero che l'atto istitutivo di trust in sé considerato non può violare alcuna norma successoria in quanto mero atto programmatico, non è meno vero che avverso i singoli atti di disposizione patrimoniale di beni da parte del disponente in favore dei trustees l'azione di riduzione sia pacificamente esercitabile, previa dimostrazione che si tratti di atti di liberalità (anche indiretta) e che essi abbiano determinato una lesione della quota legittima. Osservazioni
Si osserva in primo luogo che appare dubbia la qualificazione del trust oggetto della vicenda giudiziaria come "estero". Visto il tenore dell'art. 13 Conv. Aja, infatti, per “trust interno” si deve intendere il trust che è fonte di un rapporto giuridico i cui “elementi significativi” (per tali dovendosi intendere sia - com'è pacifico - il luogo in cui i beni sono ubicati e quello in cui lo scopo del trust deve essere perseguito, sia – come parrebbe affermare la tesi prevalente - la cittadinanza e residenza del disponente e dei beneficiari) sono localizzati all'interno del nostro ordinamento e i cui unici elementi di internazionalità sono quindi costituiti: a) indefettibilmente, dalla legge regolatrice del trust (essendo quest'ultima – per definizione – una legge straniera); b) eventualmente, anche dal luogo di amministrazione del trust e da quello di residenza abituale del trustee. Nel caso di specie sembra invece che il giudice qualifichi "estero" il trust in ragione del solo luogo di costituzione (avvenuta all'estero), senza considerare che i disponenti erano italiani, i beneficiari erano italiani e lo scopo del trust, verosimilmente, sarebbe dovuto essere realizzato in Italia (data la presenza tra i beni in trust della partecipazione in una società lussemburghese che era la capofila delle società operative italiane). Per tale ragione, la questione della qualificazione del trust (se estero o interno) avrebbe ad avviso di chi scrive meritato maggiore approfondimento (tanto più che il medesimo tribunale, con sentenza del 28 febbraio 2015, con riferimento ad altri due trust, sicuramente interni, stipulati dal medesimo disponente in favore dei medesimi beneficiari, non aveva esitato a dichiararne d'ufficio la nullità). Per quanto riguarda la questione relativa ai rapporti tra trust e mandato a donare, il tribunale ha - giustamente - affermato che si tratta di due istituti giuridici diversi, tuttavia la questione vera, che il tribunale non ha affrontato, è un'altra, Il trust, infatti, conteneva una clausola del seguente tenore: "I trustee potranno pagare o impiegare tutto o parte del capitale del fondo in trust in favore di o a beneficio di tutti o taluni dei beneficiari, nelle proporzioni e nel modo che i trustees in genere riterranno a loro discrezione opportuni." Pertanto, posto che il trust in questione può essere apprezzabile come liberalità indiretta (ciò che, alla fin fine, riconosce anche il tribunale) e si ritiene che alle liberalità indirette si applichi l'art. 778 c.c., norma ritenuta espressione del c.d. principio della personalità della volizione liberale, sia sotto il profilo soggettivo che sotto il profilo oggettivo, ne risulta l'illiceità della clausola dell'atto di trust, che, come quella in esame, attribuisca ai trustees il potere assoluto di individuare il beneficiario o l'oggetto della liberalità. Il tribunale ha quindi travisato l'oggetto della domanda dell'attrice, che è stata respinta sulla sola base della (ovvia) considerazione per cui strutturalmente il trust è istituto diverso dal mandato a donare. Riguardo al tema della "causa concreta" del trust, ritenuta dall'attrice illecita in quanto finalizzata a violare la legittima e comunque a impedirle o renderle più difficoltoso l'esercizio dell'azione di riduzione, si osserva quanto segue. Che le disposizioni contenute in un trust debbano rispettare le norme interne in materia di tutela dei legittimari discende pacificamente dall'art. 15, comma 1, lett. c) Conv., il quale prevede che la Convenzione non costituisce ostacolo all'applicazione delle disposizioni della legge designata dalle norme del foro sul conflitto di leggi quando con un atto volontario non si possa derogare a esse, in particolare nelle seguenti materie, tra cui appunto, alla lett. c), testamenti e devoluzione ereditaria, in particolare la successione necessaria. Tale affermazione è pacifica anche in giurisprudenza (Trib. Lucca 23 settembre 1997, in Foro It., 1998, I, 2007, confermata da App. Firenze, 9 agosto 2001, in Trusts, 2002, 244; Trib. Urbino 11 novembre 2011). Rispetto a un trust istituito con atto tra vivi ritenuto lesivo della legittima si pongono una serie di rilevanti problemi: 1) Lo scarto temporale e l'avvicendamento di diversi soggetti (il disponente, il trustee per la durata del trust, i beneficiari finali) nella titolarità dei beni la cui mancanza dall'asse ereditario può determinare lesione di legittima. 2) La difficoltà di inquadrare il rapporto tra disponente e beneficiari, posto che – se ci si ferma ai ruoli, e non si guarda poi alla possibilità che il disponente nomini trustee se stesso – gli ultimi ricevono i beni non dal primo ma dal trustee; l'analisi di questo rapporto si complica ove si consideri la rilevanza, nei trusts discrezionali, dell'elemento volitivo del trustee; nell'ambito di questi ultimi, rimanendo attribuita al trustee la facoltà di scelta su quando, cosa ed a chi distribuire i beni vincolati, non sono nemmeno individuabili i beni, la cui mancanza dal patrimonio ereditario integri una lesione di legittima, e i soggetti che ne stanno giovando. 3) La difficoltà di inquadrare l'atto di donazione, esecutivo di un atto istitutivo di trust, come donazione (anche indiretta) posto che destinatario di trasferimento di proprietà è il trustee, che non se ne arricchisce. 4) La difficoltà di inquadrare come donazione il negozio con il quale il trustee trasferisce i beni al beneficiario (sembrando mancare anche lo spirito di liberalità, poiché questi adempie un'obbligazione). 5) La necessità di individuare i criteri per selezionare i beni che possono essere oggetto di imputazione: il potere del trustee di disporre durante il trust dei beni vincolati fa sì che tali cespiti possano essere trasformati in altri, ad esempio venduti e trasformati in denaro. Ma tale potere implica l'eventualità che non possano essere aggrediti i valori effettivi che sono usciti dal patrimonio del disponente per causa liberale; potrebbe costituire oggetto di imputazione il valore attualizzato di un bene, in seguito agli atti di disposizione e amministrazione compiuti dal trustee? 6) La possibilità che all'esercizio dell'azione di riduzione addivengano tanto i soggetti completamente esclusi dalla dinamica del trust, tanto quelli che, ancorché individuati come beneficiari, “subiscano” lo svantaggio di dover attendere la fine del trust per potere ottenere la titolarità dei beni. L'impostazione ritenuta prevalente è nel senso che siffatti trusts siano apprezzabili come donazioni indirette soggette all'azione di riduzione, a collazione e imputazione, con il seguente risultato: un atto di donazione che violasse le disposizioni a tutela dei legittimari non sarebbe da considerarsi nullo, ma solo inefficace, nei limiti delle disposizioni lesive e nei confronti del legittimario leso, una volta esperita l'azione di riduzione. La tesi che invece l'attrice ha tentato di fare valere fa sostanzialmente leva su una particolare interpretazione dell'art. 13 Conv.. Sulla base di tale norma si è affermato che un trust lesivo dei diritti dei legittimari non dovrebbe essere riconosciuto, e la disposizione fatta in favore del trustee (attuativa del programma dell'atto istitutivo, secondo la nota distinzione tra questo e il negozio dispositivo) sarebbe nulla per mancanza di causa. Si ritiene, cioè, che l'azione di riduzione, astrattamente proponibile risulti non esperibile perché le disposizioni del trust (nel caso concreto il trust era totalmente discrezionale) paralizzerebbero la tutela che il codice appresta ai soggetti lesi. La disposizione secondo cui «Nessuno Stato è tenuto a riconoscere il trust», secondo il dettato dell'art. 13 Conv. abiliterebbe quindi a disapplicare la legge straniera che conferisce validità al trust. Da ciò deriverebbe la mancanza di giustificazione causale e la conseguente nullità del trasferimento dal disponente al trustee: con l'effetto che i beni che ne sono stati oggetto rientrerebbero nel patrimonio del disponente e sarebbero sottoposti alla successione legittima. La sentenza respinge la tesi della nullità, ma lo fa sulla base di un ragionamento non condivisibile. Afferma la sentenza che la "causa concreta" del trust non era «violare i diritti del legittimario» bensì «garantire continuità a una gestione unitaria e coordinata del proprio gruppo di imprese». E trae questa convinzione sulla base di dati che non appaiono per nulla decisivi, cioè il fatto che il trust avesse per oggetto solo partecipazioni sociali e non anche altri cespiti del disponente (ma senza precisare quali fossero i cespiti rimasti "fuori" dal trust) e il fatto che anche il (primo) coniuge del disponente avesse conferito in trust le proprie partecipazioni. Nient'altro. Parlare di trust avente causa "imprenditoriale e commerciale" e non "patrimoniale e successoria" è inoltre del tutto generico se non supportato da elementi concreti che individuino una sorta di "prevalenza" dell'una sull'altra. Per tacer del fatto che parlare di causa "patrimoniale" appare abbastanza incomprensibile. Sembra quasi che il tribunale abbia voluto a tutti i costi individuare una "causa concreta" diversa al fine di evitare di dichiarare nullo il trust. Come se davvero un trust che leda i diritti di un legittimario possa davvero essere nullo, il che ci pare - a onor del vero - non sostenibile. Ora, se è evidente che in capo al trustee si realizza un accentramento della proprietà delle partecipazioni e una conseguente gestione unitaria delle stesse, ciò non toglie che il trust è strutturato in modo tale da far pervenire le partecipazioni stesse ai figli dei disponenti, il che, se non ci s'inganna, integra in tutto e per tutto una liberalità indiretta, che potrà certamente essere lesiva della legittima. Il che, però, come già detto non conduce all'invalidità del trust. Non si vede infatti perché un trust lesivo della legittima debba essere nullo mentre spogliarsi di tutti i beni attraverso una serie di donazioni le renda solo riducibili. L'attrice ha inoltre sostenuto che, pur ammessa la validità del trust sotto il profilo della "causa concreta" la discrezionalità del trustee nell'attribuire i beni le impedirebbe di esercitare i diritti di legittimario. Il trust sarebbe nullo, quindi, per ragioni di "funzionamento" dell'azione di riduzione, che non avrebbe un oggetto verso cui destinarsi. Il tribunale si limita a dire che siffatto trust è riducibile in presenza dei presupposti di legge senza però interrogarsi sul come e, soprattutto, sul quando è possibile esercitare l'azione. Il punto fondamentale è verificare se, anche di fronte a un trust così congegnato, sia possibile individuare un'adeguata tutela dei legittimari senza necessariamente passare attraverso la dichiarazione di nullità (salvo si tratti davvero di un trust "artefatto", cioè un simulacro giuridico vuoto di senso e privo di causa) ciò che, tra l'altro, farebbe rientrare tutti i beni nel patrimonio del defunto. Lasciando da parte i problemi relativi all'individuazione dell'oggetto della liberalità (indiretta), già sopra evidenziati, ciò che rileva è la legittimazione passiva, atteso che, come spessissimo accade, al momento della morte del disponente i beni non sono stati ancora attribuiti ai beneficiari. Pare da escludere la legittimazione passiva del trustee (anche se dovrà essere chiamato in giudizio comunque, poiché gli effetti della sentenza di riduzione sono destinati a prodursi anche nella sua sfera giuridica), in quanto egli è titolare di una proprietà affetta da un vincolo di destinazione opponibile ai terzi, in relazione alla quale egli può ritenersi titolare di un ufficio di diritto privato, una proprietà, cioè, dalla quale il trustee non può trarre alcun vantaggio economico personale. Non resta che concludere, allora, individuando i beneficiari del trust, che pur ricevendo i beni dal trustee, sono da ritenere donatari indiretti del defunto, quali legittimati passivi dell'azione. Con un'importante conseguenza: che se la posizione beneficiaria è sottoposta a un termine iniziale o a una condizione sospensiva tuttora pendenti alla morte del de cuius, l'azione sarà immediatamente esperibile nel primo caso (essendo, infatti, certa l'esistenza della liberalità) e solo una volta che la condizione si sia avverata nel secondo, senza che fino a tale avveramento il relativo termine di prescrizione possa decorrere, visto il disposto dell'art. 2935 c.c. Nel nostro ordinamento non esiste infatti un principio in virtù del quale il legittimario deve poter agire in riduzione sin dall'epoca dell'apertura della successione (cfr. Cass., S.U., 25 ottobre 2004, n. 20644, la quale ha affermato che il termine di prescrizione per agire in riduzione contro un'istituzione ereditaria testamentaria decorre non già dalla morte del de cuius, bensì a far tempo dall'accettazione dell'eredità da parte del soggetto istituito). Là dove quindi nessun arricchimento si sia verificato in capo ai beneficiari, nessuna azione di riduzione potrà essere proposta dal legittimario leso, il cui esercizio dovrà ritenersi sospeso (e con esso la prescrizione) fino a quando il diritto non potrà essere fatto valere. |