L'accertamento giudiziale della paternità dei figli nati fuori dal matrimonio non si prescrive

Fabio Francesco Franco
06 Luglio 2017

La Suprema Corte torna ancora una volta sul delicato tema dell'imprescrittibilità dell'azione prevista dall'art. 270, comma 1, c.c., effettuando una comparazione degli interessi tutelati, sia dal lato paterno, che da quello dei soggetti legittimati alla sua proposizione.
Massima

L'accertamento giudiziale di paternità non si prescrive. L'esigenza di certezza dei rapporti non rende quest'ultima un valore costituzionale prevalente su quello perseguito dal legislatore della riforma del 1975 – e degli anni successivi per altri profili – di assicurare un'ampia tutela ai figli nati fuori dal matrimonio.

Il caso

Con distinte domande Sc.La.Lu e Sc.Ma.An. ricorrevano in primo grado richiedendo, rispettivamente, l'accertamento del rapporto di filiazione in capo a S.F.G.A. nonché il pagamento delle somme anticipate e la condanna al pagamento di una somma mensile a titolo di mantenimento ex art. 148 c.c..

S.F.G.A., impugnava la decisione con la quale erano state accolte le domande di Sc.La.Lu e Sc.Ma.An. innanzi alla Corte d'appello di Cagliari – sezione di Sassari – sollevando, in questa sede, questione di legittimità costituzionale dell'art. 270, comma 1, c.c. nella parte in cui sanciva l'imprescrittibilità dell'azione. All'esito del giudizio la Corte territoriale dichiarava: a) che non fosse inesistente la notifica dell'atto introduttivo eseguita presso il luogo di residenza di S.; b) che era manifestamente infondata la prospettata questione di legittimità costituzionale dell'art. 270, comma 1, nei termini proposti; c) che le censure sollevate nei confronti della consulenza tecnica non erano sorrette da alcun idoneo argomento scientifico; d) che, nonostante quanto disposto dall'art. 277, comma 2, c.c., le Sc. avevano rispettivamente formulato sia una domanda di condanna al rimborso delle spese pro quota in ordine al mantenimento, educazione ed istruzione dalla nascita di Sc.La.Lu. sino alla data della sentenza, sia la domanda di condanna al pagamento di un assegno di contributo al mantenimento sino al raggiungimento dell'indipendenza economica; e) che il Tribunale aveva legittimamente fatto decorrere l'obbligo di corresponsione dell'assegno di mantenimento dalla data della sentenza che aveva accolto la domanda di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento effettuata dal coniuge di Sc.Ma.An.; f) che S. aveva genericamente dedotto lo svolgimento di attività lavorativa da parte della figlia, senza fornire alcun riscontro probatorio.

Avverso questa sentenza proponeva ricorso S.F.G.A., nei confronti del quale le intimate non svolgevano attività difensiva.

In motivazione:

«La sentenza n. 58/1967 della Corte Costituzionale, ricordata dal ricorrente, ebbe, infatti, per verso, ad osservare che i limiti temporali previsti dal previgente art. 271 c.c. corrispondevano all'esigenza di salvaguardare, oltre che gli interessi della famiglia legittima, anche quelli della persona verso cui la ricerca si rivolge; “interessi che poi coincidono con gli altri più generali della certezza del diritto, indubbiamente compromessi dal consentire l'esperibilità dell'azione a tempo indeterminato; ma, non sussistendo un principio costituzionale al quale ricondurre l'imprescrittibilità delle azioni di stato, “deve ritenersi rilasciato alla discrezionalità del legislatore stabilirla in alcuni casi (come, per es. oltre che per l'ipotesi prima ricordata, per le azioni del figlio naturale consentite, ai sensi dell'art. 279 c.c., allo scopo di ottenere la corresponsione di alimenti a carico del genitore), e non già in altri.

In tale prospettiva, la mancata previsione di un termine, soprattutto alla luce del superamento della previgente norma che lo prevedeva, non significa che un bilanciamento sia mancato, ma solo che è stato operato, nel caso concreto, rendendo recessiva l'aspettativa del padre rispetto alle esigenze di vita e di riconoscimento dell'identità personale del figlio.

(…) la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell'art. 277 c.c., e, quindi, a norma dell'art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 c.c.; la relativa obbligazione si collega allo status genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l'altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l'onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 c.c.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall'art. 1229 c.c. nei rapporti fra condebitori solidali.

La condanna al rimborso della quota per il periodo precedente la proposizione dell'azione non può prescindere da un'espressa domanda della parte, attenendo tale pronunzia alla definizione dei rapporti pregressi tra debitori solidali, ossia a diritti disponibili, e quindi non incidendo sull'interesse superiore del minore, che soltanto legittima l'esercizio dei poteri officiosi attribuiti al giudice dall'art. 277 c.c., comma 2.

La necessità di analoga domanda non ricorre riguardo ai provvedimenti da adottare in relazione al periodo successivo alla proposizione dell'azione, atteso che, durante la pendenza del giudizio, resta fermo il potere del giudice adito, in forza della norma suindicata, di adottare di ufficio i provvedimenti che stimi opportuni per il mantenimento del minore».

La questione

Le questioni affrontate dalla Suprema Corte nella pronuncia in esame sono essenzialmente due: a) la costituzionalità del bilanciamento operato tra l'esigenza di certezza dei rapporti parentali rispetto alla tutela concessa dal Legislatore nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio, tale da prevedere come imprescrittibile l'azione di accertamento della paternità giudiziale; b) i limiti temporali, nonché gli effetti, della sentenza dichiarativa della filiazione naturale, anche in rapporto alla natura delle diverse obbligazioni scaturenti da tale pronuncia.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte con la sentenza in oggetto, torna ancora una volta sul delicato tema dell'imprescrittibilità dell'azione prevista dall'art. 270, comma 1, c.c., effettuando una comparazione degli interessi tutelati, sia dal lato paterno, che da quello dei soggetti legittimati alla sua proposizione.

Nel caso in esame, infatti, il padre aveva proposto questione di legittimità costituzionale del suddetto articolo prospettando, un grave squilibrio tra la posizione del soggetto destinatario dell'accertamento giudiziale, nel caso specifico il padre, perché impossibilitato dopo molti anni a reperire mezzi di prova idonei, con presunta lesione del suo diritto di difesa, e quella dei figli, indotti a non compiere atti conservativi del patrimonio, attesa l'imprescrittibilità dei diritti economici conseguenti all'eventuale accoglimento della domanda. A sostegno di tali valutazioni, pertanto, veniva citata una risalente pronuncia della Corte Costituzionale (sent. n. 58/1967), nella quale era stato affrontato il tema della decadenza biennale prevista dall'art. 271 c.c. (abrogato dalla l. n. 151/1975) in rapporto all'esigenza di salvaguardia sia degli interessi della famiglia legittima, che quelli del destinatario dell'azione. La Suprema Corte, pertanto, ha ritenuto di partire proprio dall'esame di tale sentenza, laddove veniva ritenuta, da un lato, “non contestabile” la finalità dell'art. 30, u.c., Cost. di meglio assicurare la tutela giuridica e sociale dei figli nati fuori dal matrimonio, dall'altro, quella di arrestare la protezione della prole “naturale” al punto in cui essa si palesi incompatibile con i diritti della famiglia legittima. Ebbene, rileva la Corte che la riforma del diritto di famiglia del 1975, la quale ha previsto l'abrogazione dell'art. 271 c.c., introducendo l'”imprescrittibilità” dell'azione di dichiarazione giudiziale di paternità (art. 270, comma 1, c.c.), si era prefissata un fine superiore rispetto a quello dell'esigenza di certezza dei rapporti familiari, ovvero garantire la tutela più ampia possibile ai figli nati fuori dal matrimonio. Pertanto, conclude evidenziando come l'omessa previsione di un termine sia stata solamente il frutto di un bilanciamento tra l'aspettativa del padre e le esigenze di vita e di riconoscimento dell'identità personale della prole, terminato con favore di queste ultime.

Confermata la costituzionalità della norma, la Corte si spinge ad analizzare la determinazione dei limiti temporali, ovvero degli effetti, della sentenza dichiarativa della filiazione “naturale”, con specifico riferimento ai rapporti interni che ne scaturiscono.

La Corte, infatti, ha censurato decisamente la sentenza di appello, che aveva ritenuto legittima la pronuncia emessa in primo grado nella parte in cui in cui l'obbligo di corresponsione del mantenimento era stato fatto decorrere dalla data della sentenza che aveva accolto la domanda di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento operato dall'allora coniuge di Sc. Ma. An.. Il ricorrente, infatti, con il secondo motivo di impugnazione, rilevava come Sc.La.Lu e Sc.Ma.An. avessero proposto due distinte domande, anche sotto il profilo della collocazione temporale: una finalizzata ad ottenere il rimborso pro quota delle spese sostenute per il mantenimento, l'educazione e l'istruzione della figlia dalla nascita sino alla data della sentenza dichiarativa della filiazione; l'altra, proposta dalla figlia, diretta ad ottenere la condanna alla corresponsione di un assegno di mantenimento sino all'indipendenza economica, e che quest'ultima, tuttavia, doveva ritenersi “proiettata per il futuro”, non dovendosi ritenere un mero duplicato della prima. Non solo, la pronuncia della Corte territoriale risultava errata anche nella parte in cui non aveva considerato l'intervenuto matrimonio di Sc.La.Lu., quale elemento interruttivo dell'obbligazione.

Ciò posto, la Corte ha censurato le risultanze a cui è giunta la Corte d'appello e, di conseguenza, il Tribunale, sul presupposto della netta distinzione “temporale” delle domande proposte dalle intimate, ritenendo quella proposta dalla figlia Sc.La.Lu. come “contestuale”a quella avanzata dalla madre e, di conseguenza, “saldata temporalmente” con la stessa, richiamando un proprio precedente (Cass., 16 luglio 2005, n. 15100).

In virtù di tale netta distinzione, pertanto, la Cassazione ha confermato l'ormai consolidato principio secondo cui la sentenza dichiarativa della filiazione “naturale” produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell'art. 277 c.c., e, quindi, a norma dell'art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 c.c.; la relativa obbligazione si collega allo status genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l'altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l'onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 c.c.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall'art. 1229 c.c. nei rapporti fra condebitori solidali.

Non solo, la Corte, infatti, rileva anche l'omessa istruttoria su un punto fondamentale della controversia, ovvero l'intervenuto matrimonio di Sc.La.Lu., tale da far cessare qualsivoglia obbligo al mantenimento da parte del padre.

Osservazioni

La Suprema Corte, con la sentenza in commento, respinge in maniera netta l'ulteriore tentativo di porre in discussione la costituzionalità dell'art. 270, c.c. in ordine alla imprescrittibilità dell'azione di accertamento giudiziale della paternità esercitata dal figlio, seguendo le orme del Legislatore del 1975, ovvero del leitmotiv che ha percorso tutta la riforma del diritto di famiglia: da un lato, l'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi ma, soprattutto, la tutela forte nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio, fino a quel momento, fortemente discriminati sia in ambito sociale che giuridico. Partendo da tale presupposto, pertanto, oltre che dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 58/1967, con cui veniva abrogato l'art. 271 c.c., secondo cui l'azione per ottenere giudizialmente la dichiarazione di paternità naturale poteva essere promossa dal figlio entro i due anni dal raggiungimento della maggiore età, la Cassazione sancisce in via definitiva il cosiddetto favor veritatis, ovvero l'esatta corrispondenza tra verità biologica e certezza formale della filiazione. Tale aspetto, infatti, era già stato affrontato recentemente dalla medesima Corte (cfr. sent. n. 24292/2016), questa volta dal punto di vista “dell'espressione del diritto della persona”, la quale aveva rilevato come il diritto del figlio ad uno status filiale corrispondente alla verità biologica costituisse una delle componenti più rilevanti del diritto all'identità personale unito senza soluzione di continuità alla vita individuale e relazionale non soltanto nella minore età, ma in tutto il suo svolgersi. Non solo, tale incertezza è stata anche qualificata come condizione di disagio e vulnus allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità riferibile ad ogni stadio della vita, aprendo così scenari ad eventuali profili risarcitori. Tale principio, ovvero quello dell'”identità personale del figlio”, nella fattispecie in esame è stato posto in contrasto con il diritto di difesa del padre, anch'esso costituzionalmente garantito, leso dal trascorrere del tempo, nonché dalla eventuale inerzia del figlio nel compiere atti conservativi del patrimonio. Ebbene, la conclusione a cui è giunta la Corte si appalesa quanto mai chiara nel ritenere l'aspettativa del padre totalmente subordinata alle esigenze di vita e di riconoscimento dell'identità personale del figlio, attesa la natura prettamente scientifica degli accertamenti sottesi a tali tipologie di controversie. In tal modo, dunque, la Corte ha dimostrato di voler seguire il percorso iniziato dal Legislatore nel 1975, ed integrato nel 2012 con la nota l. n. 219/2012.

La seconda tematica affrontata dalla Corte di Cassazione attiene agli effetti giuridici ed alle tempistiche della sentenza dichiarativa della filiazione “naturale”, in special modo nei rapporti interni tra i coniugi, ed anche in questo caso fonda la propria argomentazione su una risalente pronuncia emessa, tra le altre questioni in essa riscontrabili, su questo tema (cfr. Cass., sent. n. 15100/2005). Ebbene, la Corte di Cassazione censura la sentenza emessa dalla Corte territoriale nella parte in cui, nonostante la netta distinzione temporale delle domande operata dalle attrici – spese di mantenimento, istruzione ed educazione dalla nascita alla sentenza richieste dalla madre e determinazione dell'assegno di mantenimento da parte della figlia – aveva avallato la tesi del Tribunale dichiarando legittima la decorrenza dell'assegno di mantenimento dal 13 febbraio 2001, ossia dalla data della sentenza che aveva accolto la domanda di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento operato da colui che all'epoca era il coniuge di Sc.Ma.An., assegnando in tal modo alla sola figlia somme di cui non era destinataria. Ebbene la Suprema Corte, censurando tale pronuncia, ha rilevato come, ferma restando l'esatto perimetro temporale delle domande, la richiesta di determinazione dell'assegno da parte di Sc.La.Lu. doveva ritenersi “saldata” temporalmente al quella della madre – limitata nel suo termine finale alla emissione della sentenza – e dunque contestuale ad essa, anche in ragione del fatto che, al momento di proposizione della relativa azione la figlia era maggiorenne e, di conseguenza, era impossibile ritenere la sua pretesa confusa con quella della genitrice. Ciò posto il Tribunale, e di conseguenza la Corte d'appello, aveva errato nell'assegnare alla figlia somme che erano state richieste dalla madre a far data dalla nascita di quest'ultima sino alla sentenza, ed alla figlia medesima un importo a titolo di mantenimento avente decorrenza antecedente rispetto alla domanda formulata. La sentenza impugnata viene così cassata con indicazione del principio di diritto.

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